Nuovi territori e nuove pratiche di cittadinanza: il caso della Bolognina
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Nuovi territori e nuove pratiche di cittadinanza: il caso della Bolognina
Nuovi territori e nuove pratiche di cittadinanza: il caso della Bolognina di Giuseppe Scandurra1 Premessa Tra il 26 febbraio e il 23 aprile 2009, presso l’Urban Center di Bologna, in pieno centro storico cittadino, il Comune e la Provincia del capoluogo emiliano-romagnolo organizzarono un ciclo di conferenze per conoscere il rapporto di uso, produzione e consumo degli spazi pubblici, e ancora i costumi relazionali, i modi di produrre località dei principali gruppi di cittadini stranieri residenti a Bologna. Il 26 febbraio, durante la prima giornata di incontri, dopo il saluto dell’Assessore all’Urbanistica del Comune, del Vicepresidente della Provincia, del Vicepresidente del Consiglio dei cittadini stranieri di Bologna, presero la parola architetti, urbanisti, direttori di giornali a tiratura nazionale, e, per quanto riguarda Bologna, il sociologo Maurizio Bergamaschi e il Direttore del Settore Programmazione Controlli e Statistica del Comune di Bologna Gianluigi Bovini. Il tema della giornata era “Bologna e la città degli altri” e a tutti gli studiosi invitati era stato chiesto di presentare delle relazioni che avessero al centro la distribuzione territoriale e i modelli insediativi della popolazione straniera residente in città negli ultimi anni. Cosa emerse in questa giornata? Il sociologo Bergamaschi, nel suo intervento, si pose come obiettivo quello di indagare quanto sia legittimo a Bologna parlare di una forte concentrazione territoriale di cittadini stranieri in città e, dunque, se si possa parlare di forme di segregazione per quanto concerne gli immigrati residenti nel territorio comunale. La distribuzione territoriale dei cittadini stranieri, del resto, è sempre stata tra i principali oggetti di studio della sociologia urbana e lo è a maggior ragione oggi nel momento in cui, soprattutto a livello mediatico, molti conflitti registrabili negli spazi pubblici urbani vengono rappresentati come “etnici”2; d’altra parte, la loro distribuzione spaziale sollecita una riflessione su alcuni nodi problematici di fondo delle scienze sociali a partire dai primi studi della scuola di Chicago3. (Bergamaschi 2009) Ricercatore di Antropologia Culturale - Università di Ferrara. A settembre 2007, insieme ai colleghi ricercatori, il pedagogista Alessandro Tolomelli e la sociologa Elena Rossini, abbiamo condotto uno studio sul centro storico bolognese, più specificatamente l’area di Piazza Verdi, promosso dalla Direzione “Cultura e Comunicazione Istituzionale - Alma Mater”, dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dal Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna. Obiettivo generale della ricerca, coordinata dall’antropologa Matilde Callari Galli, dal pedagogista Antonio Genovese e dal sociologo Maurizio Bergamaschi, è stato riportare l’attenzione su tale contesto indagando i reali motivi per cui si è andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza come luogo simbolo del degrado cittadino, quotidianamente teatro di conflitti. Piazza Verdi è frequentata da diversi attori sociali in orari diversi e con differenti modalità di utilizzo dello spazio pubblico. I conflitti registrabili in questo territorio, in effetti, già durante questo studio sembravano essere più legati alla convivenza, in quest’area circoscritta, di tanti ed eterogenei attori sociali - per esempio tra immigrati e residenti storici - piuttosto che a pratiche di microcriminalità quotidianamente riportate dai quotidiani locali che denunciavano come responsabili i cittadini di origine straniera. Piazza Verdi rappresenta, questo è emerso dallo studio, un territorio dove consistente e significativa è la convivenza, alle volte conflittuale, di diversi gruppi, tra cui i cittadini di origine straniera, che rivendicano il loro diritto a fruire del medesimo spazio pubblico. (Rossini, Scandurra, Tolomelli 2009) 3 Giovanni Semi, in un recente saggio, ha ricostruito le diverse generazioni di studiosi della Scuola di Chicago. Tra i lavori migliori di questa scuola che hanno indagato su questo tema, oltre al testo “La città” (Park, Burgess, McKenzie 1925), che 1 2 1 Prima dell’intervento di Bergamaschi, Gianluigi Bovini, Direttore del Settore Programmazione, Controlli e Statistica del Comune di Bologna, illustrò, attraverso grafici e tabelle, le e tendenze più recenti riguardanti la popolazione straniera residente in città; per quanto, infatti, nel nostro Paese non si possa parlare di un’immigrazione esclusivamente urbana, i flussi di cittadini stranieri negli ultimi anni si sono spesso diretti verso i comuni più grandi, compreso il capoluogo emliano-romagnolo. Al 31 dicembre 2008 gli immigrati hanno superato quota 39.400 residenti - ovvero il 17,5% in più rispetto a dodici mesi prima - e i cittadini stranieri costituiscono ormai il 10,5% della popolazione di Bologna: si tratta soprattutto di cittadini europei - 41,6% - e asiatici - 34,3%. Le nazionalità più numerose sono la Romania, le Filippine, il Bangladesh, il Marocco e l’Albania. I cittadini stranieri residenti sono mediamente molto più giovani - 32,4 anni - rispetto alla popolazione bolognese - 47,6 anni - e si concentrano in prevalenza nelle classi di età giovanili: più del 16% dei giovani fino a 24 anni residenti in città sono stranieri. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, il territorio della Bolognina, sottolineò Bovini, con 17 stranieri ogni 100 residenti si conferma la zona più multietnica. Infine, sono quasi 5.000 gli stranieri di seconda generazione residenti in città4. In quindici anni, dunque, gli immigrati residenti in città sono quasi sestuplicati, in virtù di processi di regolarizzazione, sanatorie, pratiche di ricongiungimento famigliare, l’entrata in Comunità Europea di stati come la Romania che ha determinato un aumento consistente di questo gruppo di immigrati a Bologna (Bergamaschi 2009). Processi che, tra le altre cose, hanno favorito la crescita della presenza femminile - dal 2003 la percentuale di donne immigrate supera quella degli uomini. Inoltre, caratteristica specifica di Bologna è quella di poter contare la presenza di quasi centocinquanta nazionalità diverse per quanto concerne il territorio comunale. Prendendo in mano questi dati, Bergamaschi prese la parola evidenziando come la distribuzione residenziale degli immigrati si è profondamente modificata negli ultimi anni. Se nel decennio1997-2007 tra le zone con la maggiore incidenza di stranieri era possibile sottolineare territori del centro storico cittadino come Colli e il quartiere Santo Stefano, negli ultimi anni aree più periferiche come Santa Viola e Barca, che registravano a fine Novanta ancora una presenza limitata di cittadini stranieri, hanno iniziato a contare presenze di immigrati al di sopra del valore medio cittadino. Più in generale, dimostrò il sociologo, i quattro quartieri caratterizzati dai valori percentuali più elevati - San Donato, Reno, Borgo Panigale e Savena - sono gli stessi che all’inizio del decennio 1997-2007 avevano un’incidenza più bassa della popolazione straniera sul totale dei residenti. (Bergamaschi 2009) può essere utile per comprendere le attività della scuola di Chicago, le ricerche condotte da N. Anderson sui barboni di Chicago (Anderson 1923), L. Wirth sul ghetto (Wirth 1928), H. Zourbaugh su una località a nord di Chicago (Zourbaugh 1929), F.M. Thrasher sulle bande criminali, le gang della città americana (Trasher 1927), e ancora quelli prodotti dalla generazione successiva di chicagoans. (Whyte 1943) 4 Questi dati sono riportati nel sito del Settore Programmazione, Controlli e Statistica del Comune di Bologna, http://www.comune.bologna.it/iperbole/piancont/Stranieri/indice_Stranieri_DS.htm 2 La dialettica centro/periferia ha dunque perso valore a favore della tendenza verso una distribuzione più omogenea. In altre medie-grandi città italiane, sottolineò Bergamaschi, è infatti ancora oggi osservabile un’elevata residenzialità di cittadini stranieri in alcune aree del centro storico caratterizzate da un patrimonio abitativo vecchio e non riqualificato: a Bologna, per esempio, nel 1997, l’incidenza degli immigrati sul totale della popolazione residente nel centro storico era pari a 4,8%, mentre in periferia era di 2,5% - il valore medio comunale era pari a 2,9%; dieci anni dopo, i tre valori sono invece pressoché simili - rispettivamente 9,1% nel centro storico, 9% nelle zone periferiche, 9% nell’intera città (Bergamaschi 2009). Da una parte, dunque, i nuovi arrivati tendono a distribuirsi in modo più omogeneo sul territorio comunale; dall’altra, però, questi si insediano sempre più in zone periferiche e popolari - Santa Viola, Barca, San Donato -, mentre le zone più benestanti della città - Colli e Saragozza - registrano valori percentuali decrescenti. Prendendo in considerazione, inoltre, territori come la Bolognina e il quartiere San Donato, che oggi registrano una presenza di cittadini stranieri significativamente al di sopra del valore medio comunale è possibile comprendere queste scelte residenziali in relazione alla ricerca di soluzioni abitative meno precarie, con affitti accessibili a un costo più basso, maggiormente adeguate a progetti migratori a medio e lungo termine e ai numerosi ricongiungimenti famigliari che si sono registrati in questi ultimi anni (Bergamaschi 2009). In questa direzione, nell’ultimo periodo, assume più rilevanza la dialettica nord/sud, ovvero tra aree caratterizzate da maggiore qualità edilizia e più verde - mete residenziali sempre più dei residenti storici - e aree urbane segnate dalla crisi del modello di produzione legato alle fabbriche metalmeccaniche e dalla presenza di molti caseggiati di edilizia popolare. Da questo punto di vista, tracciò le conclusioni Bergamaschi, le strategie residenziali degli immigrati non sembrano essere dettate dall’esigenza di abitare vicino ai propri connazionali, piuttosto all’opportunità di trovare una abitazione adeguata alle proprie aspettative a costi sostenibili, dunque alle logiche di mercato. Queste osservazioni, per il sociologo, smentiscono il peso troppo grande che molti sociologi e antropologi urbani fino ad ora hanno dato al ruolo della cultura nella determinazione dei modelli individuati quando il riferimento empirico è rappresentato da un gruppo di immigrati: ciò, probabilmente, emerge solo laddove, concluse Bergamaschi, partiamo dal presupposto che mentre noi cittadini italiani siamo mossi da una razionalità individualizzante, da interessi che dipendono dalla nostra appartenenza di classe, di genere, etc., gli immigrati sono invece mossi da logiche familiari e comunitarie. (Bergamaschi 2009) Bergamaschi, però, concludendo il suo discorso evidenziò una tendenza a cui i dati quantitativi, da soli, non riescono a rispondere: ovvero la formazione di zone - isolati, complessi abitativi - all’interno di aree più estese e di gradi quartieri che, sempre più, negli ultimi anni, si stanno caratterizzando per la presenza di una “seconda generazione” di immigrati. Dunque, la strategia residenziale dei cittadini stranieri a Bologna non osserva una ripartizione ad anelli concentrici come quella registrabile in altre 3 città del nostro Paese come Milano (Bergamaschi 2009) e la distribuzione abitativa dei nuovi arrivati favorisce piuttosto una presenza più omogenea in relazione al territorio comunale e la coabitazione di diversi gruppi nazionali nella stessa area; se ciò è indicativo del’assenza di ghetti e quartieri etnici, non esclude, allo stesso tempo, la formazione recente di zone molto circoscritte di maggiore concentrazione della popolazione non italiana in cui si configura una parziale dominanza di uno gruppo o più gruppi nazionali stranieri (Bergamaschi 2009). Tali micro realtà, però, come ammise lo stesso Bergamaschi in quella giornata, sono difficili da indagare e meriterebbero una ricerca qualitativa di natura etnografica. Proprio a partire proprio da quest’ultima osservazione, al fine di indagare queste micro aree, nella nostra ricerca abbiamo concentrato lo sguardo sulla trasformazione di determinati territori e periferie bolognesi alla luce dell’arrivo di sempre più consistenti flussi immigratori. Abbiamo iniziato a chiederci: come chiamare oggi queste periferie e quali pratiche di cittadinanza le caratterizzano? 1. Di che territori stiamo parlando? 5 Negli ultimi venti anni campi di studio all’interno dell’antropologia culturale, come quello legato agli studi urbani e quello legato alle marginalità urbane sono andati spesso a braccetto in termini di produzione etnografica, per esempio all’interno di ricerche che potremmo chiamare “etnografie di strada” (Wacquant 2002). Nel nostro Paese, per esempio, se parliamo di etnografie sulle marginalità urbane possiamo parlare della pubblicazione di monografie, condotte attraverso la pratica etnografica, che si contano sulle dita delle mani (Bonadonna 2001, Barnao 2004, Tosi Cambini 2005, Scandurra 2005). Se ci spostiamo nel campo dell’etnografia urbana la situazione non è diversa: tanti antropologi che ne hanno definito i confini, la metodologia, hanno ricostruito la storia di questo campo di studi (Sobrero 1992, Signorelli 1996, Callari Galli 2007), ma poche monografie: tra le ultime, per esempio, il lavoro di Asher Colombo a Milano (Colombo 1989), quello di Giovanni Semi a Torino (Semi 20046), quello di Luca Queirolo Palmas a Genova (Queirolo Palmas 2006), quello di Ferdinando Fava sullo Zen di Palermo (Fava 2008), quello di Adriano Cancellieri su Porto Recanati (Cancellieri 2009). La cosa interessante, però, è che queste etnografie, seppure non riescono a competere, dal punto di vista quantitativo, con quelle statunitensi e francesi (Wacquant 2002), sono state tutte prodotte negli ultimi anni e presentano degli elementi di novità sui cui credo non abbiamo ancora riflettuto molto e che toccano alcuni temi che abbiamo indagato nella nostra ricerca P.R.I.N.. L’antropologo Ferdinando Fava, nel 2008, dopo aver condotto una ricerca etnografica sullo Zen di Palermo ha scritto un interessante saggio dal titolo “Tra iperghetti e banlieues, la nuova marginalità Per fare questo lavoro, durante il secondo anno di ricerca P.R.I.N., ci siamo avvalsi della collaborazione di due antropologhe, Fulvia Antonelli e Giulia Guadagnoli, che hanno condotto delle interviste e raccolto storie di vita di un gruppo di cittadini stranieri, prevalentemente marocchini, residenti in un territorio circoscritto della prima periferia a nord di Bologna, la Bolognina. 