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Chiara Volpato
Dipartimento di Psicologia, Università di Milano-Bicocca
La memoria sommersa.
Perdita di beni e perdita di identità nell’abbandono delle colonie italiane
La memoria collettiva è frutto di un lavoro sociale volto a ricostruire il passato in funzione del
presente. Dopo eventi drammatici, si verificano sovente periodi di silenzio e ruminazione, i quali,
secondo gli psicologi sociali, compongono dei cicli trentennali, che permettono di prendere le
distanze dai fatti più dolorosi per consentire il dispiegarsi del ricordo. Non tutto il passato viene
però recuperato; l’oblio gioca un ruolo importante nella definizione del presente attraverso la
rimozione e cancellazione di avvenimenti che risultano superflui o disturbanti per l’identità
collettiva. In Italia è a lungo mancata una rielaborazione condivisa dell’avventura coloniale. Solo in
anni recenti, si è cominciato a ricordare e storicizzare tale esperienza, riportando alla luce ricordi,
vissuti, conflitti. Il percorso risulta però ancora largamente incompleto per il perdurare di molteplici
zone d’ombra.
Il presente contributo ha l’obiettivo di presentare il contributo della psicologia sociale
all’analisi dei processi di ricordo collettivo dell’esperienza coloniale. Esso si divide in tre parti: una
breve presentazione delle riflessioni che, a partire da ricerche empiriche, la psicologia sociale ha
proposto sulla memoria del passato coloniale e la sua incidenza sul presente; una ricognizione sui
lavori che sono stati compiuti in ambito italiano; un’esplorazione sulla perdita dei beni e la perdita
di identità nell’abbandono delle colonie italiane.
1. Psicologia sociale, passato coloniale, memoria collettiva
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Molti studi psicosociali focalizzano l’attenzione su fenomeni ereditati dal colonialismo. Per quanto
riguarda la considerazione del passato coloniale, la psicologia sociale ha sviluppato due principali
filoni di ricerca: lo studio dei processi cognitivi e affettivi negli ex colonizzatori e negli ex
colonizzati, e lo studio delle emozioni collettive provocate dal ricordo dei fatti del passato nelle
generazioni successive.
L’eredità coloniale negli ex colonizzatori e negli ex colonizzati.
Una serie di studi si sono concentrati sulla memoria collettiva dell’epoca coloniale. Sono stati i
lavori pionieristici di Maurice Halbwachs (1925/1994; 1950/1968) a porre l’accento sul fatto che la
memoria è plasmata dalle appartenenze collettive, è legata ai ‘quadri sociali’ nei quali l’individuo è
inserito, vale a dire le collettività di cui fa parte e le pratiche che a tali appartenenze sono associate.
Essa può essere definita come l’insieme delle rappresentazioni condivise del passato basate
sull’identità comune ai membri di un gruppo. La memoria collettiva contribuisce alla definizione
dell’identità di un gruppo attraverso il ricordo selettivo e la giustificazione degli atti compiuti;
proprio perché essenziale alla vita di un gruppo, può tradursi in una risorsa retorica efficace, a volte
pericolosa, a disposizione degli attori politici (Pennebaker, Paez & Rimé, 1997).
La memoria della colonizzazione è diversa per colonizzati e colonizzatori. Lo hanno
mostrato Klein e Licata (2003) analizzando le rappresentazioni dei gruppi e delle loro relazioni nei
discorsi di Patrice Lumumba, leader congolese che guidò il processo di indipendenza del suo paese
dal Belgio tra il 1958 e il 1961. La ricerca ha messo in luce come le rappresentazioni dei gruppi
variassero in funzione del momento storico in cui i discorsi erano pronunciati e dell'audience
davanti alla quale venivano pronunciati. Di fronte a una platea congolese la rappresentazione
proposta da Lumumba opponeva l'immagine dei coloni cattivi a quella dei congolesi buoni, mentre
di fronte a una platea belga la rappresentazione sottolineava la necessità della cooperazione tra i due
gruppi. Nel primo caso, lo scopo del leader era quello di mobilitare un popolo ancora influenzato
dall’ideologia paternalista dei colonizzatori, nel secondo quello di assicurarsi l’indispensabile
collaborazione dei vecchi, ma ancora potenti, padroni. L’apparente incoerenza celava quindi un
progetto politico coerente: la creazione di una nazione stabile e unita.
In un altro lavoro, Licata e Klein (2005) hanno confrontato le rappresentazioni sociali della
colonizzazione belga del Congo, interrogando vecchi colonizzatori belgi e vecchi colonizzati
congolesi. I primi legittimavano l’azione coloniale con la necessità di modernizzare le infrastrutture
del paese e di portare i benefici della civiltà a delle popolazioni dipendenti e immature; la loro
memoria dell’azione coloniale era imperniata sulla missione civilizzatrice dei bianchi e sullo
stereotipo paternalistico degli africani. I congolesi, invece, pur riconoscendo alcuni benefici della
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colonizzazione, ne sottolineavano soprattutto gli aspetti negativi: la guerra, le atrocità, i lavori
forzati.
