IL REALISMO MAGICO DI GIOVANNI CESCA, PITTORE

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IL REALISMO MAGICO DI GIOVANNI CESCA, PITTORE
IL REALISMO MAGICO DI GIOVANNI CESCA, PITTORE DELLA FORMA E DELLA
LUCE, ESTETA DELLA NATURA E DELLA STORIA
Roberto Costella
(dal catalogo “Cesca – il realismo magico. Opere 1992-2002”, edizioni Cicero 2003)
Le stagioni della sperimentazione artistica
I percorsi biografici e artistici di Giovanni Cesca sono da sempre intrecciati e risultano
corrispondenti fin quasi ad identificarsi. La storia della sua ricerca estetica parte da lontano: attratto
dal mito della pittura murale rinascimentale frequenta l’Istituto d’Arte ai Carmini di Venezia,
specializzandosi in affresco sotto la guida di Remigio Butera. Ha come docenti Armando Tonello,
Mario Disertori, Franco Costalonga, e come compagni di studio Costantino Cisco e Giancarlo
David.
E’ il momento dell’apprendistato, della sperimentazione tecnica, dell’approccio teorico e operativo
al mondo dell’estetica; è la scoperta del linguaggio della figurazione, della civiltà dell’immagine
veneziana, italiana e occidentale.
La determinazione ad approfondire il percorso avviato, la maturazione di esigenze espressive
sempre più definite lo inducono ad iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, optando per
l’indirizzo pittorico.
Segue i corsi di Bruno Saetti e di Carmelo Zotti che lo introducono alla sperimentazione della
modernità; si impegna anche nell’attività incisoria, indirizzato da Arnaldo Battistoni e da Mario
Guadagnino, raffinando l’espressione grafica e operando una ricerca sul valore struttivo del segno.
Nel 1970 si diploma e consapevole delle proprie capacità tecniche, deciso ad avviare un personale
percorso estetico, comincia l’avventura nel mondo della pittura.
Il rapporto fisico e culturale con Venezia non viene comunque meno, anche se il luogo operativo è
nell’entroterra, nel paese di origine San Donà di Piave.
Qui Giovanni Cesca ha i riferimenti familiari e i legami affettivi, qui la natura e gli spazi della sua
esistenza passata e presente.
Venezia resta però riferimento imprescindibile e meta di continui ritorni associati a due
complementari ideali culturali. Lo stesso artista dichiara di sentire “due anime” che dialetticamente
si confrontano: l’esigenza della classicità rappresentata dalla luce dei mosaici marciani bizantini,
dal cromatismo dei grandi teleri rinascimentali e, dall’altra parte, l’aspirazione alla modernità
espressa dallo sperimentalismo novecentesco e dalle esperienze delle avanguardie.
Le Gallerie dell’Accademia sono elette da Giovanni Cesca a luogo museale depositario della
tradizione veneziana, mentre l’Accademia di Belle Arti rappresenta il laboratorio artistico orientato
alla contemporaneità, all’internazionalismo estetico attestato dalla collezione di Peggy
Guggenheim.
Nel periodo 1967/’68 Giovanni Cesca si avvicina alla figurazione cubista e futurista, spinto dalla
possibilità di scomposizione e geometrizzazione della forma, dalla volontà di analizzare le leggi
costitutive della realtà oggettuale e spaziale, dalla possibilità di conquistare l’essenza delle cose,
dello spazio e del movimento.
L’artista avvia un percorso di analisi stilistica e di sperimentazione tecnica delle esperienze
estetiche più significative del Novecento.
E’ una ricerca che nell’arco temporale 1969/’74 orienta gli interessi artistici verso gli esiti più
visionari della pittura surrealista e della figurazione drammaticamente deforme di Bacon e
Sutherland.
Le immagini assumono un carattere magicamente oscurato con inflessioni espressioniste e sono
popolate da un mondo che contamina l’antropomorfismo con lo zoomorfismo, che popola spazi
improbabili e immaginari.
Scrive Leonardo Rossi (1973) che il periodo “è ispirato all’uomo contemporaneo vittima del
disagio della civiltà. Le figure maschili e femminili, lacerate, oppresse dalla vita, sono cariche di
effetto drammatico e il silenzio in cui si ergono è proprio del vuoto della condizione umana,
dell’inattualità della vita interiore, della facoltà di sentirne l’esigenza e della possibilità di
manifestarla ”.