6 Questo lavoro è stato poi rivisitato e pubblicato all’interno del testo curato da Enzo Colombo e dallo stesso Giovanni Semi, “Multiculturalismo quotidiano”. (Colombo, Semi 2007) 5 4 urbana” (Fava 2008a). Ghetto a Chicago, banlieue a Parigi, poligono a Barcellona, hrushebi a Mosca, hood a Los Angeles: ogni città dell’Occidente, scrive Fava, ha le sue parole per descrivere i propri quartieri “maledetti e marginali” (Fava 2008a). Il termine slum rimane, però, la categoria più usata per indicare le aree di povertà urbana ma mette insieme un infinito spettro di differenti condizioni abitative. C’è, però, un filo rosso che unisce questi territori al centro delle più recenti etnografie italiane che evocavamo prima: lo Zen di Palermo, la Genova dei vicoli descritta da Queirolo Palmas, il territorio di Porta Palazzo a Torino indagato da Semi, sono tutte aree urbane che condividono una stigmatizzazione mediatica territoriale e sempre più abitate da immigrati; tutte rinviano a condizioni socioeconomiche strutturali violente: Il segno che la città dell’era urbana si costruisce e si mantiene sempre più sull’esclusione e sulla segregazione di una parte sempre maggiore dei suoi residenti trasformandoli in “altri” da noi. (Fava 2008a) Di che territori parliamo quando concentriamo il nostro sguardo di ricerca sulla periferia milanese studiata da Asher Colombo o su quella di Porto Recanati analizzata da Adriano Cancellieri? Come si sono trasformate in questi ultimi anni le nostre periferie alla luce della fine di un processo produttivo e industriale - il mondo fabbrica7 - e l’arrivo di consistenti flussi migratori? Per rispondere a queste domande durante la ricerca P.R.I.N. abbiamo deciso di indagare un territorio specifico di Bologna, la Bolognina, caratterizzato oggi dalla maggiore presenza di immigrati in città8. Questa prima periferia a nord della città, del resto, era stata già precedentemente oggetto di studi condotte dal settembre del 2004 al febbraio 2007, quando è iniziata la nostra ricerca. Conducendo uno studio etnografico, iniziato nel settembre 2004 e terminato nel dicembre 2005, che ha avuto per oggetto le pratiche di vita, gli immaginari, le rappresentazioni di un gruppo di senza fissa dimora ospiti di un dormitorio comunale, il Rifugio Notturno Massimo Zaccarelli (Scandurra 2005), ubicato a ridosso della Stazione Centrale in via Carracci, infatti, già in questo periodo ebbi modo di indagare quanto questo contesto urbano fosse oggetto di un radicale processo di ridisegno urbano. Il dormitorio comunale al centro della ricerca su un gruppo di senza casa, tra i quali molti cittadini stranieri (Scandurra 2005), a dicembre 2005 venne abbattuto per fare spazio ai binari dell’alta velocità, alla costruzione della nuova Stazione Centrale, al processo di decentramento, avvenuto a fine 2008, degli uffici comunali; più in generale alla luce di un vasto processo di riqualificazione urbana in un territorio stretto tra la Fiera e la stazione e quindi di grande interesse commerciale. (Scandurra 2005) Parte di questi territori appena evocati, infatti, sono stati caratterizzati dalla presenza di fabbriche dismesse sul finire degli anni Ottanta. 8 A conferma della tesi di Bergamaschi e dei dati riportati da Bovini, in alcune aree statistiche di questo territorio la percentuale di cittadini stranieri raggiunge percentuali del 25% se si fa riferimento ai residenti cinesi, distribuiti nella parte est della Bolognina, e ai cittadini marocchini nella parte ovest. (Piano b 2008) 7 5 Conducendo, poi, insiemi ad altri colleghi una inchiesta sociale su una fabbrica metalmeccanica chiusa sul finire degli anni Ottanta (Piano b 2008), la Casaralta, abbiamo avuto modo di assistere a un processo per la verità iniziato già alla fine degli anni Settanta, ovvero la dissoluzione di un intero modo di produzione legato alle fabbriche metalmeccaniche la cui presenza ha segnato, soprattutto nella percezione di chi abita fuori da questo territorio, l’identità di quest’area, da sempre considerata un quartiero operaio9. Con la fine di questo modello produttivo abbiamo avuto modo di studiare anche la fine di determinati luoghi e spazi di socialità all’interno del territorio. (Piano b 2008) Infine, da gennaio 2007, proprio a ridosso della ricerca P.R.I.N, stiamo conducendo, con una collega, l’antropologa Fulvia Antonelli, una ricerca su un gruppo di pugili dilettanti in una palestra di boxe della Bolognina: la maggior parte degli iscritti alla palestra sono ragazzi di origine straniera, prevalentemente marocchini. Studiando le loro pratiche di vita quotidiane abbiamo avuto modo di indagare i problemi, i bisogni, le speranze di una “seconda generazione” di immigrati, ovvero ragazzi, quasi tutti maschi, venuti in Italia da piccoli e alfabetizzati nelle scuole del territorio (Antonelli, Scandurra 2009). Partendo da questi studi, e dai dati che sono emersi e che stanno emergendo da essi, durante la ricerca P.R.I.N. abbiamo iniziato a domandarci: che tipo di territorio è la Bolognina? Queste ricerche e inchieste, in effetti, ci diedero modo di ritornare in questo territorio dove avevamo già costruito relazioni di fiducia con molte persone che ci avrebbero fato da informatori durante lo studio. La Bolognina non è un ghetto né una banlieue, ovvero non è né “un dispositivo di chiusura e di controllo etnorazziale” (Fava 2008a), quindi un territorio circoscritto caratterizzato da una popolazione qualificata negativamente - la Cintura nera di Chicago degli afro-americani per esempio, come ricorda Fava (Fava 2008a) - né un’area di frontiera rispetto alla città abitata da un’omogenea classe sociale - “La Cintura Rossa dei quartieri operai della periferia parigina” (Fava 2008a). Questo contesto urbano ci diede la possibilità, però, di leggere i processi di trasformazione in atto nell’intero territorio comunale e comprendere al meglio quanto questi sono determinati e determinano le pratiche di vita degli immigrati che vivono nella nostra città. La Bolognina nasce con il decentramento delle fabbriche bolognesi dal centro storico in periferia. I processi di segregazione che abbiamo avuto modo di studiare durante la ricerca concentrando l’attenzione su questo territorio sono l’effetto di una serie di processi socioeconomici che si sono originati nell’area circostante ben più ampia della scala della città (Fava 2008a). Il territorio dove abitano la maggior parte di pugili di origine straniera della palestra di boxe, la Bolognina, per esempio, è stato caratterizzato sempre più, negli ultimi anni, dalla frammentazione del lavoro salariato e la trasformazione del welfare pubblico a tutti i livelli amministrativi. La chiusura delle fabbriche, della Casaralta in particolare, è avvenuta contemporaneamente all’arrivo, sul finire degli anni Ottanta, di consistenti flussi migratori che hanno esasperato il sentimento di spaesamento da parte di molti residenti storici di questo territorio. (Piano b 2008) 9 6 E’ evidente, come invita a fare l’antropologo Fava indagando sull’area dello Zen (Fava 2008), quanto la Bolognina meriti un quadro interpretativo proprio rispetto ad altri territori che evocavamo prima, come Porta Palazzo a Torino o la periferia di Genova. Eppure, in questo territorio possiamo leggere oggi processi simili a quelli riscontrabili in queste aree, ovvero una marginalità avanzata prodotta dalla trasformazione del settore industriale. Ne è dimostrazione, del resto, il fatto che in quest’area urbana per quanto il settore edilizio, dei servizi e del commercio al dettaglio abbiano dato lavoro a molti immigrati arrivati negli ultimi venti anni, la maggior parte di questi, come vedremo in seguito, soprattutto i loro figli, le cui pratiche di vita sono state oggetto della nostra ricerca, è esclusa da questa economia informale. Da un punto di vista materiale, infatti, se analizziamo determinati processi registrabili in questo contesto urbano è legittimo parlare di “violenza strutturale10”: con la chiusura delle fabbriche il mercato del lavoro locale oggi sta sempre più isolando molti giovani immigrati relegandoli ai margini dell’economia dei servizi; dai loro racconti, come riporteremo nei paragrafi successivi, emerge sempre più l’esistenza di nicchie del terziario dequalificato dove questi ragazzi trovano lavoro ma sono trattati come “servi”, questa è la parola che molti di loro usano - e di istituti professionali del territorio dove questi ragazzi studiano e che si stanno trasformando in vere e proprie scuole differenziali; emerge, infine, il legame sempre più stretto tra questi istituti e il carcere minorile di Bologna. Se vogliamo capire come si forma e che tipo di territorio è quello abitato dagli immigrati che vivono nelle nostre città oggi, abbiamo pensato durante la nostra ricerca, è necessario comparare questi studi di cui parlavamo in precedenza. In effetti, mai come in questi anni iniziamo ad avere un corpus di dati etnografici che ci potrebbe permettere di fare un punto e dare un volto a questi territori pur nelle loro differenze - da Palermo a Milano, da Bologna a Genova. Forse oggi, anche partendo da Bologna, è possibile rispondere alla domanda che ponevamo in precedenza: che territorio è la Bolognina? Che periferia è quella bolognese? Che relazione c’è tra periferia, flussi migratori, fine di un modello produttivo? Nella volontà di rispondere a tali quesiti e forti di dati e rapporti di fiducia strutturati negli anni precedenti con moli abitanti del territorio, iniziammo a condurre questa parte della ricerca P.R.I.N. dedicata al modo di vivere, usare, trasformare determinate aree periferiche da parte di gruppi di cittadini di origine straniera che in grande numero hanno scelto di abitarli. 2. I senza fissa dimora in Bolognina e il centro storico bolognese Da subito, quando pensammo di concentrare lo sguardo su un’area specifica della periferia di Bologna, decidemmo di indagare questa realtà mettendola in relazione, come detto in precedenza, con il più esteso centro storico e le trasformazioni urbane che ebbero come teatro negli ultimi anni l’intero 10 Nella definizione di Paul Farmer: “La violenza strutturale è violenza esercitata sistematicamente - cioè indirettamente - da tutti coloro che appartengono a un determinato ordine sociale […]. In sostanza, il concetto di violenza strutturale denota un dispositivo sociale di oppressione”. (Farmer 2003) 7 territorio comunale. Per far questo riprendemmo in analisi alcuni dati che emersero da precedenti indagini, in particolare da uno studio etnografico che condussi per quindici mesi proprio al confine tra l’area della Bolognina e il territorio più centrale della città. (Scandurra 2005) Tra settembre 2004 e dicembre 2005 ho, come detto in precedenza, condotto una ricerca che ha avuto per oggetto gli immaginari, le rappresentazioni di un gruppo di ospiti, tutti senza fissa dimora, del dormitorio comunale Massimo Zaccarelli, meglio conosciuto come Carracci, ubicato in via Carracci nel confine sud della Bolognina, a ridosso della Stazione Centrale. (Scandurra 2005) Il Progetto Carracci nasce nel dicembre del 2000 quando, alla chiamata del Comune di Bologna per il fronteggiamento dell’emergenza freddo, diverse imprese sociali ed enti di volontariato rispondono impegnandosi a creare una rete per affrontare le urgenti necessità di riparo delle persone senza fissa dimora che, in quel periodo dell’anno, non avrebbero trovato un posto presso le strutture esistenti in città (Rete Carracci 2005). La Rete Carracci, composta da un insieme eterogeneo di associazioni, si aggiudicò la convenzione per la gestione della struttura messa a disposizione dal Comune impegnandosi alla realizzazione di un servizio di accoglienza a bassa soglia11. Il riparo notturno in via Carracci apre con una capienza pari a sessanta-ottanta posti letto, ma le presenze gradualmente raggiungono una punta massima di centodieci posti letto, con un avvicendamento di persone di oltre duecento presenze ogni anno. Gli ospiti del riparo notturno Massimo Zaccarelli presentano da subito un’età media di 32,8 anni, vale a dire la minore età media riscontrabile nei diversi ripari notturni cittadini. Si rileva, inoltre, fin dall’inizio, un’elevata percentuale di persone con problemi di tossicodipendenza e disagio sociale, il maggior numero in assoluto di immigrati, la più alta percentuale di disoccupati ed una presenza significativa, pari al 24-26%, di persone con scolarità media, superiore e universitaria; infine, un’elevata presenza di ospiti provenienti da altre regioni e di donne. Studiando fin da subito le presenze nel Dormitorio è stato possibile rendersi conto di come la tipologia dei senza fissa dimora a Bologna stava effettivamente cambiando. (Rete Carracci 2005) Nel giugno 2005 presso il riparo notturno Massimo Zaccarelli si tenne un seminario intitolato “Un’emergenza durata cinque anni: L’esperienza del progetto Carracci”. A parlare furono buona parte dei soggetti che compongono tutt’oggi la Rete. Nel cortile del Riparo, ad ascoltare, erano presenti anche numerosi ospiti della struttura. Si parlò, quel giorno, declinando tutti i verbi al passato poiché il Carracci, come era stato precedentemente deciso, sarebbe stato demolito entro l’anno, nel dicembre 2005. L’edificio del Riparo notturno, in effetti, come già accennato nel precedente paragrafo, era da mesi accerchiato da ruspe, muretti, binari: il Carracci era l’ultima traccia di un quartiere, Navile - che comprende il territorio della Bolognina - che, più di altri quartieri della città, stava cambiando 11 Si intende per struttura a bassa soglia una struttura che soddisfa i bisogni primari delle persone senza fissa dimora. 8 radicalmente. In questo territorio, già agli inizi della ricerca, nel settembre del 2004, vivevano migliaia di immigrati di differente appartenenza nazionale. In quel periodo erano già previste profonde mutazioni urbanistiche soprattutto in tre zone del quartiere: l’area dell’ex mercato ortofrutticolo, adiacente a via Carracci, dove a fine 2008 sono stati dislocati gli uffici comunali ed entro il 2010 è prevista la riqualificazione della Stazione Centrale e la costruzione, già in corso d’opera, dei binari dell’alta velocità; l’area di Via del Lazzaretto, dove, alla fine della ricerca, nel dicembre 2005, è stata edificata la nuova struttura che ha sostituito il riparo notturno Massimo Zaccarelli e sono previste diverse costruzioni abitative per studenti, oltre alla realizzazione del people mover, che collegherà l’aeroporto cittadino con la stazione; una terza area, infine, Casaralta, oggetto di specifici processi di gentrificazione, per via soprattutto del suo posizionamento di cerniera tra la stazione e la zona fieristica, a seguito della dismissione industriale di numerose fabbriche oggi abbandonate e popolate da senza fissa dimora e immigrati per lo più magrebini. Attualmente i cittadini stranieri residenti rappresentano oltre il 10% della popolazione del Navile, e un’intera area di questo territorio viene denominata dai residenti bolognesi come la Chinatown cittadina (Fiorentino, Coriale 200512). A via Barbieri, verso il confine ovest della Bolognina, non distante da via Carracci, per esempio, molti immigrati passano le giornate sui marciapiedi, agli angoli delle strade: sono tutte persone che abitano nelle cantine dell’immobiliare Marzaduri e sono costretti, soprattutto d’estate, a stare all’aperto per prendere aria; il problema della casa era, già nel 2004, molto sentito al Navile, come in molte altre parti della città (Tosi 1994). In questo quartiere, inoltre, la precarietà del lavoro è una realtà diffusa: le fabbriche storiche, la Casaralta, la Minganti, la Sasib, già nel settembre 2004, erano state chiuse o delocalizzate, e quelle ancora attive erano già in procinto in procinto di esserlo, come vedremo nel prossimo paragrafo. (Piano b 2008) Il lavoro etnografico, che è durato come detto quindici mesi, e che ha avuto per oggetto lo studio delle pratiche di vita quotidiana di un gruppo di ospiti del Carracci, ha preteso fin da subito di rivolgersi alla società civile e alle istituzioni locali per non rimanere prigioniero di autoreferenzialità accademica: da una parte, doveva essere inteso come campagna di sensibilizzazione e di promozione della conoscenza delle realtà esplorate, al fine di superare pregiudizi e paure dovuti in buona parte a una difficoltà di comunicazione tra i senza fissa dimora e il resto della cittadinanza, e alla mancanza di una corretta informazione sulle loro storie, sulla loro vita quotidiana, sul loro modo di pensare se stessi e il contesto dove vivono, sui percorsi che li hanno condotti alle condizioni presenti; dall’altra, doveva avere come fine la produzione di dati e letture analitici che potessero essere utili per l’universo cooperativistico e Il mensile «Piazza Grande» ha dedicato un interno numero alla Chinatown bolognese. Realizzato dall’Associazione “Amici di Piazza Grande”, il giornale nasce a Bologna nel 1993 su