Altri studi si sono dedicati all’approfondimento della “mentalità coloniale” ancor oggi
presente in individui e gruppi soggetti, in passato, al giogo coloniale. Tali studi nascono dalle
analisi di Frantz Fanon (1952, 1961) sulle conseguenze psicologiche del colonialismo. Combinando
in modo originale concetti psicoanalitici e analisi socio-economiche di ispirazione marxista, Fanon
ha descritto l'alienazione dei colonizzati come diretta conseguenza della sopraffazione coloniale. I
colonizzati, a suo parere, vivono in una situazione che perpetua un sentimento di inferiorità, dovuto
alla svalutazione della loro cultura e alla parallela imposizione dei valori dei colonizzatori.
Sperimentano una scissione, che li porta a comportarsi in modo diverso a seconda che il loro
interlocutore sia bianco o nero. L’unica soluzione, per far fronte al disagio, è l’imitazione della
cultura dei dominanti: pelle nera, maschere bianche, come recita il titolo del suo primo libro.
L'opera di Fanon ha influenzato una vivace corrente di studi, che analizza le conseguenze
che il colonialismo continua ad avere sul benessere psicologico delle persone che ne hanno avuto
esperienza, diretta o indiretta. Nelle Filippine, in India, in America Latina, nelle comunità indigene
del Nord America, delle isole del Pacifico, dell’Australia sono in corso ricerche volte a esaminare i
modi in cui il funzionamento psicologico degli individui è stato ed è influenzato dal passato
coloniale, vale a dire “l’enorme lavoro sociale, psicologico e infrastrutturale” necessario a produrre
una persona colonizzata (Okazaki, David & Abelmann, 2008, p. 96). Atteggiamenti, credenze,
comportamenti che riflettono l’odio di sé e il desiderio di emulare il gruppo dominante a spese della
propria eredità culturale sono stati documentati a Portorico (Varas-Diaz & Serrano-Garcia, 2003), in
Messico (Codina & Montalvo, 1994), tra i nativi americani (Duran, 2006), in Sud Africa (Richards
et al., 2005).
Ricerche parallele sono state condotte sugli emigranti che risiedono nelle ex potenze
coloniali. Si è indagata la “mentalità coloniale”, intesa come una “forma di oppressione
interiorizzata” (David & Okazaki, 2006, p. 1), una forma mentis originatasi durante il dominio
diretto
e
rinforzata
da
generazioni
di
“colonialismo
interno”
e
dalla
inarrestabile
occidentalizzazione del mondo. Un esempio di tali ricerche è lo studio degli effetti dannosi della
mentalità coloniale sulla salute mentale degli immigrati filippini negli Stati Uniti, che, convinti
dell’inferiorità del loro gruppo, rigettano acriticamente tutto ciò che è filippino per preferire,
altrettanto acriticamente, tutto ciò che è americano.
I conti con il passato: il ruolo delle emozioni collettive.
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Una seconda prospettiva di ricerca, che ha conosciuto negli ultimi anni un grande sviluppo, ha
l’obiettivo di analizzare il ruolo che i sentimenti provati da una comunità per le azioni passate dei
suoi membri hanno nel determinare atteggiamenti e politiche verso gruppi aggrediti o discriminati.
Il primo studio ha riguardato il sentimento di colpa; è stato condotto da Doosje,
Branscombe, Spears e Manstead (1998), che hanno analizzato l’esistenza di un senso di colpa
collettivo, nel popolo olandese, per i comportamenti tenuti in epoca coloniale verso gli indonesiani.
I risultati hanno mostrato che gli olandesi che si identificano poco con la loro nazione percepiscono
più senso di colpa e sono più disposti a mettere in atto misure di riparazione nei confronti degli
indonesiani.
Il lavoro di Doosje e colleghi ha mostrato che le persone possono provare emozioni anche in
relazione ad avvenimenti a cui non hanno preso parte. L’emozione analizzata, la colpa, è
un’emozione spiacevole, che implica la consapevolezza di aver sbagliato e si basa sulla percezione
di una discrepanza tra codice morale e comportamento. La novità del lavoro è di aver indicato
l’esistenza di un senso di colpa collettivo, provato in conseguenza del comportamento di altri
membri del gruppo nazionale. Diversamente da quanto succede a livello interpersonale, in cui la
colpa nasce più facilmente e in modo più intenso se la relazione è intima, a livello collettivo il senso
di colpa può essere esperito anche a proposito di relazioni lontane. Le ricerche condotte in questo
campo si basano sull’ipotesi che il senso di colpa collettivo produca degli effetti benefici:
l’adozione di comportamenti pro sociali destinati a riparare i torti commessi.
Va però sottolineato che il senso di colpa collettivo non segue automaticamente la
percezione di comportamenti sbagliati del proprio gruppo. I dati finora accumulati indicano che si
tratta di un fenomeno poco frequente, probabilmente perché comporta l’incorporazione di elementi
negativi nell’identità sociale. Accettare la responsabilità di una trasgressione morale commessa dal
gruppo costituisce una minaccia per l’identità sociale dei suoi membri, che tenteranno quindi di
“dimenticare”, minimizzare o negare gli eventi passibili di scatenare l’emozione negativa. Per farlo,
potranno provare a riparare i torti commessi, ma, più spesso, metteranno in opera delle strategie per
evitare l’emozione spiacevole. Una tale “protezione” dell’immagine del gruppo può continuare per
diverse generazioni, come dimostrano i casi del Belgio e dell’Italia, i cui crimini coloniali sono stati
per decenni censurati e ignorati dall’opinione pubblica (si vedano i lavori di Licata & Klein, 2005,
per il Belgio, e di Volpato, 2009, e Volpato & Gabbiadini, 2013, per l’Italia). Un esempio analogo
viene dall’Australia, i cui maggiori esponenti politici hanno cercato di respingere la nozione stessa
di colpa collettiva verso gli aborigeni, sostenendo che gli australiani non possono essere considerati
responsabili per le politiche passate (Augoustinos & LeCouteur, 2004).