Intanto Giovanni Cesca partecipa a varie rassegne espositive ed ottiene i primi riconoscimenti
artistici: nel 1967 esordisce alla Triveneta Giovanile d’Arte di Cittadella (Padova); nel 1970 riceve
da Bruno Saetti la Coppa Ente Fiera di Vicenza al Premio di Pittura Trissino; nel 1971 e nel 1972 si
merita il premio-acquisto alla 56ª e 57ª Collettiva Opera Bevilacqua La Masa di Venezia.
Verso il 1975, conducendo all’estremo la sintesi formale, arriva a liberarsi dell’immagine
naturalistica e a conquistare la piena autonomia tecnico-esecutiva: concepisce una sorta di
astrattismo lirico impegnato a conferire al colore, espressionisticamente interpretato, il ruolo di
protagonista primario.
L’evoluzione è favorita anche dall’incontro con Carlo Ludovico Ragghianti: il critico spinge
l’artista alla sperimentazione sistematica, sia tecnica che formale, per evitare il rischio della
cristallizzazione stilistica.
Nello stesso periodo Giovanni Cesca frequenta con assiduità il gruppo di semiotica e psicanalisi
lacaniana milanesi: le riflessioni elaborate dall’artista favoriscono una pittura sostenuta da
ispirazione ed intenzionalità culturali sinestetiche.
Le immagini, secondo Giuliana Lucia Barosco (1980), rivelano “un rapporto completo, di totale
soddisfazione fisica e psicologica … espresse attraverso colori vibranti e intensi, che spesso
conducono ad una follia coloristica dalle pennellate libere, quasi in una gioiosa rinascita pagana
della passione, ma sempre calibrata dall’intelligenza”.
Precisa Raffaele Monti (1981) che “… il pittore sembra voler riacquisire, riproporre, il potenziale
intatto del segno e del rapporto segno-colore. Ne nasce una sorta di rinnovata immagine gestuale,
fervida, assolutamente impulsiva che si rivela decisa soprattutto per un nuovo valore che appunto il
segno, come tramato pittorico o disegnativo, avrà nelle tele immediatamente seguenti ”.
La ricerca sistematica di Giovanni Cesca è senza pause; il capitolo successivo si indirizza al
recupero di soggetti strutturati e quindi di contenuti tematici che riportano in equilibrio il rapporto
tra referenzialità e astrazione: nasce la serie dei Miti, delle Metamorfosi, dei Labirinti. Segnala
Virginia Baradel (1983) che “I colori confinano, segni colorati si montano tangenti, superfici
plasmate s’incrinano in una insaziabile tensione sperimentale che non teme il magnetismo
dell’evocazione figurativa se pur questa è registrata nella memoria …”.
E’ la stagione conclusiva di un lungo e deliberato sperimentalismo artistico che Attilio Rizzo (1984)
identifica e definisce come “esplorazione”, sottolineando che Giovanni Cesca “cambia moduli e
collega esperienze, dentro una solida unità”, dichiarando che “Le forme contraddittorie, la
cangiante realtà delle opere, la mutevolezza degli approcci espressivi, non sono frutto di paura o
disorientamento, ma sono al contrario la testimonianza di chi vuole vivere intervenendo”.
Il capitolo degli anni Ottanta che sembra contraddistinguersi per instancabile impulso sperimentale,
conclude in realtà il “periodo avanguardista”.
Parallelamente l’attività espositiva prosegue con sistematica continuità; molte le mostre tra le quali
sono da menzionare nel 1981 la personale alla Galleria Inquadrature di Firenze; nel 1982 la
personale nella Sala Consiliare del Municipio di San Donà e la collettiva Pittori italiani alla
Volksuniversiteit di Rotterdam; nel 1983 la personale alla Galleria Il Diagramma 32 di Napoli e
alla Galleria Fumagalli di Bergamo, la collettiva Pittori Italiani alla Staats-Und
Universitatsbibliothek di Amburgo.
Contemporaneamente Giovanni Cesca allestisce esposizioni personali anche al Centro d’Arte e di
Cultura Il Brandale di Savona, alla Galleria Variazioni di Milano, alla Galerie Trefcentrum di
Rotterdam, alla Staats-Und Universitatsbibliothek di Amburgo, alla Galleria Bevilacqua La Masa
di Venezia, alla Galerija Dom Mladih di Sarajevo.