proposta di un gruppo di lavoro costituitosi all’interno della C.G.I.L.. Il primo numero venne diffuso il 14 dicembre 1993 come foglio di informazione sulla vita di chi è in strada. Il mensile, all’inizio, era scritto da una decina di senza fissa dimora e dagli stessi veniva distribuito nelle piazze bolognesi. In pochi giorni vennero vendute 4.000 copie e la ristampa di altre 7.000 venne esaurita prima del 6 gennaio 1994. (Barbieri, Tancredi 2006) 12 9 associazionistico che da anni si occupa del problema emarginazione sociale, per migliorare la qualità dei suoi interventi e la natura stessa del suo lavoro. (Scandurra 2005) Obiettivo dichiarato fin da subito era realizzare, dopo i quindici mesi di ricerca, una mostra, conclusiva del lavoro etnografico, al fine di far capire alla cittadinanza quanto lo strumento fotografico fosse stato necessario per raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissati da settembre 2004, ovvero la promozione di forme di autorappresentazione che si avvalessero di strumenti originali e capaci di stimolare la consapevolezza di sé degli attori sociali coinvolti13. In questa direzione, il lavoro fotografico, oltre che strumento di documentazione della condizione dei senza fissa dimora a Bologna, doveva essere funzionale alla costruzione di rapporti di fiducia e coinvolgimento con circa trenta ospiti del dormitorio Carracci. Strumento ideale perché avrebbe permesso ai senza fissa dimora con i quali avremmo condiviso il l’allestimento della mostra, di produrre anch’essi, e direttamente, una loro versione ufficiale della realtà. (Scandurra 2005) Senza fissa dimora sono le persone che si trovano in uno stato di grave bisogno poiché non hanno una casa, un reddito minimo, la possibilità di accesso ai servizi socio-sanitari, hanno rotto con la famiglia, gli amici, e sono, spesso in una condizione di rischio di possibile ulteriore deterioramento fisico e psichico (Bonadonna 2001). Il Carracci, da settembre 2004 a dicembre 2005, ha contato molti ospiti senza fissa dimora di nazionalità non italiana. Noi, io e il fotografo Armando Giorgini, il quale ha curato il laboratorio fotografico, abbiamo per lo più costruito rapporti e coinvolto nella ricerca quelli italiani, per lo più uomini, semplicemente per una ragione di praticità d’indagine14. Tutti gli ospiti del Dormitorio, poi, per quanto nessuno di essi sia nativo di questa città, sono bolognesi nel senso che hanno fatto di questo territorio un punto di riferimento stabile. In generale, abbiamo intervistato e fotografato persone che hanno scelto di vivere per diversi mesi in questa struttura assistenziale notturna, ma anche senza fissa dimora che rifiutano i dormitori e preferiscono stare per strada. Comunque tutte persone che conducono da tempo questa vita e ne sono profondamente segnati. Lavorando in termini di reti abbiamo poi vissuto diverso tempo con senza fissa dimora che hanno vissuto in altri dormitori e hanno avuto rapporti quotidiani con gli ospiti del Carracci. Il campo è stato dunque inizialmente circoscritto al riposo notturno Massimo Zaccarelli; solo successivamente abbiamo allargato il nostro terreno di indagine focalizzando l’attenzione sui percorsi urbani che fanno quotidianamente queste persone, parlando con loro nei bagni pubblici, nelle mense, nelle biblioteche cittadine, ma soprattutto in altre La mostra, ricca anche delle foto realizzate dai protagonisti della ricerca, è stata realizzata presso lo spazio della Cineteca di Bologna dal 19 gennaio al 12 febbraio 2006, finanziata dalla Provincia e patrocinata dall’Università, in particolare dal Dipartimento di Scienze dell’educazione. (Scandurra 2005) 14 In generale, la situazione di molti senza fissa dimora non italiani ospiti del Carracci almeno fino al dicembre 2005, si diversificava da quella dei nostri connazionali poiché questi, oltre a problemi comuni a tutti i senza casa, ne avevano, per storie differenti alle spalle, di altri legati al permesso di soggiorno e il consequenziale rischio di essere rimpatriati. Per quanto concerne le donne del Riposo ne abbiamo conosciute solo quattro durante i quindici mesi di ricerca. Concentrare il nostro sguardo su di loro, come per gli immigrati, avrebbe voluto dire aprire campi di indagine che avrebbero meritato grande attenzione. Una parte di queste donne sono prostitute e soffrono, per motivi diversi da quelli degli uomini, la vita in un Dormitorio. (Scandurra 2005) 13 10 strutture di accoglienza per lo più diurne. In questi ultimi luoghi abbiamo avuto modo di conoscere i loro amici, sapere quali fossero le loro relazioni, come passassero il tempo libero; attraversando con loro la città, inoltre, siamo stati costretti a fare, prima, una ricognizione dei luoghi dove alta è la concentrazione di senza fissa dimora, così, poi, da descrivere queste aree e fare di Bologna, soprattutto il suo centro storico, oggetto di analisi antropologica. (Scandurra 2005) L’allargamento del campo di ricerca infatti, dal Carracci alla città e di nuovo al Carracci, doveva seguire il lavoro fotografico che ha avuto inizio con dei ritratti impostati: l’ospite del Rifugio doveva scegliere un luogo all’interno del Carracci che riteneva particolarmente significativo per sé, un abbigliamento, l’espressione del viso. In seguito, il fotografo forniva una consulenza su come porsi concretamente di fronte all’obiettivo, posizionava le luci e sceglieva l’inquadratura, la quale veniva comunque illustrata e concordata prima dello scatto. Il lungo tempo di esposizione, in cui il soggetto doveva mantenersi perfettamente immobile, doveva così conferire solennità al momento dello scatto e quindi all’immagine realizzata. Poi gli autoritratti: sfondo fisso scelto o creato collegialmente dagli ospiti del Dormitorio da noi coordinati. Gli autoritratti sarebbero stati realizzati con un filo di scatto lungo sei metri che doveva comparire all’interno dell’inquadratura in modo da rendere palese la natura dell’immagine e il fatto che fosse stato il soggetto stesso a scattarla. La macchina doveva essere sistemata su un cavalletto una volta per tutte, cosicché anche l’inquadratura fosse uguale per tutti i soggetti. Per organizzare ciò prevedemmo fin da subito di organizzare serate evento in cui venisse richiesto ai partecipanti e agli operatori del Dormitorio di lavorare in gruppo per la predisposizione del set. Poi, spostando il terreno di indagine, iniziammo a uscire con gli attori sociali coinvolti nel progetto di ricerca fuori dal Dormitorio. Ecco l’idea del reportage rigorosamente in bianco e nero: questo non doveva prevedere forme di coinvolgimento attivo dei soggetti da ritrarre. Il fotografo doveva ritrarre i soggetti in vari momenti della loro vita quotidiana e ogni decisione di carattere tecnico o estetico doveva essere a carico suo. Percorrendo insieme a loro la città l’idea fu quella di realizzare, in questa fase, anche delle fotografie fatte dai partecipanti con macchine monouso: questi dovevano essere stimolati ad esprimersi attraverso l’uso individuale del mezzo fotografico e a raccontare la propria quotidianità. L’oggetto degli scatti doveva essere completamente libero. Il fotografo, infatti, fornì loro solo istruzioni tecniche di base, canoni di carattere estetico e di costruzione dell’immagine: gli ospiti potevano così esprimersi liberamente (Scandurra 2005). Chi sono le persone al centro di questo ricerca? Che luoghi frequentano a Bologna abitualmente? Il modo migliore per rispondere a queste domande, almeno per noi, è stato uscire con il Servizio Mobile di Sostegno gestito dall’Associazione Amici di Piazza Grande, a cominciare da settembre 2004. Il Servizio è attivo quattro volte alla settimana, ma anche tutti i giorni nei periodi di freddo più intenso con precipitazioni nevose in città. Per ogni uscita la permanenza sulla strada è di quattro ore circa, tempo che varia in base al numero di persone incontrate e alle necessità di queste ultime. Spesso il 11 contatto, infatti, si prolunga per raccogliere richieste di informazioni o di aiuto, ma anche racconti di vita o sfoghi personali. La macchina del Servizio Mobile di Sostegno, che esce sia di giorno che di notte, distribuisce ai senza casa che vivono e dormono per strada 5.000 chilogrammi di generi alimentari ogni anno, e oltre 1.000 litri di tè e bevande calde distribuite per lo più in inverno. In macchina escono, a turni, il responsabile del Servizio Mobile, due senza fissa dimora che vengono retribuiti 15 euro ad ogni uscita, un volontario dell’Associazione, spesso anche operatori “pari” - ovvero ex utenti del Dormitorio che vengono retribuiti con una borsa lavoro mensile per svolgere questo mestiere alla luce della loro esperienza -, tutti ricompensati con la stessa cifra. Per ogni uscita è possibile contare una media di 60-70 contatti, e nel solo anno 2003 il responsabile del Servizio Mobile di Sostegno segnalò almeno 6.400 contatti15. Uscire con il Servizio Mobile è stato in effetti il modo più semplice per conoscere i luoghi di Bologna dove dormono i senza casa. Per capire, per esempio, che le persone che vivono in determinati interstizi metropolitani hanno scelto quel territorio unicamente perché sotto terra ci sono gli impianti di climatizzazione, dunque fa più caldo - cosa che succede nei pressi di una banca a via Ugo Bassi, proprio nel centro storico, per esempio. L’attività consiste nel parcheggiare la macchina, distribuire sacchetti di cibo preparati nella sede dell’Associazione, fermarsi a parlare con i senza fissa dimora che si apprestano a riposare dentro cartoni o, alla meglio, sotto sacchi a pelo e coperte. In queste uscite abbiamo avuto modo di conoscere diverse persone, italiane e non, che vivono sulla strada, le quali sono state espulse dai dormitori o preferiscono starne fuori; tra i tanti ci sono anche quelli che sono nelle liste di attesa per entrare nelle strutture di accoglienza notturna. Tra i luoghi più frequentati dal Servizio ancora oggi ci sono i portici del centro storico bolognese nei pressi delle chiese, delle banche illuminate, ma anche aree più cementificate e periferiche sconosciute ai cittadini, poiché zone industriali abbandonate o fabbriche dimesse - come nel caso del territorio del quartiere Navile dove era ubicato lo stesso Dormitorio. Il lavoro di ritratti e autoritratti, condotto nei primi sei mesi della ricerca, ci diede modo di conoscere i protagonisti della ricerca: quale tragitto li aveva portati al Dormitorio? Come si rappresentano queste persone? Da dove sono partite? Quando sono arrivate a Bologna? Perché questa città? Rispondere a queste domande, infatti, ci ha dato modo di costruire una mappa dei luoghi dell’esclusione sociale a Bologna e, allo stesso tempo, studiare come questi stavano cambiando e, di conseguenza, si modificata il tessuto cittadino. Roma è tremenda da questo punto di vista, che è un sottobosco, io ci ho vissuto alla Stazione Termini, è veramente un sottobosco che bisognerebbe studiarlo, il vero inferno, quello vero, che io 15 Queste cifre sono leggibili nell’opuscolo “Associazioni Amici di Piazza Grande” stampato nel 2005 e distribuito nella sede dell’Associazione stessa. 12 ho fatto dei ritratti dell’orrore alle persone che abitavano in questo sottobosco che erano migliaia. Dei ritratti cubisti, tutti a pezzi. (Armando, quarantenne ospite del Carracci16) Ivan ha vissuto per diversi anni a Roma prima di salire a Bologna. Lui e Armando si sono conosciuti per le vie del centro storico capitolino: Te ricordi quelle strade dove abbiamo passato l’adolescenza, che eravamo una trentina? Noi ci muovevamo a piedi o in metropolitana, che la controllavamo quella zona, che spacciavamo a tutti, che mio fratello una volta mi ha telefonato e mi dice che sta fumando hashish nella macchina della polizia. Che la polizia non ci diceva niente che noi cacciavamo i marocchini e gli altri…noi venivamo tutti da parti a rischio e ci trovavamo là, quando il centro storico era nostro, che io venivo dalla periferia sud, tutti noi facevamo lavoretti poi ci vedevamo là, eravamo tanti, come una generazione. (Ivan, da più di un anno utente del Rifugio) Armando e Ivan, spesso, per passare le serata in Dormitorio, ricordavano le strade di Roma. Ma il gruppetto più numeroso era quello dei pugliesi. Salvio, loro coetaneo, per esempio, ci raccontò come nel suo quartiere popolare di Bari tutti consumassero droghe pesanti. Poi c’era qualche sardo, qualche calabrese, molti campani e siciliani, e alle volte non si capiva nulla: per questo ci venne in mente di registrare le chiacchierate ad alta voce che molti senza fissa dimora facevano davanti al gabbiotto. Alla fine, per capirsi, ognuno continuava a parlare il suo dialetto, contaminandolo con quello del suo interlocutore: i romani parlavano un po’ salentino, i campani si sforzavano di usare parole calabresi; il risultato era una lingua meridionale stranissima. E’ la lingua dei quartieri popolari di grandi città come Napoli, Palermo, Roma, Cagliari, Bari. Lingua ricca di parole, per lo più dialettali, apprese viaggiando l’Italia, come parole bolognesi, venete, trentine, bergamasche. Bologna è stata la meta principale del loro viaggio perché, così ci dissero, la loro libertà di movimento in città qui era maggiore. Ma non solo gruppi geografici. Spesso le alleanze al Carracci si giocavano soprattutto a livello generazionale. Armando, Ivan, loro avevano vissuto in città la fine degli anni Settanta per esempio. Anche Federico, e così quei pochi milanesi come lui senza fissa dimora che incontrammo sulla strada, i quali vissero l’adolescenza in quel periodo. Per molti di loro il ‘7717 è stato il periodo più libero della storia del nostro Paese, poi le cose sono cambiate, come dice Claudio - ospite da almeno quattro mesi del Carracci -, che si farà fare delle foto con due riviste musicali degli anni Settanta: “Perché poi è iniziata la repressione!”. Federico: Tutti i nomi riportati in questo scritto sono inventati e non corrispondono a quelli reali per ragioni di privacy. Grande parte dei dipartimenti universitari dell’Università di Bologna sono ubicati nel pieno centro storico cittadino. Questo territorio è stato al centro di lotte e rivolte studentesche nel 1977, quando gli studenti erano soliti incontrarsi in questa piazza per manifestare. 