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Alcuni studi hanno cercato di identificare antecedenti e conseguenze della colpa collettiva.
Doosje e colleghi (1998) avevano sostenuto che più ci si identifica con il gruppo di appartenenza,
più si è motivati a difenderne l’immagine e a rifiutare quindi l’idea che possa essersi macchiato di
atti disonorevoli. Non tutte le ricerche successive hanno confermato questo assunto. Per spiegare le
discrepanze, Roccas, Klar e Liviatan (2004) hanno suggerito che la relazione tra identificazione e
colpa collettiva possa dipendere dal significato dato all’identificazione. Se identificazione significa
avere una visione acriticamente positiva del gruppo di appartenenza, essa sarà legata alla credenza
che il gruppo sia migliore di altri e associata a fenomeni di rigetto delle informazioni negative su di
esso. Se identificazione significa, invece, un attaccamento positivo, ma critico con il gruppo, essa
dovrebbe essere associata a espressioni di disapprovazione.
Un altro antecedente della colpa collettiva è dato dalla percezione della responsabilità del
gruppo per le azioni negative commesse. Ci sono vari modi in cui tale percezione può essere evitata
o attenuata, ad esempio colpevolizzando il gruppo rivale o attribuendo la colpa a pochi membri
devianti del proprio gruppo (le cosiddette “mele marce”). Un terzo antecedente è la legittimazione
del male compiuto dal proprio gruppo, presentando, ad esempio, le azioni negative come semplice
reazione a precedenti azioni del gruppo contrapposto o sostenendo che il suo comportamento non è
stato peggiore di quello di altri gruppi. In un interessante lavoro, Branscombe e Miron (2004) hanno
mostrato che partecipanti, americani, percepivano le sofferenze inflitte dagli inglesi agli indiani
come più gravi delle stesse sofferenze inflitte dagli inglesi agli africani. Il risultato è stato
interpretato come un tentativo di difendere il proprio gruppo, responsabile di essersi comportato allo
stesso modo degli inglesi nei confronti degli africani.
Per quanto riguarda le conseguenze della colpa, studi effettuati in diversi paesi hanno
confermato il legame tra la percezione della colpa collettiva e il sostegno ad atti di riparazione
(Swim & Miller, 1999; Iyer, Leach & Crosby, 2003; McGarty et al., 2005). Ricerche successive
hanno però suggerito che altre emozioni possono giocare un ruolo importante. Leach, Iyer e
Pederson (2006) hanno, ad esempio, esaminato il ruolo di colpa e collera nell’appoggio a politiche a
favore delle comunità aborigene in Australia, trovando che la collera era il predittore più forte della
disponibilità ad azioni di riparazione. Iyer, Schmader e Lickel (2007) hanno invece investigato le
implicazioni politiche della rabbia, della colpa e della vergogna, provate da cittadini americani e
inglesi per le sofferenze causate dall’occupazione dell’Iraq, trovando che è la rabbia a determinare
la presenza di intenzioni riparatorie.
Altri autori hanno indagato il ruolo della vergogna collettiva. La colpa è un sentimento
centrato sul comportamento – “ho fatto qualcosa di male” – mentre la vergogna è centrata
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sull’immagine di sé – “sono cattivo”. La colpa collettiva deriva dalla percezione della responsabilità
del proprio gruppo per misfatti passati ed è associata al desiderio di riparazione; la vergogna
collettiva è suscitata dalla percezione che le azioni del gruppo siano fuori controllo e che esso possa
essere giudicato debole o incompetente; nel caso della vergogna l’accento è quindi posto soprattutto
su aspetti reputazionali. Lo stesso avvenimento – presente o passato – può scatenare l’una o l’altra
emozione, o le due emozioni insieme, a seconda del modo in cui è interpretato. Le conseguenze
sono però diverse: la colpa facilita la riparazione del male commesso; la vergogna collettiva, come
la vergogna personale, fa sorgere il desiderio di ritirarsi dalle relazioni sociali, il che può portare a
evitare situazioni che ricordino l’avvenimento vergognoso, inclusi i rapporti con le vittime.
Brown e colleghi (2008) hanno analizzato la presenza di vergogna, colpa, collera collettive
negli atteggiamenti assunti dai cileni di origine europea verso i Mapuche, un gruppo indigeno,
soggetto nel passato a pesanti discriminazioni. Gli autori hanno trovato che la colpa collettiva
determina atteggiamenti di riparazione. La relazione tra vergogna e riparazione è invece mediata dal
desiderio di migliorare la reputazione del gruppo di appartenenza.
