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Estratto da
Irène Némirovsky, La nemica
Titolo originale dell’opera
L’Ennemie
Traduzione dal francese
di Cinzia Bigliosi
Pubblicato per la prima volta
in Francia nel 1928
© 2013 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: maggio 2013
ISBN 978-88-96919-58-3
Progetto grafico: zevilhéritier
Stampato nel mese di aprile 2013
da Galli Thierry Stampa, Milano
www.astoriaedizioni.it
Gabri e Michette Bragance, in piedi nel bel mezzo
dell’avenue du Bois-de-Boulogne, cercavano la madre tra
la gente. Ma, in quella mattina d’inverno limpida, glaciale
e assolata, il viale era affollatissimo: le bambine giravano
inutilmente la testa di qua e di là; non vedevano niente. Ripresero a camminare lentamente verso la porte Dauphine.
La poca neve caduta durante la notte brillava ancora
sui cancelli e sottolineava il disegno nitido dei grandi alberi
spogli. L’aria era vivida e fresca.
Gabri e Michette urtavano i passanti a grandi gomitate;
le donne andavano spedite su tacchi alti, con la gonna corta
fino al ginocchio, la vita oltremodo abbassata secondo la
moda di quel mese di dicembre 1919. Ragazzini troppo
ben vestiti, stretti fino a soffocare in impermeabili a martingala, il capo scoperto come gli adolescenti inglesi, ma con il
naso punto dal freddo, camminavano a gruppetti, ostruendo il marciapiede con l’ampio mulinello dei loro bastoni.
Il viale era attraversato da cavallerizzi al galoppo, guardati
con una certa sorpresa. Allo stesso tempo, le automobili,
più curate degli animali di lusso, passavano lungo la carreggiata. Il quadro era vivace e grazioso, incorniciato da
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un lato dagli alberi argentati del Bois, dall’altro dalla tozza
mole dell’Arco di Trionfo, grigio e rosa nel sole.
Solamente qualche ombra su tutto quello splendore:
bambini vestiti a lutto, un soldato cieco, un altro in carrozzella, donne che si affrettavano con lunghi veli in crespo
nero che ondeggiavano sulle loro spalle. Oramai era tutto
quello che restava della guerra.
Gabri e Michette – undici e sei anni – non si curavano
di guardare niente. Ogni giorno, dopo le lezioni, andavano
ad aspettare la madre lungo il viale, e si trattava di una corvè quotidiana che odiavano quanto le lezioni di pianoforte.
Gabri, con l’aria imbronciata, si faceva strada tra la folla,
lanciando di soppiatto gomitate nei costati dei passanti. Era
nel pieno dell’età ingrata, alta, agile e magra. Indossava un
cappotto di tessuto verde che faceva sembrare il suo incarnato più scuro di quanto non fosse, un vestito troppo corto
ritagliato da una vecchia gonna della madre, calzini di lana
che lasciavano vedere le ginocchia, nude e ricoperte di bozze
e di lividi; un basco in lana grigia era calato sui ricciolini che
danzavano intorno al gracile collo. Non era bella, la faccia
piccola, punteggiata di lentiggini, la bocca troppo grande,
ma aveva dei begli occhi verdi, profondi e mutevoli.
Quanto a Michette, lei assomigliava alla madre; era bianca e bionda, aveva gli occhi azzurri, il sorriso carezzevole,
imperioso di Francine Bragance. Si aggrappava con una
mano alla manica della sorella e saltava su un piede solo,
sforzandosi di fare rotolare un sassolino con la punta dallo
stivaletto piuttosto logoro. Improvvisamente si fermò e gridò
tra le risate:
“Mammina, ecco mammina…! Gab, vedo mammina…!”.
“Beh? Anch’io la vedo. E allora?” grugnì Gabri che sembrava di cattivissimo umore.
La madre stava effettivamente camminando nella loro
direzione. Era una donna bella come un oggetto prezioso:
sembrava fatta di oro e di bianco di Cina, come le porcellane di Sassonia; la capigliatura, lo sguardo, il sorriso erano
luminosi; soprattutto i denti, brillanti, splendevano candidi
e aguzzi ed era pur vero che li metteva spesso in mostra.
Non era sola: un giovane lungo e dinoccolato, molto elegante, la stava accompagnando.
Michette fece per correre verso la coppia; la sorella la
trattenne per la spalla.
“Non muoverti,” sbuffò, “non c’è bisogno di noi per il
momento!”
Gabri sapeva che non sempre era opportuno andare a
tuffarsi nelle gonne della madre quando stava passeggiando lentamente, sotto gli alberi, con un signore sconosciuto.
Ma, vedendo la madre assorta come una gatta a cui si porge una scodella di latte, si avvicinò di soppiatto.
“Miche, vattene, va a giocare, corri,” disse Gabri.
Obbediente, Michette si allontanò. A quel punto la sorella maggiore si avvicinò lentamente alla coppia, seguì passo
a passo la madre e si mise ad ascoltare in tutta tranquillità.
Ma Francine non vedeva niente, né Gabri che la spiava
con calma insolente, né Michette che si graffiava mani e
vestito sulle inferriate che scavalcava.
Francine flirtava.
A quel punto l’ora di pranzo era trascorsa da un pezzo.
I passanti stavano sempre più diradando. Operai che, dopo
mangiato, andavano a prendere un po’ d’aria passeggiavano con le schiene curve. Poi sparirono anche loro. Il sole
sfavillava sul viale deserto. Lo stomaco delle due studentesse, in piedi dalle sette, reclamava affamato. Michette andò
a frignare afferrando la mano di Gabri.
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“Ho fame…”
“Anch’io,” rispose cupamente la sorella maggiore.
Non osavano disturbare la conversazione della madre;
la temevano troppo. Si accontentavano di sorvegliarla da
lontano, con ansia. Ma la bella faccia gioiosa non si voltava
affatto verso di loro. Francine aveva bevuto una cioccolata calda a mezzogiorno, preso due bicchieri di porto poco
prima al Pavillon Dauphine; non aveva fame e dimenticava
tranquillamente le figlie.
“Rientriamo presto, vero?” piagnucolò Michette.
Gabri la strattonò.
“Mi infastidisci… Se hai fame mangiati una mano e tieni l’altra per domani… Non vedi che se ne frega di noi?”
A una bancarella, la fioraia, una bambinetta cenciosa,
stava pranzando, tenendo il cestino di violette sulle ginocchia, con una mela e un tozzo di pane dorato. Le bambine
l’avevano vista. La maggiore si voltò; la piccola emise un
sospiro di cupidigia che fece ridere la poveraccia.
Gabri lanciò alla madre un’occhiata quasi di odio. Strinse i pugni e le indirizzò, con voce profonda, un’ingiuria
puerile:
“Brutta egoista…!”.
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