16 17 13 Per me il ‘77 non è un bel ricordo, per nulla, quasi tragico, che molti amici che ho avuto non ne sono usciti dal ‘77, molti li ho persi per Aids e per droga. E io sono stato fortunato che ho avuto anche rapporti a rischio, ma nulla, e le siringhe, perché soldi in tasca ne ho sempre avuti un po’, non le ho mai scambiate. Io facevo, come altri, il corriere della droga. Approfittavo delle manifestazioni in piazza […] portavo la droga nei quartieri alti, dai borghesi. Tanto la polizia pensava solo al Movimento, e meglio così. (Federico da più di sei mesi al Carracci) Bologna diventa meta preferita per molti ospiti del Carracci proprio in quegli anni. Ivan: Io sono venuto a Bologna, che il treno che mi portava al Nord passava sempre per Bologna e così mi sono fermato. E poi a Bologna mi sono trovato bene, che ero piccolo, avevo pochi anni e i portici mi rassicuravano a camminarci da solo. Sono stati i portici a convincermi quando ero piccolo. Per molti di loro, in quegli anni, Bologna rappresentava una vera e propria esperienza metropolitana. Sempre Ivan: Mi ricordo che frequentavo una ragazza che mi portava nel labirinto degli specchi, che ti ricordi quando eravamo piccoli? Un‘altra ragazza mi ha portato al museo delle cere. Io venivo, noi, da una dittatura, non so come dirti, c’erano cose liberatorie per me, anche molte cazzate, per carità, però mi sentivo libero di fare quello che mi pareva qua. Per altri, già in estrema difficoltà, Bologna rappresentava una delle città più fornite in termini di assistenza sociale, e comunque una tra le città più tolleranti. Salvio: Sì, Bologna è una città che tollera, ma non rispetta, non accetta. E sempre stata così, i ragazzini pensavano fosse diversa e qui tutti a fumare. Qui puoi fare quello che cazzo ti pare, a differenza di altre città non ti dicono che devi diventare come loro, ma poi se dai fastidio e gli togli ricchezza sono cazzi tuoi qui. (Salvio, da più di tre mesi al riposo Massimo Zaccarelli) Anche Ivan la vedeva così: Qui stai bene, ma è vero che sono svizzeri, che quando oltrepassi il limite è la fine, che sono loro stessi a organizzarsi e mandarti via, altro che la polizia di stato. Bologna, per alcuni, fu solo l’ultima sosta prima di ricominciare il viaggio. Spesso questo tragitto nomadico è iniziato con il servizio militare. Molti baresi, napoletani, palermitani hanno lasciato casa a 14 quell’età per non tornarci mai più. Ivan, Armando e Federico spesso parlavano dell’esperienza del servizio militare. Per altri il viaggio, prima di interrompersi a Bologna, ha oltrepassato i confini nazionali. Perdersi, per alcuni utenti del Riposo, infatti, significava aver voglia di conoscere realtà diverse. Per altri ancora, invece, l’unico motivo per cui ci si sposta tanto, e Bologna per la sua posizione geografica è stata una meta di passaggio obbligatoria, come per Federico, è che: “Prima o poi qualche cazzata la fai e dunque sei costretto a non farti più vedere in quel posto e cambiare aria e amicizie”. Dopo aver conquistato rapporti di fiducia con un gruppo ristretto di ospiti - noi abbiamo frequentato quasi tutti i giorni il Dormitorio durante i quindici mesi di ricerca e il sabato e la domenica passavamo l’intera giornata con loro - iniziammo ad uscire per la prima volta dal Carracci insieme. Una delle fasi finali del laboratorio consistette, in effetti, nella realizzazione di un reportage che abbiamo prodotto nei successivi sei mesi di studio. L’idea era molto semplice: uscire con loro, passare tutta la giornata insieme fino al rientro nel Riposo notturno alle sette di sera. Quale è la Bologna che attraversano questi cittadini senza residenza? Dove si ritrovano? Come passano il tempo? Ovviamente questi luoghi sono molti e tra loro sono radicalmente diversi. Ancora oggi, da una parte ci sono i luoghi dello “scambio assistito”, ovvero i luoghi gestiti da centri assistenziali, gruppi di volontariato, etc. (Bonadonna 2001). Questi sono spesso luoghi dove non si costruisce capitale sociale, piuttosto ci si riposa, si guarda la televisione, si dorme anche per tutto il pomeriggio. Alcuni ospiti del Carracci, per esempio, sceglievano di passare il pomeriggio al centro polifunzionale in via Sabatucci, a ridosso del centro storico. Altri senza dimora, ancora adesso, preferiscono andare a via del Porto, non troppo distante dalla stazione, dove c’è un altro centro diurno. Ovviamente la scelta non è casuale, ma segue logiche di alleanze, di amicizie. Alla seconda categoria fanno capo quei luoghi dove si incontrano persone italiane e stranieri indigenti, con o senza fissa dimora, famiglie di italiani in condizione di povertà non estrema. Sono luoghi dove si scambiano e si vendono oggetti di ogni tipo, luoghi di attrazione per la piccola ricettazione e lo spaccio di droghe. (Bonadonna 2001) Il sociologo romano fa riferimento a piccoli mercati più o meno improvvisati che non hanno luogo fisso; cambiano a seconda dell’intensità dei controlli di polizia. A Bologna rientrano in questa categoria territori come Piazza dei Martiri, Piazza Puntoni, via Zamboni all’altezza di Piazza Verdi, tutta l’area della ex Manifattura Tabacchi a ridosso della Cineteca in via Azzo Gardino18; ovvero luoghi del centro storico e dell’area universitaria. Qui molti senza fissa dimora, tutt’oggi, possono praticare la loro 18 Non a caso tutta l’area della ex Manifattura, a partire dal parco, è oggetto di specifici processi di gentrificazione a cominciare dall’apertura, nel 2007, del museo d’arte contemporanea, il Mambo. 15 primaria economia di scambio, il baratto: si scambiano vestiti, schede telefoniche trovate dentro le cabine, scarpe, soprattutto genere vestiario, utile per proteggersi dal freddo. Sono tutte zone del centro storico perché qui è possibile fare elemosina. Come dice Federico: “Dove c’è più turismo è più facile guadagnare!”. Ma sono luoghi centrali anche perché zone come Piazza Verdi sono molto frequentate dagli studenti, insomma sono i territori preferiti da tipologie di persone, anch’esse non residenti19, che tollerano i senza fissa dimora e hanno rapporti, di diverso tipo, con essi. Nonostante l’area universitaria, infatti, sia tra le più sorvegliate dalle Forze dell’Ordine questa rimane un luogo centrale per molti senza dimora. Alcuni qui si sentono a casa, come una volta ci disse Armando: “Mi sento giovane sotto i portici di via Zamboni, che ci fermiamo a bere, ci stanno i cani, c’è libertà”. Quindici mesi di ricerca ci hanno permesso di evidenziare quanto, seguendo i percorsi quotidiani che avevano portato un gruppo di senza fissa dimora a Bologna, e i loro movimenti quotidiani in città a partire dalla Bolognina, dove era sito il loro Rifugio, quest’ultimo territorio periferico fosse già allora in relazione di reciproca influenza con il più esteso centro storico; non poteva, dunque, essere analizzato come spazio di aggregazione residuale e dissonante rispetto ad aree più centrali; né, di conseguenza, essere studiato, in quanto contesto urbano periferico, solo come localizzazione geografia e culturale circoscritta. Per questo, partendo da queste osservazioni, durante la ricerca P.R.I.N. iniziammo a domandarci come si fosse strutturata negli anni questa relazione di reciproca influenza tra determinate aree urbane periferiche bolognesi e il centro cittadino. Territori come Genova, centri portuali come il vieux port di Marsiglia, Napoli, Bari vecchia, il Barrio chino di Barcellona, tutti quartieri antichi a ridosso di porti, spazi di transito e di approdi temporanei, edifici fatiscenti, vicoli oscuri, economie marginali, traffici illegali o ai limiti della legalità come la prostituzione, socialmente omogenei (Dal Lago, Quadrelli 2003). Così Dal Lago e Quadrelli descrivono i mondi criminali di una città del nord Italia, Genova: Gli antichi palazzi sono abitati da cittadini comuni e, ai piani alti, anche da rampolli della nobiltà, mentre a poca distanza gli immigrati si insediano in edifici degradati o pericolanti. Dipartimenti universitari danno su vicoli ben noti ai clienti delle transessuali, i tossicodipendenti si raggruppano in piazze o salite sui cui si affacciano chiese, musei e scuole […]. Città chiusa in se stessa, in effetti, da confini quasi naturali, come i portici, le porte, le valli, dunque ambiente unico per la ricerca sociale, e in particolar modo etnografico […]. Il mutamento economico e sociale vi si può leggere quasi quotidianamente, i cambiamenti sono sovrapposti e databili. Il passaggio dall’economia industriale a quella dei servizi, il declino della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali e politiche, il travaglio delle amministrazioni locali, la disoccupazione giovanile, l’immigrazione e la xenofobia Bologna è una città di circa 375.000 cittadini. Parte degli abitanti della città, che è abitata quotidianamente da più di mezzo milioni di persone, è composta da cittadini non residenti, per lo più studenti, ma anche immigrati, senza fissa dimora, city users (Callari Galli 2004) 19 16 occulta o dichiarata, il sentimento di insicurezza, l’imprenditoria politica locale che fa leva sulla paura. (Dal Lago, Quadrelli, 200320) Prima di iniziare la ricerca, mai avremmo immaginato di poter descrivere Bologna come fosse una città portuale21, come Genova, come quelle descritte da Dal Lago e Quadrelli. Ma anche qui possiamo parlare di due città, due mondi che convivono sullo stesso palcoscenico senza sfiorarsi, e soprattutto ignorandosi. Il centro di Bologna ha una caratteristica peculiare, derivante per certi aspetti dalla sua conformazione urbanistico-architettonica, la presenza dei portici, che non è riscontrabile in altri centri, come per esempio il centro museificato di Firenze o Roma, dove la città “illegittima” (Dal Lago, Quadrelli 2003) è spesso relegata alla periferia. Questo aspetto fa sì che il centro di Bologna non sia socialmente omogeneo: gli antichi edifici sono abitati da cittadini comuni, da una ricca borghesia, da studenti, ma è sotto i portici che Bologna si fa caleidoscopio della diversità; davanti alle vetrine dei negozi di lusso, dei teatri, delle chiese, sostano mendicanti, senza fissa dimora, immigrati qui si svolgono le loro attività, fanno colletta, smerciano, spesso vi dormono. I portici, in un certo senso, diventano dimora mentre i residenti storici scorrono loro accanto, così che mondi sociali diversissimi si sfiorano e coesistono senza che gli sguardi degli abitanti di un mondo si soffermino sui frequentatori dell’altro (Dal Lago, Quadrelli 2003). Piazza Verdi, la zona universitaria, è uno di questi spazi dove questi due mondi convivono, appunto, senza toccarsi. Ecco dunque che Bologna si fa contenitore di due mondi, di due città, che coesistono, si ignorano, si evitano, due città in una posizione profondamente diversa e asimmetrica. Come nel caso genovese, infatti, la società “legittima” non conosce quella “illegittima” (Dal Lago, Quadrelli 2003), ma la evoca continuamente, la rende colpevole di quel disagio, di quel degrado22 che la città vive, come una continua minaccia possibile, come una città popolata da abbietti, deviati, anormali; ricorrendo però a quest’ultima per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda di prostituzione a quella dei stupefacenti e dei giochi d’azzardo. (Dal Lago, Quadrelli 2003) All’interno del centro storico bolognese, per esempio, ci sono luoghi che molti senza fissa dimora frequentano al fine di nascondersi tra la folla. La sala Borsa23 è quello più significativo. Qui, avviene anche adesso, molti senza fissa dimora passano la giornata, usufruendo dei bagni, delle macchinette che Dal Lago e Quadrelli in “La città e le ombre” parlano di “città legittima e città illegittima”, narrando lo spazio urbano genovese, come due mondi in una posizione profondamente asimmetrica e diversa, ma che convivono nello stesso territorio. (Dal Lago, Quadrelli 2003) 21 Così descrive la città lo scrittore Luigi Bernardi: “Bologna è una città abitata da mezzo milione di cittadini fieri. Il vero mistero è proprio questo: come fa Bologna in poco tempo a trasformarsi in una specie di albergo, con parecchie stanze vuote, che molti vengono ad abitare per capriccio o bisogno, ma nessuno considera davvero la propria città? Bologna, […], è una città abitata da cittadini residui”. (Bernardi 2002) 22 Le ultime elezioni cittadine si sono giocate soprattutto sulla questione “insicurezza”, “degrado”, “illegalità”. 23 Nonostante, dopo l’elezione del Sindaco Sergio Cofferati nel 2004, parte dello spazio di questa biblioteca pubblica sia stata venduta a privati al fine di aprire una libreria, un caffè e un ristorante, questo luogo era tra quelli più scelti dagli ospiti del dormitorio Carracci: qui gli era possibile usufruire dei bagni, riscaldarsi, leggere libri. 20 17 distribuiscono caffè e cibo; qui sono soliti leggere, visto che i libri possono essere sfogliati senza l’obbligo, poi, di acquistarli. Ma sono anche ragioni meno materiali che spingono queste persone a trascorrere numerosi pomeriggi in Sala Borsa. In questo luogo, come ci disse Federico: “Hai la sensazione di far parte della città, di essere integrato”. La sala Borsa è in effetti uno spazio vissuto, frequentato da molti residenti, uno spazio simbolico della “bolognesità”. (Addarii 200424) Nell’autunno del 2005, e per i successivi tre mesi prima della chiusura del Dormitorio, conducemmo l’ultima fase del laboratorio. Nostra volontà era quella di produrre delle fotografie con macchine usa e getta: dovevano essere gli stessi ospiti del Dormitorio a scattarle. Attraverso l’uso individuale di questo mezzo fotografico avrebbero dovuto raccontare la propria quotidianità, la città che abitavano, i luoghi che vivevano, le persone con le quali passavano il tempo. La macchina fotografica, del resto, è stato lo strumento che ci siamo portati tutti i giorni nella nostra cassetta di attrezzi da etnografi: lo strumento che ci ha permesso, da subito, di interagire con i nostri informatori; di costruire rapporti che non sarebbero mai nati se non avessimo offerto loro la possibilità di esprimersi, se non avessimo scambiato con loro qualcosa. Ma la scelta di far produrre a loro stessi delle immagini è stata anche una necessità metodologica. Per quanto potevamo conoscere sempre meglio la realtà dei senza fissa dimora, siamo stati fin da subito consapevoli di quanto le loro foto risultassero più autentiche, permettendoci di comprendere di più il loro mondo, i loro luoghi. (Scandurra 2005) Prima di iniziare l’ultima fase del laboratorio legata alle macchine usa e getta, fornimmo delle istruzioni tecniche di base ai partecipanti, per lo più canoni di carattere estetico e di costruzione dell’immagine. L’idea era quella di, una volta fatte le foto, riunirsi nel Dormitorio per raccontarsi il perché si era scelto di fotografare quel luogo e non quell’altro; per questo, fin dall’inizio, pensammo di non costringere gli ospiti a fotografare un unico soggetto, per esempio il centro storico di Bologna, piuttosto lasciarli liberi di esprimere al fine di capire, poi, cosa ci fosse dietro le loro scelte artistiche. Per trovare spazi privati, dove essere al riparo degli altrui sguardi, molti senza fissa dimora preferiscono vivere sulla strada, in territori liminali. Per esempio sotto determinati portici meno visibili dietro le colonne del centro storico bolognese. Alcune foto ritraevano questi spazi, “proprietà” di senza dimora che avevano costruito, con cartoni e altro, un vero e proprio edificio sotto i portici. Ancora oggi è possibile vedere queste persone spazzare ogni mattina questi luoghi, pulirli, prima che li attraversino i residenti, i quali li sporcheranno, costringendo loro così a rimettere tutto a posto alla sera, prima di andare a dormire. Un altro utilizzo del territorio è necessario per molti senza fissa dimora: basta pensare a dove queste persone possono avere rapporti sessuali, visto che in Dormitorio è impossibile, è vietato. Ivan, per esempio, ci ha fatto vedere che spazi della città utilizzava per fare l’amore con la sua 24 Nel numero della rivista “Gomorra” dal titolo “La metropoli rimossa”, Filippo Addarii ha ricostruito analiticamente, durante l’Amministrazione Guazzaloca che ha preceduta quella di Sergio Cofferati - 2004-2009 -, la reinvenzione della bolognesità, e il desiderio politico della Giunta, anche allo scopo di difendersi dalla presenza dei senza dimora nelle principali piazze del centro storico, della chiusura della città in un piccolo paese dentro le Porte, attraverso l’edificazione delle statue di San Petronio, Padre Pio, Ugo Bassi nei punti nevralgici del territorio. (Addarii 2004) 18 compagna, come angoli riposti e poco battuti dei parchi cittadini, come i Giardini Margheriti, sempre nel pieno centro storico. Esistono diversi luoghi dove queste persone sono soliti trascorrere il tempo, costruire capitale sociale, delle abitudini. Ciò che accomuna questi territori è che, nonostante siano per lo più dislocati nel centro storico della città, assumono le sembianze di zone periferiche - un angolo nascosto nella Sala Borsa, una panchina invisibile perché tra due cespugli a Piazza dei Martiri, un interstizio tra due portici a via Zamboni, in piena area universitaria. Questi spazi “periferici” sono spesso trasversali, spazi di attraversamento: luoghi caratterizzati da aree residenziali edificate con standard diversi, per