La svolta
In una storia apparentemente destinata a proseguire con linearità e ad assecondare un’ansia di
ricerca continua, un incidente obbliga Giovanni Cesca a ripensare le ragioni dell’esistenza e
necessariamente quelle della sua arte: il trauma della vita incide e porta a dubitare sul senso e sulla
motivazione di una direzione già esteticamente indirizzata.
Il bisogno di sincerità lo induce a verificare l’autenticità della sua espressione pittorica, lo spinge ad
approfondire il rapporto tra forma e contenuti: ne scaturisce una crisi personale che determina anche
la “crisi della modernità”; si avvia così la ricerca delle radici, la scoperta dell’identità originaria, la
individuazione delle pulsioni estetiche primarie.
Giovanni Cesca condivide ora le posizioni teoriche di Jean Clair in cui si afferma che “L’estetica
della modernità in quanto estetica dell’innovatio, sembra aver esaurito tutte le possibilità della sua
creazione. (…) L’utopia del novum è scaduta. (…) Sembra allora delinearsi … un’estetica che
potrebbe essere quella di un rinnovamento, inteso come un riattingere alla memoria, un ricorso al
passato culturale, l’esplorazione di una dimensione che è quella della storia, destinata a ridare alla
creazione l’interiorità perduta ” (Critica della modernità, 1983).
Il periodo è lungo e sofferto perché comporta la revisione di un percorso durato più di vent’anni e
perché impone una svolta radicale senza possibilità di ritorno; ma la decisione è irrinviabile essendo
improrogabili e ineludibili le spinte al cambiamento.
Riassumendo l’itinerario artistico Giancarlo Pauletto nel 1996 scrive: “Il lavoro pittorico di
Giovanni Cesca … ha risposto ad una coerenza operativa che ha amalgamato in unità impulsi
provenienti da diversi, ma non contrari versanti delle avanguardie storiche, quali possono essere
considerati gli ambiti del simbolismo, del surrealismo, dell’informale, attraversati da una libera
attenzione anche a motivi proposti dalla più recente coscienza postmoderna, che ben riconosce la
libertà del gioco intersecato dei linguaggi ”.
Nascono le opere che segnano la svolta: sono la Via crucis e la pala d’altare della ResurrezioneAssunta per la chiesa parrocchiale di Mussetta di San Donà di Piave, realizzate tra il 1990 e il 1992;
si tratta delle prime immagini che registrano il recupero della referenzialità formale attraverso il
ripristino del naturalismo anatomico applicato alla figura umana, non ancora della spazialità
prospettica e atmosferica.
La prima esposizione personale dedicata alla nuova stagione artistica è lungamente meditata e
accuratamente preparata: viene effettuata alla Canoniche Nuove di Treviso: nel 1996 l’artista si
mostra al pubblico senza reticenze, consapevole della coerenza della nuova produzione pittorica,
rivendicando il “diritto-dovere” ad un cambiamento motivato dalla “libertà-necessità” del recupero
della pura visibilità.
La riscoperta della forma e della luce
Esteta prima che intellettuale, pittore prima che ideologo, escludendosi ad ulteriori e gratuiti
sperimentalismi Giovanni Cesca cerca un linguaggio definitivo che possa finalmente rispondere alle
pulsioni artistiche ed esistenziali più profonde; tenta cioè di liberarsi da un sistema ideologico e da
un cosmo figurativo nel quale non riesce più a riconoscersi e si pone alla ricerca della sua storia,
delle sue più autentiche e motivate esigenze espressive.
Riparte dall’evidenza della forma, dalla capacità definitoria della linea, dalla possibilità delimitativa
del segno, dalla forza irradiante del colore, dalla potenzialità vivificatrice della luce.
Se non può negare l’interesse per la tradizione, sente però di dover acquisire ulteriore magistero
tecnico, ma sa anche di poter mantenere, risignificandole, la valenza compositiva del disegno e la
forza magnetica del colore.
E’ la palingenesi di Giovanni Cesca, è il suo primo e ultimo capitolo, è quasi certamente l’approdo
definitivo.
I percorsi di introspezione attivati, giustificati innanzitutto come autoanalisi, come ricerca e verifica
di valori esistenziali prima che estetici, arrivano a minare e scardinare artisticamente gli stereotipati
linguaggi, inadatti ad esprimere la sfera esclusiva dell’Io, a dare identità e sostanza al vissuto
emozionale individuale.