Brown e Čehajić (2008) hanno proseguito il lavoro, ipotizzando che i legami tra colpa e
riparazione e tra vergogna e riparazione siano diversi. Nel primo caso il legame dovrebbe basarsi su
un sentimento di empatia per il gruppo estraneo, che aumenta la consapevolezza delle conseguenze
negative delle azioni e favorisce il desiderio di compensarlo per il male subito. Nel secondo caso,
invece, il legame dovrebbe essere dato da un sentimento di commiserazione per il gruppo di
appartenenza, basato sulla credenza che sia esso la vera vittima. Tali ipotesi sono state sottoposte a
prova in due studi condotti su serbi bosniaci, interpellati a proposito dei crimini compiuti in Bosnia
Erzegovina tra il 1992 e il 1995. I risultati indicano che, effettivamente, la relazione tra colpa e
riparazione è mediata dall’empatia per il gruppo avversario, mentre la relazione tra vergogna e
riparazione è mediata dall’autocommiserazione.
Nel complesso, i risultati empirici indicano che tutte e tre le emozioni – collera, colpa,
vergogna – possono portare ad atteggiamenti costruttivi. La collera sembra importante soprattutto
nel caso di avvenimenti recenti, come la guerra in Iraq, mentre i sentimenti di colpa e vergogna
sembrano prioritari nel caso di avvenimenti più lontani nel tempo. Provare un’emozione di colpa o
di vergogna collettive porta ad atteggiamenti favorevoli e a politiche di riparazione. Le due
emozioni non sembrano però seguire lo stesso percorso: la colpa è mediata dall’empatia per il
gruppo perseguitato, la vergogna dal desiderio di migliorare la reputazione del proprio gruppo. Il
sentimento di vergogna sembra portare le persone a cercare la via più facile per lenirlo; in alcune
situazioni tale via può essere la riparazione, ma in altre l’emarginazione o la colpevolizzazione delle
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vittime. La vergogna può quindi contribuire a innescare nuovi problemi più che a riparare quelli
passati.
2. Gli studi psicosociali sul colonialismo italiano
L’imperialismo italiano è stato una variante, tardiva e minore, del vasto e potente imperialismo
europeo (Labanca, 2002). L’avventura coloniale italiana, breve nel tempo e contenuta nello spazio,
ha conosciuto una fine brusca e ingloriosa, dovuta alla sconfitta militare a opera degli inglesi; il
fatto che questa sconfitta si inserisse nell’immane tragedia della seconda guerra mondiale ha
contribuito alla sua rimozione dalla coscienza civile e dalla memoria collettiva del paese. Ancora
oggi silenzio, oblio, sentimenti di autoassoluzione circondano il ricordo di questi eventi e la cosa è
tanto più rilevante se si pensa che vi parteciparono in modo attivo quasi mezzo milione di uomini,
cioè circa uno su cinque dei giovani maschi che avevano tra i 20 e i 25 anni nel 1935; il che vuol
dire che la guerra coinvolse direttamente circa una famiglia su venti (Labanca, 2005).
Per contribuire alla comprensione di tali fenomeni, gli psicologi sociali hanno indagato il
contenuto dell’immaginario coloniale, che tanta importanza ha avuto nel fornire la cornice
ideologica di legittimazione della conquista dell’Africa italiana; altri studi si sono concentrati sulla
straordinaria persistenza di tale immaginario nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale e
sulle ragioni di tale persistenza, prima fra tutte il mito degli Italiani brava gente. Un ultimo nucleo
di ricerche ha infine anche in Italia riguardato le emozioni collettive legate alla memoria
dell’avventura africana.
Diffusione e persistenza dell’immaginario coloniale.
Il contenuto dell’immaginario coloniale è stato indagato analizzando la rappresentazione dei popoli
colonizzati presentata dalla Difesa della Razza,
periodico pubblicato tra il 1938 e il 1943 e
considerato una sorta di prototipo della propaganda fascista. In diverse ricerche, sono stati
sottoposti ad analisi del contenuto articoli riguardanti gli ebrei (421 articoli, pari al 32% dell’intero
corpus della rivista), gli italiani (325 articoli, pari al 25%), gli abitanti delle colonie (232 articoli,
pari al 17.5%) e 1313 immagini, relative a ebrei e popoli colonizzati (Durante, Volpato & Fiske,
2010; Volpato & Cantone, 2005; Volpato & Durante, 2003; Volpato, Durante & Cantone, 2007;
Volpato et al., 2010). I risultati hanno rivelato la presenza di un’immagine uniformemente negativa
di africani e “meticci”. Gli africani venivano presentati come bambini, pazzi, animali e considerati,
nel loro insieme, un gruppo di basso status, immorale, intellettualmente debole e incapace di
assimilare la cultura europea. Il pregiudizio esibito nei loro confronti oscillava tra paternalismo e
disprezzo: quando accettavano la dominazione coloniale, erano considerati sudditi fedeli; quando
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non accettavano il potere italiano diventavano “ribelli”, “selvaggi”, “belve” prive di intelligenza e
calore. Nei confronti dei meticci, invece, non vi era traccia di paternalismo, erano oggetto di un
pregiudizio univalente di disprezzo. Considerati un gruppo di infimo status, venivano raffigurati
come incapaci, privi di calore, ostili, ripugnanti, inferiori persino agli animali. L’analisi figurativa
ha mostrato come gli africani venissero frequentemente presentati mediante l’impiego di immagini
deumanizzanti, che li accostavano alle scimmie antropomorfe.