esempio, oppure le stesse fabbriche dimesse del quartiere Navile abitate da numerosi senza casa. Sono territori sempre più frequentati da persone che i residenti storici percepiscono come “stranieri”, siano essi, senza fissa dimora, immigrati, ex studenti fuori sede in cerca di occupazione, per lo più provenienti dal Meridione. In questo senso i luoghi abitati da questi “stranieri” non sono mai del tutto loro: sono gli spazi dimenticati, di margine, i giardini pubblici che nessuno vuole più vivere. (La Cecla 2000) In questa direzione, durante la ricerca P.R.I.N., ci siamo accorti come la dialettica centro/periferia perdeva senso come chiave di lettura dei territori dell’esclusione sociale; all’opposto abbiamo avuto modo di vedere come l’intero territorio comunale stava cambiando. Già durante gli anni Novanta, infatti, l’assetto urbano di questa città doveva essere ristudiato, a cominciare proprio dal centro storico, poiché le mura dei palazzi cominciavano a deteriorarsi: ai problemi di subsidenza si andavano sommando problemi di integrità strutturale degli edifici del centro, sempre più colpiti dalle vibrazioni dovute all’aumento del traffico nella cerchia delle Mura cittadine. Icentro storico, con le sue stradine e la sua pianta medievale, non poteva più reggere l’uso sempre più intensivo cui era stato destinato con il beneplacito di istituzioni - aeroporto, ente fiera, immobiliari, cooperative sociali, aziende e servizi dei trasporti - interessati all’afflusso di masse di persone che potessero rivitalizzare l’economia del terziario bolognese in un’epoca ormai post-industriale, allorché persino i fiori all’occhiello dell’area, come l’industria meccanica, come dimostreremo nel prossimo paragrafo, vedevano ridursi il loro fatturato se non il loro prestigio. (Giuliani, Scandurra 200625) Nei primi anni Novanta, inoltre, il numero degli studenti dell’ateneo cittadino cresce inoltre notevolmente26. Tale sfruttamento intensivo non è un fenomeno nuovo per Bologna - persino i portici nacquero, nel Medioevo, per opera degli affittacamere che desideravano creare nuove stanze da riempire di studenti, e tuttavia erano vincolati dalla larghezza della strada e dallo spazio disponibile eppure ciò che impressiona è quanto oggi, nonostante i tentativi agiti soprattutto dall’ultima Amministrazione, i nuovi piani urbanistici non riescano a essere “partecipati” e condivisi con una buon Nel 2006, insieme al giornalista Fabrizio Giuliani, realizzammo un’inchiesta sulle trasformazioni del tessuto cittadino a partire dagli anni Novanta. (Giuliani, Scandurra 2006) 26 A metà anni Sessanta l’Università contava 16.000 studenti su una popolazione di 500.000 abitanti. Oggi Bologna ha una popolazione di 375.000 residenti e la popolazione universitaria supera le 100.000 unità: il rapporto in meno di quarant’anni si è alterato di circa quattordici volte. (Pavarini 2006) 25 19 parte della cittadinanza (Lasagni 2005). Dopo aver operato affinché si raggiungesse il punto di rottura, negli ultimi anni, in effetti, l’Amministrazione si è presa l’onere di governare le conseguenze di questi processi: l’esautorazione del centro storico dalle funzioni amministrative e propriamente urbane e la creazione, nelle aree a nord, più periferiche, la Bolognina su tutte, di un nuovo centro che fornisca i servizi spostati dal primo. (Giuliani, Scandurra 2006) L’ipersfruttamento dell’immagine di Bologna e la pubblicizzazione di un modello di welfare sempre riuscito, accompagnato dalla diffusione di miti sul “buon vivere” della città e dalla speculazione edilizia e immobiliare, hanno prodotto, già a cominciare da questi anni, il caos dentro le Porte, l’aumento dei cittadini non residenti, il boom del parco vetture circolante, l’ipertrofia del traffico pedonale e automobilistico. In aggiunta, lo spostamento verso nord dei servizi amministrativi del Comune è stato contemporaneo a quello del polo “culturale” e “giovanilista” che è andato assestandosi nell’area periferica di San Donato27. La qual cosa, già allora, portò a una rivitalizzazione dell’economia che però prescindeva dalla città, che recideva volontariamente il suo legame con la creazione culturale condivisa, di cui il centro storico era epicentro naturale. (Giuliani, Scandurra 2006) Per questo ritenemmo semplificante, alla fine del lavoro P.r.I.N., leggere questa città nella vecchia dialettica centro-periferia. Bologna non è Parigi, non ha un grande centro e una banlieue. La “malattia periferica” qui è sottile: spesso non ha a che fare con fattori territoriali, puramente geografici, ma piuttosto psico-geografici. Al punto che qui la banlieue e il centro sono in un certo senso invertiti: il centro storico è periferia. Gli studenti, i parìa della città, lo occupano in massa; le attività commerciali sono sempre più nelle mani degli immigrati; le colf filippine e le badanti polacche, non potendo invitare i conoscenti in case minuscole o abitazioni in cui lavorano da ospiti, si ritrovano a chiacchierare in piazza Maggiore e in altri luoghi storicamente regno dei residenti storici, come i Giardini Margherita28. Questa paradossale visibilità dello “straniero”, che sia immigrato o studente fuori sede, che utilizza in modo diverso lo spazio pubblico cittadino - visibilità generata dalle necessità e dalle storture dell’economia cittadina come detto - induce spaesamento nei “bolognesi autentici”. Tale shock, a sua volta, ha certamente avuto un importante ruolo nel portare gli amministratori della città a mettere al primo punto dell’ordine del giorno questioni ambigue e controverse come quella della “legalità”, della “sicurezza”, del “degrado”, come precedentemente affermato. Per questo, durante la nostra ricerca, abbiamo avuto difficoltà a parlare di periferia e di centro, e abbiamo troviamo più sensato far riferimento a diversi territori eterogenei le cui relazioni erano tutte da indagare. 27 I principali centri di aggregazione giovanili, e i centri sociali storici di Bologna come Link e Livello, sono stati trasferiti tutti in questa nuova area raggiungibile solo con la macchina, soprattutto dopo la mezzanotte. 28 Il centro storico di Bologna negli anni Novanta è rinato, si è arricchito di colore e attività commerciali grazie alle decine di piccole botteghe aperte dai cittadini pakistani, indiani, bengalesi e sudamericani che offrono un servizio altrimenti irreperibile per la popolazione residente e gli studenti universitari. Le donne moldave, polacche, ucraine, peruviane e filippine sono ormai e sempre di più insostituibili nella cura e sostegno morale e fisico di migliaia di anziani che non possono permettersi i costi delle case di cura. 20 Ma torniamo ora la nostro territorio, alla Bolognina, e osserviamo come questo contesto urbano sia cambiato anche in relazione alle trasformazioni appena descritte che hanno investito il centro storico di Bologna; e come, nonostante non si possa parlare della presenza di una banlieue, alcune aree di Bologna fuori dalle Mura sono sempre più caratterizzate, negli ultimi anni, dalla presenza e le pratiche di vita di ragazzi e ragazze di origine straniera. 3. La Bolognina una volta chiuse le sue fabbriche Nel 1919 l’imprenditore bergamasco Carlo Regazzoni, che aveva svolto mansioni dirigenziali in fabbriche come la Breda, la Società officine ferroviarie italiane, la Fervet, rileva lo stabilimento Sigma nel territorio della Casaralta, una porzione di periferia nell’area della Bolognina; territori che poi, con la riforma dei quartieri, avrebbero fatto parte entrambi del quartiere Navile. Nascono così le Officine di Casaralta (Piano b 200829) e la prima periferia nord della città inizia a divenire tra le aree più industrializzate della città, sicuramente quella più caratterizzata dalla presenza di operai residenti nel territorio. Il capoluogo emiliano, fino all’Unificazione d’Italia, soprattutto nei suoi territori più periferici, era connotato per lo più come grande mercato locale. Solo dopo il 1861, in funzione del suo essere nodo ferroviario e passaggio obbligato per le principali linee di comunicazione fra il nord e il sud del Paese, si trasforma in centro commerciale di importanza nazionale. La popolazione, che fino ad allora si assestava sulle centomila unità tra città e contado, a cominciare dal 1861 inizia a crescere nell’ordine di un migliaio di abitanti all’anno. Le prime grandi trasformazioni del tessuto urbano bolognese non a caso avvengono negli anni successivi all’Unificazione, soprattutto all’interno dell’area del centro storico: seguendo le indicazioni del Piano regolatore del 1889, per due decenni questo territorio sarà teatro di lavori di ridisegno e riqualificazione urbana. Queste trasformazioni, per tutto l’Ottocento, si limitano unicamente alle aree centrali: nelle zone limitrofe, infatti, si formano solo modesti aggregati urbani, specialmente in vicinanza delle Porte, che vengono progressivamente demolite a cominciare dal 1902. Solo quando la città satura le aree libere all’interno della cerchia murata inizia un’intensa attività edilizia nel territorio periurbano. Due saranno le forme urbanistiche più usate: la prima, la città giardino, ovvero agglomerati di villette a due o tre piani, di elegante architettura e con giardino privato, per lo più edificate lungo i viali di circonvallazione, nella zona alta della città; la seconda, la casa popolare: ovvero grandi palazzi costituiti da decine di appartamenti realizzati secondo criteri intensivi, ancora visibili nei terreni fuori dalle Mura, e costruiti per opera di enti pubblici e società cooperative quali l’Istituto Autonomo Case Popolari, la Società Cooperativa per la costruzione e il risanamento di case per gli Piano b è un gruppo nato nel giugno 2006 al fine di produrre inchiesta sociale a Bologna. Dal gennaio 2006 al gennaio 2007 abbiamo studiato le trasformazioni che hanno avuto come teatro il territorio della Bolognina e più in generale il quartiere Navile a partire dall’area di Casaralta e dalla chiusura di questa fabbrica. L’inchiesta è stata realizzata insieme ai colleghi Fulvia Antonelli, Pietro Bellorini, Gianluca D’Errico, Luca Lambertini, Paolo Lambertini, Mimmo Perrotta, Sara Sartori e Leonardo Tancredi. (Piano b 2008) 29 21 operai, la Banca Popolare di Bologna e Ferrara. La Bolognina, già in questi anni, si caratterizzerà per queste due tipologie abitative. Dopo l’Unificazione, iniziano a nascere, dalle ceneri dei numerosi laboratori artigiani concentrati nella città vecchia, fabbriche che in poco tempo assumono importanza nazionale, dopo aver trasferito le loro sedi in periferia al fine di ingrandire gli impianti produttivi: aziende metalmeccaniche come Ducati, Giordani, Minganti, Sasib; ma anche aziende alimentari e grafiche. La maggior parte si sviluppa intorno a via Emilia Ponente, la via di comunicazione più significativa, e a nord della Stazione Centrale, alla Bolognina appunto, in virtù del potere attrattivo della ferrovia nei riguardi degli insediamenti industriali. Le Officine di Casaralta sorgono tra via Ferrarese e l’odierna via Stalingrado, ai margini di un’area che conta una superficie di 475 ettari, di poco superiore a quella complessiva del centro storico - 435 ettari ed è delimitata dagli impianti ferroviari della Stazione Centrale a sud, dal canale Navile a ovest, dalla tangenziale a nord e da via Stalingrado a est (Piano b 2008). Casaralta, del resto, è solo uno dei tanti nuclei urbani che compongono questa vasta area, tra cui Arcoveggio, la Zucca, Ca’ de’ fiori, Battiferro, I due Pozzi, Caserme Rosse. Oggi, dopo che gran parte di questi territori è stata unificata nel quartiere Navile è possibile studiare questa zona come una periferia ininterrotta che impedisce di tracciare limiti precisi tra un’area e un’altra, visto che le espansioni urbane successive al 1919 salderanno fra loro i vecchi borghi. La Bolognina è sempre stata percepita e rappresentata come un territorio popolare in conseguenza degli alti casamenti disposti su una maglia di strade che si intersecano ad angolo retto. Casaralta, in particolare, acquisirà già dai primi anni Venti le caratteristiche del nucleo più industriale dell’area della Bolognina: in questo territorio, all’inizio del Novecento, verranno installati, oltre alle Officine di Casaralta, altri importanti stabilimenti quali il Carnificio militare, lo stabilimento Longo e le Officine Minganti, che trasformeranno il nucleo urbano in un borgo operaio. Ancora oggi, il modo di denominare questi territori usato dagli abitanti del quartiere non corrisponde pienamente a quello degli urbanisti e degli amministratori locali, piuttosto ricorda le vecchie divisioni in rioni. (Piano b 2008) L’attuale quartiere Navile, oggi, è composto di vecchi tre rioni: Lame, Bolognina e Corticella. Bolognina, divisa a sua volta in Bolognina classica, Casaralta, Arcoveggio, Montovolo. Si tratta del primo rione di Bologna. (Claudio Mazzanti, Presidente del quartiere Navile30) Fino alla metà dell’Ottocento il territorio suburbano di Bologna è principalmente campagna coltivata a perdita d’occhio e punteggiata di sparse case coloniche. Sarà la costruzione della Stazione Centrale a modificare radicalmente il territorio della Bolognina. Dal 1859 al 1866 Bologna si collega alle maggiori città italiane: Milano, Ancona, Firenze, Roma. Nel 1871 viene costruito l’edificio della stazione e Durante l’inchiesta sociale, allo scopo di ricostruire la storia della fabbrica Casaralta, abbiamo intervistato numerosi operai, sindacalisti, residenti della Bolognina, e anche molti amministratori del territorio. (Piano b 2008) 30 22 sorgono numerose officine per la riparazione del materiale ferroviario nell’odierna via Carracci dove nel 2000 sarò aperto il Dormitorio Massimo Zaccarelli. Il piano di ridisegno urbano comincerà solo dopo la demolizione della cerchia muraria nel 1902: il Comune, per realizzare la fitta maglia di strade progettata nel Piano regolatore del 1889, compera parte dei terreni della Bolognina. Bologna in questo periodo continua a crescere demograficamente; nel 1940 supererà i 300.000 abitanti. Tra le due Guerre, inoltre, viene aperta la Direttissima, l’asse fondamentale delle comunicazioni tra Roma e Milano, vengono edificate nuove sedi per istituti scientifici e universitari, nascono la Scuola di Ingegneria e il Mercato ortofrutticolo. Durante la Guerra gli alleati bombardano la Bolognina per la presenza della stazione e delle fabbriche. Dopo la Guerra si ricostruisce sul vecchio modello, si ricostruiscono le stesse fabbriche. Il modello resta in piedi fino alla metà degli anni Settanta […]. Le ondate migratorie non si arrestano. I primi dalla bassa ferrarese in seguito alle alluvioni. Poi dalle campagne e poi dal Meridione. Non ci sono mai stati problemi d’accoglienza, perché a Bologna non c’erano le grandi fabbriche da 10 mila operai, ma da 800 o mille e comunque si trattava sempre di manodopera specializzata. Gli operai immigrati passavano prima dagli artigiani quando avevano imparato il mestiere, finito l’apprendistato, eri un fresatore le tue mani valevano oro e andavi a lavorare in Minganti. Ottime scuole professionali Non finivano di studiare e già c’erano le richieste, non esisteva disoccupazione. La periferia uniforme, costituita da schiere di case a tre o più piani, tutte simili tra loro, tipica dell’area della Casaralta e dell’Arcoveggio, prende forma in questo periodo storico. I palazzi in questo caso sostituirono interamente le villette a due piani dato che i terreni si facevano sempre più costosi. (Claudio Mazzanti) Negli anni Cinquanta, in effetti, la città conosce un nuovo boom: la popolazione nel 1960 raggiunge circa 440.000 unità, non solo a causa dei tradizionali arrivi dalla Provincia, ma soprattutto grazie ai consistenti flussi migratori dal ferrarese, dal Polesine e dal Meridione. Nasce, inoltre, il quartiere