Giovanni Cesca rinunciando alla mediazione di stilemi codificati o di teorizzazioni estetiche
pretestuali, si impegna ad affrontare la realtà del mondo fenomenico, ad approfondire il ruolo della
percezione, il significato dell’arte, il senso della comunicazione visiva.
Parallelamente sente di dover assecondare un insopprimibile spirito contemplativo che lo spinge ad
instaurare un rapporto empatico con il micro-cosmo del vissuto: seleziona un mondo tematico
esclusivo costituito dalle terre bonificate e coltivate della campagna sandonatese, dai fiumi arginati
che solcano la pianura veneto-orientale, dagli alberi secolari isolati o dai filari allineati che
profilano l’orizzonte, dai cieli profondi che illuminano spazi illimitati, dagli oggetti recuperati da
una storia scaduta o ereditati da vite familiari perdute.
L’identificazione tra “soggetto contemplante” e “oggetto contemplato” portano Giovanni Cesca a
elaborare un linguaggio capace di rispettare la forma percepita delle cose e dello spazio, per
sublimarne la concreta fisicità in energia vitale, in essenza luminosa. E’ la magia della luce che si
irradia sul mondo a dichiarare la forza e l’anima profonda di una natura che resta comunque
panteisticamente misteriosa e quasi insondabile, riscattata dal tempo effimero delle stagioni naturali
e sottratta ai processi demolitori e distruttori della storia.
Questa aspirazione ad una “pittura pura” impegnata a rispettare l’oggettività referenziale e, al
contempo, tesa a cogliere i valori più reconditi della realtà fenomenica, trova significativi
precedenti artistici nella pittura veneziana primo-rinascimentale, in particolare nell’opera di
Giovanni Bellini, di Giorgione e di Tiziano giovane: la capacità di resa atmosferica e di definizione
prospettica attraverso il colore, la possibilità di rendere il vitalismo e l’autenticità degli spazi
naturali sono valori e aspirazioni che diventano obiettivi primari nella ricerca di Giovanni Cesca.
Altri riferimenti artistici potrebbero essere rintracciati nel lirico e decantato vedutismo di Vermeer,
nella luminosità irradiante di Turner, nella luce spiritualizzata di Friedrich, nella natura arcana di
Böcklin, nel silenzio pacato e poetico dei paesaggi di Morandi, nella magica sospensione scenica di
Balthus.
La volontà di conquistare l’essenza della luce-colore e dello spazio-materia connotanti l’identità
territoriale veneta, l’impegno a fissarne la forma storicamente consolidata e a coglierne l’energia
vivificatrice, diventano i motivi fondanti il nuovo capitolo estetico.
Si può allora affermare che la svolta pittorica degli anni Novanta sembra essersi pariteticamente
sostenuta a ragioni etiche ed estetiche: Giovanni Cesca ha avviato il recupero delle “radici”, si è
riappropriato delle sue origini e delle terre delle origini. Ma, al contempo, ha saputo recuperare e
aggiornare la pittura associata a quel mondo, quella della grande tradizione veneziana, nell’intento
di preservare e dichiarare l’organico rapporto tra “natura” e “cultura”: è questa la dimensione che
ancora sopravvive nei luoghi sottratti al dominio della contemporaneità e nei territori dimenticati
dall’uomo tecnologico; è questo lo spazio incontaminato che l’artista rintraccia e celebra attraverso
la pittura.
Contenutisticamente Giovanni Cesca elabora un percorso articolato che sembra privilegiare
l’ambito dello “spazio”, espresso come “natura” dagli elementi primordiali della terra, dell’acqua,
dell’aria e del fuoco; ma al contempo egli si sente attratto anche dal problema del “tempo” che si
manifesta come “memoria” sia individuale-soggettiva che storico-mitologica.
Sono due filoni strutturati, compresenti e complementari perché la “natura” è memoria di se stessa,
è mondo che riassume la storia passata sedimentando le stagioni biologiche; così la “memoria” è
persistenza ed estensione temporale della vita naturale, è dimensione sublimante la materialità del
mondo fisico.