La rappresentazione veicolata dalla Difesa della Razza era coerente con il quadro delineato
dalle scienze sociali del XIX secolo, che legittimava la colonizzazione invocando l’inferiorità dei
popoli a essa sottoposti. Si ostinava però a proporre tale quadro “fuori tempo massimo” (De Luna,
2006, p. 91), vale a dire in un momento in cui le principali potenze coloniali si stavano rendendo
conto della necessità di cambiare corso e le scienze sociali erano ormai passate dalla race
psychology, che aveva contraddistinto gli studi dei primi tre decenni del Novecento, all’analisi di
pregiudizi e stereotipi (Samelson, 1978). In Italia, nel periodo fascista, l’ideologia razzista
continuava però a trovare sostenitori convinti e tenaci negli intellettuali di regime, tra i quali, in
ambito psicologico, spiccava la figura di Mario Canella (Volpato, 2000, 2001, 2014).
L’immaginario coloniale non è scomparso dalla cultura italiana nemmeno con la fine
dell’impero. Ha invece conosciuto una singolare, anche se per decenni poco evidente, persistenza,
come documentato da un importante lavoro di Paola Tabet (1997), che, grazie all’analisi di migliaia
di temi scritti da alunni delle scuole elementari e medie, ha messo in luce come i bambini nati negli
anni Ottanta del Novecento riattualizzassero, nei confronti degli immigrati, atteggiamenti e vissuti
desunti dall’immaginario coloniale.
Un’altra prova di tale persistenza è stata recentemente portata da Silvia Camiloti (2014), che
ha analizzato la rappresentazione che la narrativa ha dato e continua a dare dell’avventura coloniale
italiana. Secondo l’autrice, nella maggior parte delle opere ambientate in Eritrea ed Etiopia
emergono tracce vistose di continuità con l’immaginario dell’epoca fascista e prefascista,
nonostante l’esibita volontà di prendere le distanze dall’esperienza e dalla mentalità coloniale.
Camilotti mette in luce come alcuni romanzi - ad esempio L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli
(2008), Un mattino a Irgalem di Davide Longo (2010), L’inattesa piega degli eventi di Enrico
Brizzi (2008) - siano portatori di luoghi comuni e trasmettano stereotipi vieti e datati, mentre altri,
come L’onore delle armi di Alessandro Tamburini (1997), offrono una lettura più critica
dell’esperienza coloniale. Meno stereotipate appaiono le narrazioni relative al mondo libico: Il
deserto della Libia di Mario Tobino (1952) riflette criticamente sulla colonizzazione italiana e sui
rapporti tra colonizzatori e colonizzati, mentre Il giovane maronita di Alessandro Spina (2006) dà
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voce ai colonizzati analizzandone complessità e debolezze. Infine, Ghibli di Luciana Capretti
(2004) narra la jalaa, la cacciata degli italiani dalla Libia, voluta da Gheddafi nel 1969.
Scorrendo la rassegna, si constata però che le opere più lette e diffuse sono proprio quelle
che più riproducono l’immaginario coloniale. Si pensi, per gli anni più recenti, ai libri di Lucarelli e
Brizzi, e, per i decenni passati, a Settimana nera di Enrico Emanuelli (1961), più volte ristampato.
Dal romanzo, che ripropone il consueto paternalismo che connota i rapporti tra bianchi e neri e
l’altrettanto consueta oggettivazione sessuale delle donne africane, fu tratto nel 1963 un film,
Violenza segreta, diretto da Giorgio Moser.
Per cercare di comprendere la persistenza dell’immaginario coloniale e l’ignoranza diffusa a
tale proposito tra gli italiani, Leone e Mastrovito (2010) hanno pensato di indagare le descrizioni
dell’invasione dell’Etiopia contenute nei libri di storia usati nelle scuole superiori. Dall’indagine è
risultato che poco spazio in tali testi è dedicato alla descrizione degli orrori commessi dagli italiani.
In genere, la conquista è presentata in un paragrafo del capitolo sul fascismo, illustrato da immagini
d’epoca, spesso prodotte dalla stessa propaganda del regime. Solo pochi testi descrivono i crimini di
guerra in modo chiaro e dettagliato, senza impiegare eufemismi ed elusioni.
Il mito degli Italiani brava gente.
Il silenzio, l’oblio, la rimozione che circondano la memoria del passato coloniale sono
principalmente dovuti alla presenza di quello che è stato definito il mito degli Italiani brava gente,
una credenza auto-assolutoria che descrive gli italiani come colonizzatori tolleranti, umani, incapaci
di crudeltà. Tale credenza, presente fin dalle prime fasi dell’avventura coloniale, si è arricchita con
lo scorrere del tempo di componenti relative a edulcorate rappresentazioni del comportamento dei
militari italiani durante il secondo conflitto mondiale e del comportamento della popolazione civile
nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista (Bidussa, 1994; Burgio, 2010; Del Boca,
2005). Nel dopoguerra, il mito si è mantenuto perché funzionale a una restaurazione dell’immagine
nazionale. Esso ha così contribuito a diffondere una rappresentazione positiva dell’italiano, basata
sull’enfatizzazione di tratti legati al calore e alla competenza dei singoli. La peculiarità italiana non
deriva comunque dalla presenza del mito, dato che altri colonialismi sono stati accompagnati da
analoghi strumenti di autoassoluzione (Vala, Lopes & Lima, 2008), ma dal fatto che nel nostro
paese tale rimozione perdura ancor oggi e l’opinione pubblica resta nella sua maggioranza
impermeabile agli inviti a riflettere criticamente sul passato.