fieristico, viene costruita la tangenziale, vengono edificati nuovi quartieri residenziali ad iniziativa pubblica e privata. Negli anni Sessanta, saranno soprattutto i comuni del comprensorio e le aree periferiche della città a crescere, a causa dell’arrivo di numerosi immigrati che non riescono a trovare un alloggio economico in centro, e del decentramento di molti stabilimenti industriali nell’hinterland al fine di ingrandire le strutture produttive: queste ultime potranno così attingere a riserve di manodopera d’origine contadina, continuando ad utilizzare manodopera specializzata e qualificata abitante in città (Piano b 2008). Le officine della Casaralta, per esempio, attirano da subito forza lavoro dalle aree agricole limitrofe. Negli anni Novanta inizieranno a manifestarsi i segnali di decrescita: da un lato la crisi riguarda l’intero settore produttivo del materiale rotabile - legata alle politiche statali rispetto ai trasporti su ferro - e 23 porta alla chiusura di tante imprese importanti e alla vendita a investitori stranieri di altrettante - la Fiat ferroviaria, la Brown Boveri. Dall’altro lato, la posizione geografica delle Officine di Casaralta rende l’area più redditizia ai fini della speculazione edilizia che non della produzione industriale. La proprietà, dunque, decide di sacrificare quella che forse era la migliore azienda del gruppo dal punto di vista tecnologico e produttivo e di vendere il terreno ad imprenditori immobiliari marchigiani. (Piano b 2008) Questo c’è stato fino agli anni ‘90, poi mancarono gli investimenti, e come azienda ci siamo consorziati con Firema, siamo diventati un gruppo; lì dagli anni ‘90 fino ad arrivare al ‘98 ci furono continue difficoltà, si lavorava senza prospettive generali. Facevamo commesse per le Ferrovie ma erano insufficienti; iniziarono i periodi di cassa integrazione […]. Nel 1997 si è iniziato a parlare di mobilità e di chiusura. (Guido Canova, operaio Casaralta dal 1963 al 1998, delegato sindacale Fiom; Piano b 2008) La crisi, però, produce malcontento e numerose manifestazioni di protesta da parte degli operai. Dopo il conflitto, infatti, l’esperienza accumulata durante la Guerra di Liberazione e le reti di solidarietà fra fabbrica e quartiere non si erano mai disperse; piuttosto si erano spesso tradotte in un repertorio di azioni di socialità diffusa. I delegati tenevano sotto controllo la situazione anche nella vita della fabbrica. C'è stato un vecchio delegato, che era anche un ex partigiano, che individuava tra quelli nuovi quelli che più si interessavano, più aperti. Lo prendevano sotto al braccio, metaforicamente ma neanche troppo metaforicamente, e gli insegnavano a conoscere la fabbrica non solo nel modo di lavorare ma anche nella sua natura, nella sua cultura…di come era la fabbrica e di come era diventata anche attraverso le lotte. (Lia Amato, immigrata dalla Sicilia e operaia Manifattura Tabacchi negli anni ’70, poi consigliere regionale Rifondazione Comunista; Piano b 2008) Per molti operai che abbiamo intervistato durante l’inchiesta, in effetti, entrare nelle fabbriche della Bolognina significava “andare in trincea”, nell’unico luogo da dove poter portare a buon fine quella rivoluzione cominciata con la Resistenza e considerata ancora incompiuta. Allora andare a lavorare nelle grandi fabbriche era un’aspirazione, dava una certa sicurezza di lavoro continuativo e poi c’era anche quella cosa che dicevo io, anche un po’ ideologica… nel senso che… anche se ero politicamente immaturo ed a 17 anni me ne sbattevo il giusto, però da tradizione di famiglia pensavo di entrare in fabbrica per combattere il padrone… era una forma ideologica. (Guido Canova; Piano b 2008) 24 Sarà nei tre grandi momenti di crisi e di lotta degli anni Cinquanta, Sessanta-Settanta e fine anni Novanta che, soprattutto nella vicenda della Casaralta, il legame fabbrica/operai e quartiere/abitanti diventerà visibile nelle forme di solidarietà concreta che si attiveranno. Le epiche vertenze contro il cottimo, le lotte contro i licenziamenti politici e le rappresaglie padronali, per il miglioramento delle condizioni salariali e di sicurezza sul lavoro, per l’adozione e l’effettiva applicazione dello Statuto dei lavoratori, hanno come caratteristica comune il parlare al quartiere e si inseriscono in un discorso più ampio sulla democrazia, i diritti e la partecipazione all’interno di questo territorio. (Piano b 2008) L’esperienza della Casaralta è stata tragica, è stata enorme, ai tempi di allora. La Leonardi - la fabbrica (n.d.a.) -, uguale, perché han ciape’ tant’ di chel bastune… dalla celere, spaventosamente. […] Prima ancora della Ducati, la Casaralta fu la prima azienda a Bologna che prese, fece i licenziamenti. […] Alla Minganti nel ‘54 licenziarono 170 operai e impiegati, fra i quali c’erano tutti i dirigenti sindacali e politici e della commissione interna […]. Avevamo poi la solidarietà della… della Fornaciai. La Cooperativa Fornaciai ci portò un pasto al giorno per non so, 30-40 giorni, adesso non ricordo. Primo, secondo, frutta, vino, tutto quanto, eh? E noi eravamo lì davanti alla - fabbrica (n.d.a.) - Doppieri […]. Avevamo messo lì la sezione, un tavolo così e delle sedie, e il picchetto che era 20-25 persone, poca roba. (Mario Cornetto, ex operaio; Piano b 2008) Anche nel ricordo dell’attuale Presidente del Quartiere Claudio Mazzanti, nato e vissuto in uno dei caseggiati destinati ai “pionieri” del neonato territorio industriale, le figure operaie sono alla base di un ambiente sociale fortemente coeso e saldo: In ogni caseggiato solitamente c’erano due personaggi carismatici, uno di formazione marxista che poteva essere il capo operaio o il segretario della circolo locale del Pci, l’altro cattolico, il parroco o qualcosa del genere […]. Nel mio caseggiato vivevano 112 famiglie, due di queste erano ladri di professione. La situazione era simile in tutti gli stabili, dentro c’era di tutto: operai, artigiani, ferrovieri, ma anche ladri e prostitute. I conflitti non mancavano, eppure nessuno aveva mai bisogno di chiamare i carabinieri perché i conflitti venivano risolti all’interno. (Claudio Mazzanti) Fabbrica e quartiere non sono mai state entità separate, in questo senso, perché sul terreno dei diritti del lavoro si sono conquistati, dal Dopoguerra agli anni Ottanta, trasformazioni reali nell’organizzazione della vita quotidiana. Me ne viene in mente uno - vecchio operaio (n.d.a.)- che mi ha insegnato ad amare la fabbrica nella sua comunità, una entità che trasforma te stesso e ti insegna a vivere con gli altri, che non è facile perché devi stare al fianco con una serie di persone con cui hai diversità di idee e con cui devi 25 convivere. Ti insegna che con l’impegno e con l’unità la vita è dura ma può anche migliorare. (Lia Amato; Piano b 2008) La porosità fra i due ambiti, fabbrica e quartiere, è anche espressione del rifiuto di una identità sociale che riduce l’operaio a forza lavoro nelle sue ore di attività senza considerarne la sua esistenza ricca di legami familiari, affettivi, bisogni culturali, passioni, all’interno del territorio di residenza. (Piano b 2008) Se io ripenso al lavoro che facevo non è che fosse un lavoro granché esaltante però era uno strumento per il mio miglioramento. Certo con fatica con impegno, facendo delle lotte. Però tante volte le vincevamo le lotte. Quindi la nostra vita migliorava, migliorava nelle fabbriche ma anche fuori. Migliorava la vita dei nostri figli. Tanti figli sono andati all’università, per esempio. Allora andare all’università significava migliorare le prospettive della propria vita. Lottavi per il miglioramento del contratto, lottavi per il salario accessorio per avere servizi sociali, anche la Cooperativa - supermercato Coop (n.d.a.) - di fianco alla Manifattura voleva dire pagare di meno la spesa, mandare i figli a scuola e non pagare il nido… Nella tua vita tu vedevi un miglioramento, una crescita […]. Vedevi anche la vita interna alla fabbrica migliorare: la mensa, il nido. Per esempio una delle discussioni più grandi che abbiamo avuto noi donne è stata l’avere il nido di quartiere […]. C’era la voglia di partecipare soprattutto perché c’era la speranza che la vita, in fabbrica ma anche fuori, potesse migliorare. (Lia Amato; Piano b 2008) Poi dopo mi ha messo nella squadra di lavoro in cui ero affidato, in una cerchia più ristretta dove iniziai a socializzare in modo più stretto sia per motivi professionali ma la cosa positiva è che anche le questioni personali, familiari, erano molto raccontate, confidate. Era una situazione diversa dal posto di lavoro in cui uno fa le otto ore e poi si chiude in sé stesso […]. Anche se molti abitavano fuori dal quartiere, eravamo coinvolti nel tessuto sociale produttivo del quartiere. Il fornaio preparava i panini per i lavoratori Casaralta, lo stesso il lattaio ed il fruttivendolo. Molti ordinavano la spesa la mattina e la passavano a ritirare all’uscita della fabbrica. I meccanici gli lasciavi la macchina la mattina con le chiavi nella cassetta della posta e la andavi a riprendere la sera. Se c’erano dei problemi ti chiamava in fabbrica… c’era un coinvolgimento totale. La stessa cosa succedeva quando facevamo gli scioperi. Noi uscivamo dai cancelli e molti cittadini si accodavano, gli anziani, i pensionati che avevano ore libere, aspettavano che uscissimo noi per accodarsi al nostro corteo. Alcuni di loro erano stati a loro volta dipendenti Casaralta o c’erano le mogli dei dipendenti. C’era questo modo di fare gruppo, comunità nel quartiere. (Stefano Scaramazza, operaio Casaralta 19802003, delegato sindacale Fiom dal 1984; Piano b 2008) La fabbrica ha infatti rappresentato, per molti operai che abbiamo conosciuto durante l’inchiesta e che abitano tutt’oggi in Bolognina, un punto d’arrivo, il sogno tangibile dello sviluppo. Per molti l’ingresso 26 in fabbrica ha voluto significato un progresso nelle condizioni di vita. Su questo spesso ha pesato la provenienza contadina di una buona parte degli operai: molti sono stati i pendolari infatti che sono venuti dal Ferrarese, un’area tipicamente agricola dove non era sviluppata alcuna industria. Gli operai venivano da tutte le parti: da Ferrara da Portomaggiore da Castel Bolognese, era una fabbrica che pendolari ce n’erano un bel po’. C’era almeno il 40% di pendolari. (Pino Barillari, ex operaio; Piano b 2008) Dopo la chiusura della fabbrica Casaralta, che si è aggiunta a quella di altre fabbriche presenti nel territorio come abbiamo visto, tutta quest’area urbana all’interno del quartiere Navile ha assunto man mano le sembianze di un cantiere a cielo aperto. Alla Casaralta, per esempio, dopo la chiusura nel 1998, circa dieci uomini magrebini ha trovato un tetto; non lontano, in via Donato Creti, sempre in Bolognina, un’altra fabbrica ha smesso di produrre da molti anni ed ora ospita un gruppo di cittadini rumeni che hanno dovuto lasciare i loro posti ai cittadini marocchini che ora sono alla Casaralta. Decine di migliaia di metri quadrati del territorio urbano bolognese sono così occupati da lastre di cemento, capannoni fatti di vetri rotti e muri diroccati. Il Navile è pieno di questi spazi enormi che si ergono come cattedrali sconsacrate abitate da erbacce, topi e da gruppi di immigrati senza fissa dimora: aree che disegnano il volto di questa prima periferia della città, fino a qualche anno fa luogo di lavoro e produzione, teatro di dure lotte operaie31 e di una particolare socialità di fabbrica, oggi spazi dell’esclusione sociale, in attesa di diventare territori appetibili per specifici processi di speculazione edilizia. (Tancredi 2005) Tra gli abitanti del Navile ancora oggi possono contarsi molti ex operai residenti che in queste fabbriche hanno lavorato per trent’anni. Il giornalista Leonardo Tancredi, realizzando un reportage su questo territorio nel 2005, ne ha intervistati più di uno in quei pochi luoghi di aggregazione che loro sono rimasti nel quartiere, come il circolo di Rifondazione Comunista la domenica mattina. L’alternativa, nei giorni feriali, è il bar del centro commerciale Lame. Ma prima del tempo dei grandi outlet c’erano i Cral aziendali e i luoghi deputati alla socialità di fabbrica, come racconta uno di questi ex operai al giornalista: Alcune fabbriche erano grandi come paesi. C’era un dibattito all’interno della fabbrica, nasceva la solidarietà. Oggi i luoghi di lavoro sono cose diverse, manca la cultura e poi il lavoro interinale isola, lavori tre mesi e te ne vai, sei sotto ricatto costante. Nei Cral c’erano campi di calcio e biblioteche, si socializzava. I Cral sostenevano col sei per mille trattenuto in busta paga; quello della Sasib era 31 Il Direttore del mensile «Piazza Grande» ha realizzato un reportage sulle trasformazioni del quartiere Navile intervistando molti operai. (Tancredi 2005) 27 completamente autogestito, non c’era neanche un rappresentante dell’azienda in amministrazione. (Tancredi 2005) Prima ancora dei circoli aziendali, la socialità di quartiere si realizzava nelle case del popolo. L’Arci di Bologna ha prodotto un’interessante ricostruzione storica della Casa del Popolo Corazza, nel quartiere San Donato. Così un altro ex operaio intervistato dal giornalista: Gli operai, i muratori, i contadini che, nel Dopoguerra, offrirono il loro lavoro volontario per costruire e poi gestire la Casa del Popolo, si sentivano protagonisti di quell’esperienza, che avrebbe prodotto formazione politica e culturale, ma anche tante occasioni di socialità conviviale - si passava dalle rassegne di film sovietici alle gare di ballo. (Tancredi 2005) Il caso del Navile, questo emerge anche dalle interviste raccolte dal Direttore di «Piazza Grande», è rappresentativo di una città che da piccolo paese sta diventando un hinterland ricco di diverse aree sempre più isolate, a seguito anche della crisi di un modello di produzione, del declino dell’apparato produttivo locale causato da una congiuntura generale negativa che dura ormai da diversi anni. La novità è che l’Emilia Romagna non è più in controtendenza ma si allinea con la congiuntura nazionale - dice Danilo Gruppi della Cgil bolognese intervistato da me e un giornalista all’interno di un reportage condotto sulla Casaralta nel maggio 2006; le piccole imprese non sono più il cavallo vincente, vista l’incapacità di competere nel mercato globale. Manca la massa critica per reggere la competizione su formazione, ricerca e innovazione di prodotto: si possono coprire tutti i differenziali di costo ma la capitalizzazione resta nulla. (Scandurra, Tancredi 2006) Questo processo si ripercuote oggi su tutti i segmenti del mercato del lavoro: quello più basso - pulizie, facchinaggio, ecc.; medio - Bologna ha sempre avuto un’ottima scuola tecnica, le Aldini, ma ora si assiste a una crisi di vocazione circa l’ossatura dell’industria metalmeccanica cittadina; alto - l’università non trattiene più i saperi d’eccellenza per la ricerca. (Piano b 2008) Inoltre, i padroni bolognesi sono sempre stati molto pragmatici - continua Gruppi - e una volta realizzato che il mondo si faceva più complesso hanno preferito fare gli “ereditieri”. Meglio costruire case: così è già successo per la Minganti e le officine Rizzoli. (Scandurra, Tancredi 2006) Con la crisi del sistema produttivo, nel Navile, non si sono persi solo posti di lavoro, ma è in via d’estinzione anche un modello di relazioni legato al territorio. La vita di fabbrica, dentro e fuori l’orario di lavoro, non ha trovato fino ad oggi validi sostituti. Le relazioni sociali, un tempo plasmate 28 fortemente dai rapporti con le fabbriche, sono implose. Si sono creati tanti mondi chiusi in sé: gli ex operai, i nuovi arrivati, gli studenti fuorisede, i cittadini italiani che usano il quartiere unicamente come dormitorio nel momento di passaggio dalla produzione