Abbinati, nascono quelli che potrebbero essere definiti i cicli di un De rerum natura e di un De
rerum memoria figurati, concepiti come meditata e concertata riflessione sulla declinazione di
“spazio” e “tempo” in forma e colore, ispirati contemporaneamente dalla vita fisica esterna
(biologica) e dalla vita emotiva interna (psicologica).
Si generano allora serie tematiche dedicate ai paesaggi fluviali, agrari ed aerei, agli alberi, alle
nature morte e agli oggetti del passato mitico, storico e familiare.
Il paesaggio diventa capitolo fondamentale perché costituisce il soggetto più interpretato e
articolato, ma soprattutto perché è il primo motivo a conquistare ed esprimere il linguaggio
rigenerato della pittura di Cesca.
I paesaggi fluviali
Il percorso di Giovanni Cesca dopo tanta ricerca giunge alla fine là dove era partito: in senso
topografico e antropologico, esistenziale e culturale, estetico e pittorico, l’artista ritorna alla terra
veneta cogliendone l’essenza vitale e la continuità di identità storica e naturale.
Soggetti preferenziali diventano i paesaggi fluviali, i corsi d’acqua e i loro dintorni, il mondo
vegetale che sull’acqua si affaccia, l’ecosistema sottratto alle dinamiche corruttrici della società
industriale, l’ambito in cui il succedersi delle stagioni solari sembra comporsi al tempo e al divenire
dell’uomo.
Giovanni Cesca avvicina il fiume e i suoi argini percorrendone le golene, entra in simbiosi con
questa natura amena instaurando un rapporto di contemplazione attiva.
Il rapporto di identificazione determina una pittura tersa, compositivamente nitidissima, capace di
esprimere in raffinato lirismo un’estetica senza tempo dove la luce domina sovrana esaltando
l’acqua, le sue trasparenze e riflessi, accordandola al cielo e alla terra.
I paesaggi fluviali riescono ad evocare ed associare la totalità degli elementi originari; la luce,
l’aria, la terra e l’acqua vivono in armonica associazione esaltando biofilicamente il valore del
divenire naturale e le dinamiche del suo sedimentarsi; il mondo dei fiumi è allora “presente in atto”
e al contempo “testimonianza di passato” che vivono insieme identificando una sorta di genius loci.
C’è uno spirito che presidia e protegge questi spazi e che si manifesta nella panteistica
combinazione di energia solare, di humus generatore, di aria purificatrice e di acqua vitale.
Gli spazi fluviali diventano microcosmi, delimitati da argini o da quinte arboree e restano
comunque ampi e distesi esaltando la profondità di un’atmosfera luminosa, la trasparenza di
un’acqua che abbina attraverso il riflesso la terra al cielo.
La presenza umana apparentemente manca, e tuttavia c’è: sparisce perché l’uomo aspira a
contemplare ma senza voler contaminare, si impegna ad osservare ma evitando di comparire.
Del resto il circostanziato inserimento della figura infrangerebbe l’atmosfera sospesa e senza tempo
storico di questi spazi: il tempo è infatti quello naturale, quello solare che la stagione
contemporanea dominata dalla tecnica tende a ignorare e negare.
E’ il fiume ad essere protagonista: rappresenta la via, il percorso fisico e dunque metaforicamente il
processo della vita, il viaggio dell’esistenza.
L’acqua è insieme vivificatrice e lustrale, è presenza organica che si rende trasparente o riflette, che
senza sosta e quasi impercettibilmente fluisce.
Giovanni Cesca è affascinato dall’inarrestabile movimento delle cose, dal misterioso incedere del
tempo che tutto trasforma: è natura che registra evoluzioni e processi dichiarando una continua
metamorfosi che l’uomo post-moderno stenta a recepire.
Lo spazio antropizzato contemporaneo risulta sempre più alienato e meccanizzato, artificiale e
inospitale; i paesaggi lungofiume, sono perciò capaci di riconciliare passato, presente e futuro, di
comporre sogno e realtà, di armonizzare uomo e natura.
Si tratta preferenzialmente di immagini con una vegetazione rigogliosa primaverile o estiva, che
celebrano lo spettacolo della natura naturans.
Fin dal 1992 nascono le prime scene di fiume: La luce nell’acqua dedicato al Sile e Riflessi riferito
al Piave, rappresentano la conquista di un realismo figurato sostanziato dalla magia di una luce
sospesa e diffusa; è proprio la luce che diventa il motivo fondamentale vivificatore del quadro
mostrandosi pura nel cielo, trasparente nell’acqua, materica nel mondo vegetale.