Uno studio recente ha analizzato la persistenza del mito degli Italiani brava gente e i suoi
effetti sugli atteggiamenti e i comportamenti odierni degli italiani nei confronti degli immigrati. La
ricerca è stata condotta chiedendo a uomini e donne di rispondere a un questionario che includeva,
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tra altri costrutti, una scala di misurazione del mito appositamente costruita. I risultati hanno
mostrato che, più si aderisce al mito, meno volontà si ha di incontrare e aiutare gli immigrati
provenienti dalle ex colonie (Volpato et al., 2012).
La memoria mancata: le emozioni collettive in Italia.
Gli storici stimano in 100.000 i morti nelle operazioni di conquista e riconquista della Libia tra il
1911 e il 1932, e in 400.000 i morti in Etiopia ed Eritrea tra il 1887 e il 1941 (Del Boca, 19761984, 1986-1988; Labanca, 2002). Partendo da questi dati, si è cercato di indagare, in una serie di
ricerche, quanto gli italiani, giovani e meno giovani, conoscano la realtà dell’occupazione italiana
delle colonie, quali giudizi ne diano, quali emozioni accompagnino tali giudizi. I risultati hanno
confermato la scarsa conoscenza della storia coloniale del nostro paese e mostrato come le emozioni
provate di fronte al racconto delle atrocità commesse dai nostri connazionali siano la vergogna e la
rabbia, sentimenti collegati alla volontà di riparare il male compiuto nei confronti delle popolazioni
delle ex colonie. Non è invece emerso un significativo senso di colpa collettivo, emozione che
richiede una maggiore sedimentazione delle conoscenze e una profonda e consapevole elaborazione
dell’evento (Mari et al., 2010).
Sono in corso ulteriori studi, tesi a esaminare quali siano i processi che inibiscono negli
italiani l’assunzione di responsabilità per i comportamenti negativi tenuti nel passato. Sulla scorta
della lezione di Bandura (1999), si sta verificando l’incidenza dei meccanismi di disimpegno morale
quali: giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, dislocazione della
responsabilità. I primi risultati sottolineano il ruolo del confronto vantaggioso con i tedeschi: il
ricordo delle atrocità commesse dal nazismo consente agli italiani di sentirsi migliori e facilita
quindi l’esonero delle responsabilità (Mari et al., 2014; sul tema si veda anche Focardi, 2013).
3. La memoria sommersa. Perdita dei beni e perdita di identità nell’abbandono delle colonie
italiane
La memorialistica relativa alla conquista dell’Africa italiana è relativamente ricca; solo per quanto
riguarda la guerra d’Etiopia conta circa 300 volumi, in gran parte editi prima del 1945, scritti quindi
subito dopo l’occupazione; com’è naturale, essi riflettono i contenuti della propaganda del regime e
tramandano una memoria basata sul mito della vittoria contro un nemico barbaro e subumano. Solo
saltuariamente le memorie accennano alle atrocità commesse durante la guerra e l’occupazione (in
alcuni testi si parla, ad esempio, della “caccia grossa” agli indigeni o del “fuoco purificatore” che
brucia i villaggi); tutte tacciono sull’impiego dei gas. Ne emerge un’autocensura collettiva,
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documentata dal confronto tra scrittura pubblica e privata. Ciro Poggiali, inviato del Corriere della
Sera, scrisse, ad esempio, cronache ossequiose verso il regime in “Albori dell’impero”, edito nel
1937, ma documentò le brutalità compiute dagli italiani nel suo diario personale, pubblicato nel
1971 (Labanca, 2001, 2005; Le Houérou, 1994; Taddia, 1996).
Nelle poche memorie apparse nei decenni del dopoguerra domina un’indubbia volontà di
autoassoluzione. Dopo il 1945, in una sorta di afasia collettiva, i pochi che presero la parola lo
fecero in continuità con la propaganda del regime sconfitto; nel complesso, furono comunque anni
di silenzio: l’amnistia per i crimini commessi produsse un’amnesia generalizzata, che bloccò ogni
riflessione critica sul passato (Ricoeur, 2000).