metalmeccanica al terziario. Così due ex operai della Casaralta, abitanti del quartiere, intervistati durante l’inchiesta sociale realizzata da Piano b: Quella officina lì è diventata il degrado del quartiere. Adesso la dentro c’è di tutto, ci saranno delle tope, delle bisce, a parte che è diventata un covo di spacciatori che vanno dentro da via Casoni strada che costeggia la Casaralta - che hanno tirato via la grata. La polizia non può andare dentro perché è proprietà privata e loro quando va via la polizia se ne vengono fuori… la gente reclama, mi chiama spesso e volentieri però non c’è niente da fare… non è che io ce l’abbia con gli extracomunitari perché lì dentro - nella Casaralta quando era in attività (n.d.a.) - degli extracomunitari ne ho avuti ed erano bravissima gente, però quelli che ci dormono adesso sono solo delinquenti… la persona che ha voglia di lavorare lavora […]. Io di quelli che lavoravano con me ne incontro ancora, mi fermo a parlare, mi salutano perché è gente che ha rispettato me e tutti gli altri e noi rispettavamo loro. Dicevano: “Noi vogliamo essere come voi, pagare le tasse e essere in regola”. Quelli che ci sono adesso no. (Pino Barillari; Piano b 2008) Ce lo dicevamo sei anni fa quando eravamo in occupazione: questi arriveranno a far si che siano i cittadini a chiedere di buttarla giù. E infatti gli stessi abitanti del quartiere che, quando c’eravamo noi, guai a toccare la Casaralta! Adesso visto che non c’è più niente, ci sono solo dei traffici, chiedano loro di demolirla. (Stefano Scaramazza; Piano b 2008)) Il quartiere è oggi descritto in termini desolanti dagli stessi operai che, quando intervistati sulla loro esperienza operaia mentre conducevamo l’inchiesta, facevano l’apologia di quel periodo storico ricco di lotte e di vittorie sindacali: A me piacerebbe andare quando c’è il Consiglio Comunale e denunciare questo schifo qui. Non si può tollerare una cosa di quel genere lì. È una indecenza. Io mi meraviglio che molti cittadini non si siano ancora ribellati. Io l’ho detto tante volte facciamo una petizione andiamo quando c’è il Consiglio Comunale… se non vogliono intervenire facciamo del casino, solo così possiamo ottenere qualche cosa […]. Devono demolire la fabbrica per sloggiare tutta quella ciurmaglia che sta lì dentro, perché chi ha figli piccoli ha paura anche a mandarli fuori. Finché il Comune non dà il via a demolire quei capannoni, che sono pieni di animali e topi che portano pure le malattie. Ci sono italiani e stranieri che spacciano. (Pio Barillari; Piano b 2008) Vedi che è totalmente cambiato il tessuto sociale. Queste fabbriche non ci sono più, i negozi non ci sono più. Sono tutti cinesi, supermercati di cinesi, pizzeria pakistana e di industria non c’è più 29 niente…fa venire i brividi […]. Un quartiere che storicamente aveva avuto, dai tempi della Resistenza, il suo nocciolo nelle cellule dentro le fabbriche….non ci sono più fabbriche […]. Sono stato alla Minganti e mi è venuto il magone. Vedere le macchine che faceva la Minganti in un centro commerciale dentro a delle vetrine un po’ disturba. (Stefano Scaramazza; Piano b 2008) Mi viene in mente anche un po’, non voglio parlare di controllo sociale, ma comunque… questa vecchia e dura e ruvida classe operaia di una volta, una certa forma di… usiamo un termine orribile, di controllo del territorio, evidentemente lo esercitava, il fatto di… di avere della gente… perché i primi turnisti alla Casaralta entravano alle cinque del mattino, alle quattro e mezza del mattino, perché dovevano accendere un po’ tutti gli impianti eccetera, così come la sera fino a verso le otto, le nove, le dieci c’era gente, insomma c’era quasi sempre gente lì d’attorno, e non solo a Casaralta, alla Manifattura, al deposito dell’Atc, insomma… c’era sempre un po’ di traffico, magari in maniera involontaria, questo sarebbe forse un tema da approfondire con chi abita lì o con chi ha un po’ più di anni di me, ma evidentemente una sorta di polizia in tuta blu, sai… o anche solo come effetto deterrente, quando sai che c’è della gente… in giro, no? I traffici loschi è già più difficile che si creino. Ma in questo caso, qui voglio essere io malizioso, questo fa gioco ai nostri “amici” costruttori, perché così possono dire: “Ah! Il degrado! Ah, una situazione intollerabile!”, perché… a loro gli fa gioco, no? Perché serve ad accelerare tutta la faccenda, no? (Cesare Poggioni, ex operaio della Casaralta) Mentre le fabbriche chiudevano, alla fine degli anni Ottanta, arrivavano sempre più consistenti flussi migratori e La Bolognina si arricchiva di nuovi cittadini, per lo più cinesi nella parte est del Navile, l’area di Casaralta, e marocchini nella parte ovest, a ridosso sempre del centro del territorio, Piazza dell’Unità - dei cittadini marocchini che prenderanno casa nella parte ovest del quartiere ci occuperemo più specificatamente nel prossimo paragrafo parlando della palestra di pugilato sita a ridosso della piazza centrale del quartiere. (Antonelli, Scandurra 2009) In verità, i cittadini cinesi risiedono in questo territorio da prima della Seconda Guerra: è possibile distinguere, infatti, tre principali ondate migratorie. I primi cinesi immigrati a Bologna si stabilirono nelle vie del centro città - via Polese, via San Carlo, via Marconi - occupandosi prevalentemente di piccole attività produttive di tessitura, pelletteria e ristorazione. Il sogno dei migranti di quell’epoca, un po’ come lo era per gli italiani che emigravano in America, era di trovare nel paese d’accoglienza una stabilità a lungo termine, di arricchirsi, di fare di quel viaggio un investimento per la vita, di costruire una strada di successo economico e riscatto sociale. Conducendo l’inchiesta sociale, per esempio, e occupandoci degli immigrati che abitano oggi la Bolognina (piano b 2008), abbiamo ricostruito la storia di Umberto Sun, cavaliere e commendatore, padre di dieci figli oggi sparsi per il mondo; nel lontano 1958 Sun fondò la Sungas, un’azienda per l’approvvigionamento del gas nelle abitazioni, divenuta famosa in tutta la città (Piano b 2008). Secondo il responsabile della Cna - Confederazione Nazionale 30 Artigianato - del quartiere Navile, Valeriano Valdisserra, che abbiamo intervistato alla fine del 2006, la rispettabilità guadagnata da imprenditori cinesi come Sun è servita ad una migliore integrazione dei cinesi in città: È comunque una comunità ben inserita perché storicamente le prime famiglie hanno fatto cose importanti tipo la Sungas, del famoso Sun che oramai ci ha lasciato. I cinesi hanno fatto cose utili per i cittadini e quindi i bolognesi non hanno percepito “l’invasione” come magari è successo a Modena o Carpi, dove da un giorno all’altro erano tutti cinesi. Forse perché qui a Bologna c’era un’economia meno adatta alla conquista cinese, non so… (Valeriano Valdisserra, responsabile Cna quartiere Navile; Piano b 2008) Tra i cittadini cinesi immigrati a Bologna nel secondo Dopoguerra si contano oggi diverse famiglie di “terza generazione”: dopo i nonni, negli anni ‘80 si sono trasferiti i figli e le mogli ed oggi i nipoti sono giovani ragazzi e ragazze nati in Italia, cresciuti tra storia e tradizione del Paese dei genitori e cultura italiana. Durante il nostro studio ne abbiamo intervistai alcuni (Piano b 2008): Io sono nato a Brescia e a cinque anni, con la mia famiglia, mi sono trasferito dai nonni a Bologna. Le scuole le ho fatte qui, dalle elementari, alle famose Casaralta, al liceo Scientifico Copernico. In classe da noi quand’ero piccolo c’erano altri tre cinesi. Eravamo una minoranza. Alle elementari eravamo quasi una simpatica presenza. (Valentino, 17 anni, cinese; Piano b 2008) La seconda migrazione massiccia avvenne a partire dal 1985, immediatamente dopo la caduta del regime di Mao. Storicamente i cinesi immigrati in Italia e, più in generale in Europa, provengono dalla regione del Zhejiang. Grande un terzo d’Italia, quest’area è situata a sud di Shanghai e con i suoi 10.000 km affacciati sul Mare di Cina dell’Est è, da secoli, un porto molto attivo verso l’Occidente così come verso l’Estremo Oriente. Gli abitanti di questa regione, all’epoca di Mao additati dai connazionali come potenziali capitalisti, emigrarono per primi grazie alle piccole fortune salvate al governo, spinti dal sogno del successo fulmineo che in poco tempo li avrebbe fatti tornare in patria ricchi. La terza e più recente fase migratoria, è stata favorita dal susseguirsi delle sanatorie a partire dal 1995; ma è dal 2000 che inizia una grande immigrazione. Infatti, oltre la metà dei residenti in Bolognina - 53% - è arrivata in città tra il 2001 e il 2005: circa la metà di loro ha meno di 30 anni. Quando nel 2000 ho iniziato le medie incominciava ad arrivare il vero flusso che c’è adesso. Vedevi questi ragazzi di 12, 13, 14 anni arrivare a scuola sapendo poco o niente di italiano, con una grande difficoltà ad integrarsi. Molti di loro che ancora conosco hanno smesso di studiare perché ritengono, non dico inutile ma non indispensabile studiare. E questo avviene perché i cinesi culturalmente sono 31 incentrati sul lavoro... prima si incomincia a lavorare, prima e di più si potrà guadagnare. Meno tempo si spreca meglio è. Questo per dire la differenza di mentalità. Notavo la differenza tra me e loro perché io, abitando qui, ho la cultura cinese ereditata dai miei genitori e la cultura italiana. Quindi mi sentivo leggermente a disagio, un ibrido, sentivo questa differenza sia con gli italiani che con i cinesi e interpretavo la diversità come emarginazione, perché non ero conforme agli altri: né ai modelli italiani né a quelli cinesi. Solo in questi anni sto capendo come la mia personalità sia più “unica” che “diversa”… e per fortuna apprezzo la mia individualità. (Valentino, Piano b 2008) La regione del Zhejiang è la più ricca della Cina dopo Pechino, Shangai e Tianjin e la maggior parte dei suoi abitanti, pur provenendo da un passato difficile di povertà, ha conosciuto un grande sviluppo economico (Piano b 2008). Non a caso questi immigrati hanno deciso di radicarsi in questo territorio e proprio nell’area di Casaralta e all’interno cittadini delle grandi arterie che delimitano la Bolognina - via Matteotti, via di Corticella e via Ferrarese - ricche oggi di attività commerciali di loro proprietà, proprio mentre le fabbriche iniziavano a essere dismesse e il quartiere era oggetto di una riqualificazione commerciale e teatro del passaggio da un’industria meccanica al terziario - per questo la prima generazione di immigrati si è man mano spostata dal centro storico alle prima periferia nord. (Piano b 2008). La chiusura delle fabbriche a fine anni Ottanta ha fatto gioco, in effetti, ai progetti di questi gruppi di immigrati i quali erano sempre alla ricerca di spazi per i loro laboratori tessili e l’apertura di nuove attività commerciali - favorendo, così, i vecchi proprietari, per lo più residenti storici, che vendevano le loro attività con un saldo immediato di denaro contante. Il cinese trova dove ci sono negozi vuoti, poi cerca intorno là… sai perché - per aprire (n.d.a.) negozi e supermercati cinesi è sempre meglio - che siano (n.d.a.) - vicini perché c’è gente che viene da fuori così i negozi tutti vicini sono più comodi. In questa situazione i gestori italiani hanno cominciato a cedere - in via Ferrarese (n.d.a.) -… poi forse iniziano ad esserci tanti negozi cinesi così gli italiani preferiscono andare in un altro posto. E poi a cedere a cinesi c’è vantaggio, perché se un negozio italiano cede a un altro italiano forse disponibili 10.000 euro… e basta, invece ai cinesi puoi chiedere 20.000, 30.000, 40.000 euro. Il cinese paga lo stesso, per lui l’importante è un posto buono. Poi i cinesi pagano in contanti, forse in una settimana è tutto pagato, mentre con gli italiani fai le rate e magari ti pagano in due tre anni. (Andrea Liu, Presidente dell’Associazione cinese di Taiwan di Bologna, Piano b 2008) Per molti commercianti italiani la possibilità di cui parla Andrea Liu significò, in un momento di difficoltà, un’occasione davvero unica; inoltre, molti residenti storici, non riconoscendosi più nel loro territorio una volta chiuse le fabbriche e arrivati molti immigrati asiatici e nordafricani, proprio in questi anni, iniziarono a spostarsi più a nord, a Corticella. Per gli imprenditori cinesi, invece, ciò era solo il primo passo verso la realizzazione del loro progetto migratorio. Il risultato è stato che, in poco meno di 32 dieci anni, la comunità cinese si è insediata massicciamente in un quartiere che andava svuotandosi. Ciò è avvenuto sia per ragioni storiche proprie del territorio - la chiusura delle fabbriche appunto -, sia perché la vendita delle prime attività ha creato una reazione a catena che in breve ha prodotto una vera e propria dismissione commerciale del quartiere. (Piano b 2008) Culturalmente sono imprenditori, tendono a lavorare in proprio, basta guardare anche tutto il sistema del piccolo commercio. Su 1.200 clienti al Cna Navile abbiamo in tutto 120 imprenditori cinesi che occupano circa 250 dipendenti connazionali. Il 50% di loro si occupa di import-export. Questo perché hanno capito che a un cinese non conviene produrre più qui, è molto meglio far venire le merci dalla Cina. Gli imprenditori cinesi viaggiano molto in Cina e portano prodotti italiani che là sono di moda: il modello italiano “tira” molto. In genere esportano dall’Italia alcuni tipi di merce e ne importano altra. C’è anche chi mi chiedeva notizie sull’area della Casaralta per farne un ipermercato cinese dove vendere prodotti importati. Sono molto autonomi, hanno una loro finanziaria, hanno consulenti cinesi […]. Poi c’è una parte più povera che è quella che si vede vicino alla Casaralta, gente che ancora deve pagare il riscatto del viaggio. Negli ultimi anni hanno rilevato anche gelaterie, gioiellerie, ristoranti. Le bancarelle dei mercati per esempio: il 90% sono ambulanti cinesi, hanno acquistato licenze a prezzi molto alti […]. infine c’è chi si dedica al grosso business in grande ma questa è un’altra storia. (Valeriano Valdisserra; Piano b 2008) In questa direzione, durante l’anno di inchiesta, abbiamo intervistato molti commercianti italiani che hanno visto con i loro occhi la trasformazione commerciale del loro territorio. Qualche anno fa, se uscivi la sera nel quartiere, li vedevi lavorare nei garage, sino alle due, tre di notte. Lavoravano sempre, vedevi le luci accese e sentivi il rumore delle macchine. Adesso se ci fai caso non c’è più nessuno […]. Hanno capito che gli conviene portare le merci già pronte dalla Cina. Poi ci sono anche altre storie, per esempio conosco il proprietario di un negozio italiano che vende borse di pelle, cinture. Lui compra le materie prime e poi le fa lavorare ai cinesi. Hanno un laboratorio di confezione con cui lui lavora in maniera stabile e funziona perché i prezzi sono contenuti. (Leo, barista in un circolo Arci nei pressi di via Ferrarese; Piano b 2008) Negli ultimi dieci anni, inoltre, per quanto riguarda molti imprenditori cinesi, lo stesso modello di produzione è radicalmente cambiato. Intervistando alcuni di loro (Piano b 2008), abbiamo avuto modo di notare come l’import-export sta diventando la nuova frontiera, il nuovo traguardo dell’imprenditore brillante e vincente, uomo di mondo che viaggia mantenendo contatti nei due paesi, sfruttando il lavoro dei propri connazionali che ancora vivono nella terra d’origine e arricchendosi, nel paese di approdo, capitalizzando al meglio le strategie di mercato neoliberista. Ciò ha prodotto all’interno del territorio una trasformazione non solo econonomica, ma anche sociale e fisico-urbanistica: gli spazi del quartiere 33 impegnati dai laboratori in questi anni diventano capannoni di vendita all’ingrosso e spesso al dettaglio. (Piano b 2008) La