La produzione degli anni Novanta è molto omogenea espressivamente, stilisticamente e
tecnicamente: le scene sono eseguite con metodica accuratezza e raffinato calligrafismo.
Sono immagini che non tradiscono mai il dato della percezione ottica restando con controllato
realismo sulla dimensione della conoscenza empirica; tuttavia i quadri hanno il valore aggiunto
della valenza emozionale che riesce ad esprimersi e comporsi in forma visiva: è la vibrazione del
colore, la magia della luce che danno palpitante energia e vita ai soggetti del fiume.
Giovanni Cesca sembra empaticamente legarsi al suo mondo dipinto: citando Maurice MerleauPonty si potrebbe affermare che “La visione del pittore non è più sguardo su un di fuori, relazione
meramente fisico-ottica col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è
piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile …”
(L’occhio e lo spirito, 1964).
I paesaggi fluviali pur strettamente relazionati tendono ad individuare diversificate tipologie
iconografiche. Il corso d’acqua rappresentato con una prospettiva inclinata, ripreso da un punto di
vista rialzato senza primo piano e chiuso da una fascia limitata di cielo che colora l’acqua
specchiante, ritorna in opere come: La luce nell’acqua del 1992, Verdi sul Livenza del 1994, Quinte
del 1996, Contrasti del 1997, L’acqua sgorga dal bosco del 1997, Il canale Piavon a Cittanova del
1998, Sinfonia di verdi nel Piave del 1999, Il posto magico sul Brian del 1999, Ocra e verdi sul
Brian del 1999, Gialli lungo il Brian I e III del 1999, Grande Piave Theodori del 2000, Spazio
infinito sul Livenza del 2000, Verso la Laguna di Caorle del 2000.
Il fiume attraversa diagonalmente il campo visivo, dolcemente accompagnato da una vegetazione
rigogliosa che lo delimita senza chiuderlo e lo incornicia senza bloccarlo: l’acqua diventa traccia
lineare leggermente sinuosa che si allontana e verso il cielo sparisce; si tramuta in percorso fluido
che attraversa golene verdeggianti per dissolversi nell’atmosfera.
L’acqua mostra nella specchiante riflessione la sua doppia natura fluida e luminosa, diventando
presenza viva e sensibile a tutto ciò che la circonda fino a fissarne la forma, il colore, la vita.
Questo schema compositivo, presente nel primo paesaggio post-avanguardista, ritorna con insistita
continuità anche nelle scene degli ultimi anni Novanta.
Il corso d’acqua rappresentato con una prospettiva centrale orizzontalmente spalancata, ripreso da
un punto di vista abbassato e con un cielo vastissimo domina opere come: Riflessi del 1992, Ombre
e luci del 1994, Piave I del 1994, Quinte di verde del 1994, Ultime luci del 1995, Il posto dei cigni
del 1995, Luci e ombre sul Brenta II del 1998, Verdi atmosfere del 1999.
Tra quinte arboree lontane acqua e luce dominano scene che galleggiano quasi senza peso,
configurando immagini sottratte alla forza di gravità e all’opacità del mondo materiale; sono spazi
dove tutto diventa colore incorporeo e spiritualizzato armonicamente accordato, fino a trasmettere
un senso di luce assoluta sostanziante l’universo.
Le variazioni su queste due tendenze iconiche sono preferenzialmente di tipo formale, con tagli
prospettici intermedi dedicati ad anse e rive di fiume perse nella vegetazione, e talvolta di tipo
espressivo, con atmosfere brumose atte che intensificano il senso dell’arcano naturale oppure con
cromie calde che esaltano il senso positivo della vita organica.
Appartengono alle prime Piave II del 1994, Piave III del 1996, Luci e ombre sul Brenta I del 1997,
Concerto per alberi, fiume e luci del 1999; alle seconde Nebbia del 1995, Nebbie lungo il Brian del
1996, Nebbie sul Brian del 1997, Alba nebbiosa sul Piave del 1998 e la serie dei Gialli lungo il
Brian del 1999.
I paesaggi fluviali sono il tema preferenziale della pittura di Giovanni Cesca negli anni Novanta,
quello più complesso e articolato, che contenutisticamente indaga il mistero della vita biologica e il
suo miracoloso svelarsi nella luce solare.