Nell’intera produzione memorialistica relativa alle imprese coloniali, sono poche e scarne le
pagine dedicate alla sconfitta e all’abbandono delle colonie. Le memorie maschili si soffermano
rapidamente sull’interruzione del lavoro e sulla guerra contro gli inglesi. Le rare memorie femminili
ci dicono qualcosa di più sulla sofferenza provata nel lasciare proprietà, affetti, sogni. Le colonie
italiane sono state meno maschili di quanto comunemente si creda. Le donne italiane che si
trasferirono in Africa non furono poche, il loro numero conobbe una vera e propria impennata negli
ultimi anni dell’Impero. Nel 1931, ad esempio, un censimento rilevava che tra i 4188 italiani
presenti in Eritrea, quasi la metà,1880, era costituito da donne. In Etiopia la situazione fu diversa,
ma, dopo la conquista di Addis Abeba, la presenza delle italiane crebbe in maniera significativa e
costante; fu femminile il 38% degli arrivi dell’ultimo periodo al punto che, nel 1940, esse
rappresentavano il 20% dell’intero contingente italiano. Il dato dell’ultimo censimento relativo al 31
dicembre 1939 dice che in quel momento nell’Africa Orientale Italiana erano presenti 26.618
donne. In effetti, dopo la conquista dell’Etiopia, il regime promosse con ogni mezzo gli arrivi
femminili dall’Italia allo scopo di favorire l’insediamento stabile dei coloni e di impedire la crescita
del meticciato (Ghezzi, 2001, 2003; Di Lalla, 2014).
La stratificazione sociale delle italiane in colonia può essere immaginata come una piramide
con al vertice le rappresentanti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia istituzionale, politica e militare
(guidate in un primo tempo da Donna Ines, moglie di Graziani, e successivamente dalla consorte del
Duca d’Aosta, Anna), al centro le relativamente poco numerose donne del ceto operaio e contadino,
alla base le piccole e
medie borghesi. Le borghesi costituivano infatti il gruppo sociale più
numeroso, in buona parte composto da mogli di funzionari, ufficiali, professionisti, imprenditori;
alcune, laureate in lettere, insegnarono nelle scuole, altre furono giornaliste, scrittrici, artiste. Nelle
strutture sanitarie trovarono posto anche diverse laureate in medicina, a causa dello scarso
entusiasmo manifestato dai medici italiani verso il trasferimento nelle colonie. Le appartenenti alla
piccola borghesia lavorarono come stenografe, dattilografe, archiviste, ragioniere, infermiere, negli
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uffici governativi, nelle imprese industriali, negli ospedali. Circa 650 furono, inoltre, le religiose,
distribuite in vari ordini, tra cui quello della Consolata contava il maggior numero di presenze, e
numerose le “cuginette dell’Impero”, prostitute inviate dal regime con l’obiettivo di limitare i
contatti tra uomini italiani e donne africane.
La vita quotidiana delle italiane in Africa presentava una serie di difficoltà, ma anche molti
vantaggi. La disoccupazione era inesistente, gli italiani guadagnavano bene; le donne potevano
avere accesso a lavori ben remunerati e a un tenore di vita decisamente superiore a quello a cui
erano abituate in Italia. Disponevano di una servitù abbondante e a basso costo; nei centri urbani
vivaci rapporti sociali e molte occasioni d’incontro permettevano di godere di una libertà superiore
a quella conosciuta in Italia. Nonostante le asprezze iniziali, quindi, la vita in colonia esercitò un
fascino notevole sulla vita delle donne di ogni ceto, come emerge da molte testimonianze (Di Lalla,
2014).
Il 10 giugno del 1940, l’entrata in guerra dell’Italia colse del tutto impreparata la società
coloniale; meno di un anno dopo, nella primavera del 1941, l’impero si dissolse nel nulla di fronte
all’avanzata inglese. Nella sconfitta, le donne si trovarono sole e impreparate, con vecchi e bambini
a carico; al momento dell’entrata delle truppe inglesi ad Addis Abeba e ad Asmara, in una specie di
prova generale di quanto sarebbe successo l’8 settembre 1943, i vertici imperiali non si curarono di
avvertirle di quanto stava succedendo, né di dar loro le istruzioni necessarie ad affrontare
l’emergenza. Lo denunciano varie testimonianze, tra le quali quella di Marta Maione Padovani, che
con il marito aveva avviato un’impresa nel settore molitorio e che, con lo pseudonimo di Brana
Nelusky, pubblicò nel 1968 un libro autobiografico, in cui racconta del suo dolore nel lasciare ogni
avere e il luogo dove aveva sognato un futuro migliore.
L’arrivo degli inglesi segnò, per le donne italiane, l’inizio di una lunga e dolorosa odissea,
che iniziò con lo sradicamento dalle case e dal lavoro, proseguì con il trasferimento nei campi di
concentramento e terminò solo con il rimpatrio nei tre viaggi delle navi bianche, che riportarono in
Italia 27.464 profughi, tra i quali 13.995 donne e 9844 bambini. La permanenza nei campi di
concentramento si svolse in condizioni di straordinaria durezza, che determinarono un’altissima
mortalità tra i bambini (Di Lalla, 2014). In un’altra testimonianza, quella della scrittrice Ain Zara
Magno, che ha pubblicato una serie di articoli sulle riviste Etiopia e L’Azione Coloniale, nei quali
narra la sua vicenda, emerge ancora una volta l’indignazione per l’abbandono delle autorità: “E la
nostra radio taceva, taceva. Col cuore in tumulto, trattenendo il fiato, avevamo ascoltato la sua voce
amica, sperando che ci desse una spiegazione di quello che avrebbero fatto di noi. Perché la nostra
radio ha sempre evitato di parlare delle donne e dei bimbi in Etiopia? Perché anche quando già le
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navi erano in viaggio per venirci a imbarcare non ha pronunziato una parola sul nostro rimpatrio?”
(citato in Di Lalla, 2014, p. 140).
Fu spezzata in questo modo l’illusione che aveva condotto tante donne italiane nelle colonie
nella speranza di conquistare un posto al sole. Le italiane dovettero lasciare bruscamente la
posizione sociale acquisita, le loro proprietà e, con esse, un tenore di vita che pensavano di avere
ottenuto in modo duraturo. Questo provocò nostalgia, rimpianto, desiderio di tornare in Africa,
come molte testimonianze lasciano capire. Le sole ad avere una reazione di rigetto per l’esperienza
furono le contadine, alle quali la società coloniale aveva riservato le condizioni più dure
nell’isolamento e nella povertà della campagna. Le giovani borghesi, invece, a cui l’Africa aveva
regalato un’inedita possibilità di espressione, provarono una nostalgia profonda per i pochi, intensi
anni trascorsi fuori dalla patria, anni nei quali avevano avuto l’illusione di essere protagoniste in
una cornice di grande bellezza. Un tema specifico che affiora nei loro ricordi è il racconto dei
sentimenti di amicizia, la più libera tra le relazioni interpersonali, che la loro nuova condizione
aveva permesso di provare con un’intensità prima sconosciuta.
Il volume di Fabrizio Di Lalla (2014) contiene un documento inedito, il diario di Jolanda
Rapaccini Sommovigo, scritto contestualmente agli avvenimenti narrati, anche se ritoccato nei
primi anni Cinquanta. Il testo racconta l’esperienza di una giovane donne, che si reca in Etiopia per
raggiungere il marito ingegnere, carica di entusiasmo e di valori fascisti: il mito del duce, la
superiorità razziale, la missione civilizzatrice dell’Italia, l’amor di patria e la fiducia nella sua
invincibilità. Pur arrivando con le consuete paure e i consueti pregiudizi verso gli africani, Jolanda
impara poco a poco a conoscerli e a stringere con alcuni di loro dei legami che la aiuteranno nei
tempi difficili. Nel periodo iniziale si dedica a casa e giardino; organizza pasti comuni per i
colleghi del marito, divenendo il punto di riferimento femminile dell’intero gruppo. L’annuncio
della guerra la coglie incinta e concentrata sui preparativi per la bimba che nascerà. All’avvicinarsi
dei combattimenti, la vediamo preparare i bauli, stiparli di biancheria, suppellettili, libri, vestiti,
regali, per nasconderli nella missione della Consolata. Emerge in questa descrizione come le donne
borghesi fossero partite per l’Africa cariche di oggetti con cui arredare e – verrebbe da dire –
“domesticare” - un continente inospitale e selvaggio. In più scene si nota il senso dell’ordine e del
decoro che i coloni si sforzavano di mantenere anche nei momenti più duri per mostrare a se stessi,
al nemico inglese, al popolo nero “l’indomita fierezza” italiana.
In alcune pagine del diario viene descritto il dolore dell’abbandono:
“Lasciare la mia casetta, il mio giardino dove non c’è filo d’erba, una piantina di fiori che io
non conosca.
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Mi guardo attorno intensamente per bene imprimermi tutto, che almeno nel cuore io possa
portare nitidamente l’immagine, il ricordo di questa casa, vero nido d’amore, di pace, di serenità,
dove è nata la bambina.
Abbiamo tanto sofferto sotto i bombardamenti, abbiamo sopportato sacrifici e privazioni e
dover abbandonare questa terra conquistata col sangue dei nostri soldati, resa bella, fiorente dal
tenace lavoro che per anni i nostri uomini hanno svolto accanitamente, non conoscendo disagi,
spesso durissimi, né ostacoli.
Avevamo ubbidito a un comando di chi voleva contro tutti questo posto per le nostre
braccia. E ognuno, dal più piccolo al più grande aveva accarezzato in quei primi anni, il sogno di
portarci la sua donna, fare lì la sua casa, la sua famiglia. E ora che per molti questo sogno era realtà,
era ben triste vederlo svanire.
Noi che siamo venute di lontano per portare ai nostri uomini e a tutti il sorriso della nostra
più sana femminilità, ora che tanti, tanti fiocchi bianchi sono fioriti, come magici fiori da leggenda,
ci strappano di qui, ci mandano via, come povere pecore senza pastore e senza ovile, non avendo
pietà per tanti teneri, innocentissimi agnelli.” (Di Lalla, 2014, pp. 202-203).
L’esperienza di abbandono delle colonie africane coinvolse uomini, donne, bambini, che in
quella temperie persero risorse materiali e un pezzo importante della propria identità personale e
sociale. Solo nelle pagine di mano femminile, però, affiorano esili tracce di quell’esperienza e del
dolore che recò con sé. Si ha l’impressione, leggendole, di essere di fronte a una memoria
sommersa, che non ha trovato voce per esprimersi o, forse, non ha trovato ascolto e si è fatta quindi
silente. Nel processo di oblio si mescolano, probabilmente, lo shock dovuto alla rapidità della
tragedia, la percezione di sconfitta e di tradimento, il sentimento dell’abbandono, ma anche la
nostalgia e un forte, spesso inconfessato, desiderio di ritorno.
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