generazione di mio padre è incentrata solo sui soldi. Non c’è una necessità di affettività. Basta avere una famiglia e sei già contento. Non ci sono posti di incontro dove si riuniscono, solo per i matrimoni o il capodanno. Non hanno legami di amicizia profonda. Gli amici vengono con i soldi. Cioè la stima dei colleghi, dei conoscenti arriva grazie al potere economico. Loro si sono sacrificati per noi, da dove non c’era niente in Cina, si sono presi questa avventura e per fortuna hanno avuto il loro piccolo successo. Hanno una casa, la macchina, un’attività, si sentono realizzati… è uno status symbol… per me ci sono tante cose nella vita più importanti, per fortuna. (Valentino; Piano b 2008) Dalle parole di questi ragazzi nati in Italia come Valentino, emerge, per quanto riguarda i loro genitori e nonni imprenditori, una visione del lavoro come realizzazione individuale. Probabilmente, la collettivizzazione delle proprietà e delle risorse imposta durante la Rivoluzione culturale ha portato, per molti imprenditori dello Zheijiang, una naturale diffidenza verso qualsiasi processo cooperativo. Il piccolo imprenditore emigrato in Bolognina, nel perseguire il proprio progetto, è pronto a tutto pur di salvare l’investimento fatto - almeno intorno ai 45.000 euro per un piccolo laboratorio famigliare di 6-8 persone - ed è capace di accettare commissioni a volte addirittura svantaggiose alimentando una pericolosa concorrenza al ribasso sfavorendo gli stessi colleghi connazionali (Piano b 2008). Questo alla luce di una “solidarietà” imprenditoriale che deve essere letta diversamente da come fanno molti imprenditori italiani e che risponde a pratiche culturali differenti. La tradizione cinese è molto realistica: chi ha soldi gestisce affari, chi non ha soldi chiede prestiti ad amici; la comunità cinese aiuta. Se uno vuole iniziare una sua attività, un lavoro, i suoi vicini e parenti fanno raccolta, prestano soldi. I cinesi fanno debito: chiedi un prestito di 30.000 mila euro, fissi un giorno e quel giorno risarcisci. Questo fa pare della cultura di solidarietà cinese, per questo si può dire che i cinesi sono abbastanza uniti. (Andrea Liu; Piano b 2008) Ovviamente in Bolognina non abitano solo imprenditori cinesi. Molti cittadini asiatici, infatti, raggiungono in questo territorio i loro connazionali non coltivando nessun progetto imprenditoriale ma solo nella consapevolezza che qui riusciranno facilmente a trovare lavoro, come ci confidò Valentino durante l’inchiesta: I nuovi cinesi che stanno arrivando sono per lo più di passaggio perché sono molto flessibili dal punto di vista del lavoro, come sono arrivati in Italia possono andare all’estero […]. È molto difficile per loro; devi pensare che molti cinesi hanno un permesso di soggiorno per 6 o 12 mesi, quindi è 34 meglio stare buoni e continuare a lavorare… anche nell’illegalità. Purtroppo la legge vigente non facilita le cose. Il contesto non è favorevole e la gente adotta questi comportamenti isolandosi. (Valentino; Piano b 2008) Parole che trovano conferma in quelle Presidente dell’Associazione cinese di Taiwan di Bologna: Il mestiere si impara, dipende dal mercato cosa chiede. In Italia l’artigiano è importante, per un cinese che arriva è impossibile aprire industria. Si comincia come operaio, lavora nella ditta di un altro cinese, va a imparare a lavorare. Sono passaggi graduali. Si può fare il lavapiatti, il lava verdura, l’aiuto cuoco, dopo un anno che vedi come cucinano i cuochi sai lavorare. Anche un lavoro piccolo è importante. Non c’è disoccupazione, c’è tanti cinesi. (Andrea Liu; Piano b 2008) La denuncia di isolamento e disinteresse ai problemi del territorio che molti residenti storici della Bolognina fanno ai cittadini cinesi è comprendibile alla luce delle pratiche lavorative di molti immigrati soprattutto di seconda generazione. Significativa, in questo senso, è la testimonianza che raccogliemmo durante l’inchiesta del padre di Valentino, immigrato negli anni ‘80 per seguire le orme del padre che da trent’anni lavorava a Bologna, prima in un laboratorio di confezioni e poi in un ristorante di via Ferrarese, ancora oggi di proprietà della famiglia (Piano b 2008): Sto qui, lavoro nella mia attività e basta. Qui in città ci sono pochi cinesi, adesso abitano fuori Bologna. Io vado a casa a mezzanotte poi la mattina vengo qua. Per me lì è come un albergo. Dormi, la mattina ti svegli, vieni qui a lavorare e basta. (Proprietario del ristorante cinese in Via Ferrarese; Piano b 2008) L’ansia di realizzare un sogno di successo in breve tempo, accompagnata dalla necessità di estinguere il debito con il proprio datore di lavoro, impose dedizione e perseveranza a molti immigrati di seconda generazione cinese che intervistammo durante l’inchiesta (Piano b 2008); la qual cosa giustifica il sacrificio della dimensione del privato e del personale. Da questo punto di vista fu evidente per noi, conducendo l’inchiesta, la differenza tra le prime generazioni di immigrati e l’ultima, quella di Valentino (Piano b 2008). Se, in effetti, i cittadini cinesi arrivati a Bologna continuano ad essere percepiti dai residenti storici come i prototipi dei cinese che non parla bene l’italiano, dedito solo al lavoro, e che cerca di cavarsela il meglio possibile rifugiandosi nel proprio gruppo, i ragazzi come Valentino sanno che sono oggetto di rappresentazioni più ambigue, che li vedono alle volte come cittadini bolognesi, altre come figli di immigrati e basta. 35 Non c’è un vero proprio incontro tra i due mondi. La comunità cinese è un mondo a sé. Le amicizie i contatti di lavoro sono sempre gli stessi, per gli italiani come per i cinesi. Non è tanto un’integrazione quanto una convivenza forzata… credo. Incontro spesso cinesi che non parlano per niente l’italiano e questo è un segno di non necessità appunto. Non ritengono necessario conoscere la lingua perché vivere in Italia è una tappa temporanea, la vivono più come un passaggio: tutto qua. D’altra parte anche gli amici a volte lo dicono per scherzare: “I cinesi sono il male minore” perché sono quelli che lavorano, che non fanno storie e che si fanno gli affari loro. Ti fa capire che neanche nella loro mentalità è necessaria questa integrazione. Gli immigrati sono visti come forza lavorativa, non tanto come individui. Gli italiani si sentono oppressi dai cinesi che vivono qua. (Valentino; Piano b 2008) Valentino, del resto, sa benissimo come sono proprio gli operai di allora, oggi in pensione, a produrre delle rappresentazioni xenofobe che hanno per oggetto i cittadini cinesi del territorio. Gli stessi operai molti dei quali immigrati come abbiamo detto - che hanno lottato per conquistare diritti riconosciuti come fondamentali oggi denunciano con il loro quartiere sia divenuto irriconoscibile ai loro occhi, altro da quello che hanno costruito nel tempo. Deprimente. Ti intristisce proprio, perché, mi ricordo, la vita proprio era bella, perché lì dove c’è, davanti c’era il forno, l’alimentari, altri alimentari di qua, dove c’era il barbiere di fianco c’era un negozio dove ci sono i cinesi, c’era Renato si chiamava, e poi era tutta un’amicizia, tutto un buongiorno, tutto, adesso viene la sera è squallido, è brutto, tutte le cose, i topi che camminano per la strada, tu vieni la sera, delle tope così, gente che lascia la roba fuori, qualcuno ormai passa da lì, vede talmente sporco che dalla macchina prende il sacchetto del rusco, lo appoggia lì dove c’è la campana del vetro, mentre il rusco è dall’altra parte della strada. E siamo a dei livelli che adesso io volevo fare un comitato di cittadini per dire: “Oh, ma qui bisogna che ci muoviamo anche perché, quelli che sono qui, che sono extracomunitari, o sono cosa, le regole vanno rispettate per tutti!”; loro il rusco lo devono buttare nel bidone, non per terra, oppure i cinesi, a parte che si soffiano ancora il naso così fuori dalla finestra, che quando passi delle volte ho paura che mi centrino, ché una volta, una sera io prendo una coltellata va a finire, perché era lì con le figlie, ho detto; “Beh?”; ha sputato fuori così, ho detto: “Beh, non ti vergogni porca miseria!”. Lui ha fatto un po’ così, capito, poi ha fatto finta di niente e è andato via […]. E poi un’altra cosa che odio, perché vedi io non sono razzista ma lo sto diventando (Rolando Sandri, operaio Casaralta anni 1960-70, poi ferroviere, abitante del quartiere; Piano b 2008) Lo spaesamento che abbiamo raccolto facendo molte interviste ad abitanti della Bolognina, non solo ex operai, per quanto fosse riconducibile a una trasformazione del tessuto commerciale del quartiere governata dall’Amministrazione, come adesso mostreremo, spesso ha visto come responsabili, 36 nell’immaginario di molti residenti, gli immigrati che dalla fine degli anni Ottanta hanno iniziato a radicarsi in questo periferia a nord della città (Piano b 2008). Ma che stava succedendo in verità ai vecchi capannoni delle grande fabbriche? Cosa stava diventando questo territorio alla luce delle trasformazioni del centro storico sopra menzionate e della dismissione di tante fabbriche? Conducendo l’inchiesta, anche al fine di rispondere a queste domande, abbiamo concentrato l’attenzione su una ex fabbrica, la Minganti, come abbiamo visto diventata negli ultimi anni un centro commerciale. (Piano b 2008) Gli acrobati volanti - quelli delle Olimpiadi di Torino svoltesi nel 2008 (n.d.a.) - scendono dal soffitto con indosso le tute blu, mentre la musica rievoca i rumori delle macchine di un tempo […]. Gli acrobati hanno replicato lo spettacolo quattro volte perché la gente col naso all’insù è stata una folla per l‘intero arco della giornata. Così un quotidiano locale descriveva la giornata del 26 marzo 2006, giornata della “Riapertura delle Officine Minganti”, il primo, e finora unico, grande insediamento industriale dismesso della Bolognina ad aver subìto un processo di riconversione (Piano b 2008). Oggi le Officine Minganti sono un centro commerciale distribuito su tre piani che si affacciano su una piazza coperta, creando l’ambiente di una galleria commerciale. I pannelli informativi annunciano ai clienti che al piano terra, “La piazza dello shopping”, si trovano un supermercato Coop, un negozio Unieuro, boutiques, gioiellerie e, nel corridoio esterno alla piazza, alcuni negozi di dimensioni ridotte, al dettaglio: calzolaio/duplicazione chiavi, lavasecco, edicola, accessori per animali. Al primo piano, “Cibo per la mente”, si trovano invece la libreria Coop, un Apple Center e la vasta area ristorazione. Il secondo e ultimo piano, “Cura del Corpo”, è invece interamente occupato da una palestra, un Fitness Center della Virgin. (Piano b 200832) Le Officine Minganti si trovano nel quartiere Bolognina dal 1919, data in cui trasferirono qui i loro impianti produttivi da via Riva Reno, nel centro di Bologna. La fabbrica, fondata da Giuseppe Minganti, produceva macchine utensili di precisione - come torni, frese o trapani - e divenne nel secondo Dopoguerra una delle realtà produttive di punta del panorama cittadino. Quel luogo, assieme ad altri stabilimenti industriali del quartiere, rappresentò, negli anni del boom, un simbolo del progresso economico e sociale di quest’area e dell’intera città. Uno che andava alle Minganti era come se andasse all’università […]. Uno che lavorava alle Minganti era, chissà, un dio, un mago, era stato baciato dalla sorte... (Giacomino Simoni, ex operaio delle Minganti; Piano b 2008) 32 Nella fase finale dell’inchiesta sociale abbiamo svolto attività di campo e prodotto osservazioni naturalistiche dell’area del Centro Commerciale in diverse ore della giornata. (Piano b 2008) 37 Molti attuali residenti nel quartiere hanno lavorato in questa fabbrica. L’edificio venne ricostruito nel dopo il bombardamento su progetto di Francesco Santini e fu realizzato con particolare attenzione, investendo ingenti risorse economiche, tanto da farne uno dei migliori esempi nazionali di architettura industriale; in questo periodo, infatti, intervistammo gli architetti responsabili della trasformazione della fabbrica a centro commerciale. Durante la Guerra (n.d.a.) - la Minganti, oltre a fare pezzi di meccanica, fabbricava anche armi. Quindi è stata bersaglio di bombardamenti, è stata rasa al suolo dalle bombe. Dopo la Guerra è stata ricostruita con grande cura e investendo anche molti soldi, e questo l’abbiamo visto anche noi seguendo i lavori. Abbiamo recuperato dei mosaici di ceramica che rivestivano tutte le strutture in esterno. Si vede che è una fabbrica costruita con grandi investimenti […]. Le officine Minganti hanno (n.d.a.) - una forma e un decoro che sono ben al di sopra di qualsiasi altro edificio che si trova a Bologna e probabilmente in Italia […]. E’ uno degli edifici più di spicco nel panorama industriale italiano e forse anche europeo […]. C’è una cura nel dettaglio, nei volumi e nelle proporzioni che non se ne trovano…alcuni edifici dei primi del Novecento che portano avanti gli stilemi del liberty hanno dei decori, però alla fine sono capannoni decorati, questo invece ha un gioco nei volumi, nelle proporzioni […], come il mattone faccia a vista e quelle tesserine di ceramica che sono del tutto inusuali per un edificio industriale. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008) Curando la trasformazione delle Officine Minganti in centro commerciale, in effetti, questi architetti hanno puntato molto sulla vecchia identità della fabbrica fin dal progetto di ristrutturazione e riconversione dell’edificio. C’è molta insistenza sul passato, in generale, “Si stava meglio in altre epoche”…Bologna poi è molto legata al passato anche nell'architettura, la conservazione com’era, dov’era. Nel nostro progetto, dov’era possibile, abbiamo recuperato […], si volevano richiamare gli aspetti industriali, quindi pavimento in cemento e uso del tecnologico, quindi vetro e acciaio nelle vetrine, i nuovi solai in lamiera grecata, in carpenteria metallica, sempre per ricordare il passato industriale. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008) Al progetto e alla sua realizzazione - affidata a due importanti imprese edili bolognesi consorziate, Cogei e Coop Costruzioni - è poi seguita una strategia di lancio pubblicitario per buona parte giocata sulla storia dell’edificio, su quel che era stato e su quello che è diventato. Lasciando inalterato il nome, aggiungendo però una coda sulla nuova destinazione d’uso, “Officine Minganti, una fabbrica d’incanti”, la rievocazione di un simbolo della passata identità industriale della città e del quartiere venne così ridotta a richiamo per le merci e i servizi offerti all’interno delle nuove Officine. L’intero Centro Commerciale rimane tutt’oggi disseminato di tracce del passato industriale trasformate in raffinati 38 oggetti d’arredo: come i vecchi torni e le frese esposte in teche o i carri ponte ancora sospesi vicino al tetto e ben visibili dalle scale mobili. (Piano b 2008) Raccogliendo informazioni sul progetto Minganti e sulla sua pubblicizzazione (Piano b 2008), nella sezione “Chi siamo” del sito delle Officine trovammo, durante l’inchiesta, poche ma significative righe di presentazione: Apritevi al futuro con un nuovo modo di intendere lo shopping in una struttura che unisce l’innovazione con il richiamo al passato. Realizzando quest’ultima parte dell’inchiesta intervistammo, poi, i baristi, i nuovi commessi, tutte le persone che iniziarono a lavorare con contratti a tempo determinato, quando non a nero, nelle nuove attività commerciali delle Officine. (Piano b 2008) Io lavoro al centro da quando ha aperto, quindi dal 26 di marzo ad oggi. I miei lavoravano lì vicino - alla Sasib -, quindi Minganti era un nome che conoscevo…poi io sono di Bologna…poi passandoci davanti c’era questa insegna con scritto Minganti…Sì, sapevo che era un’azienda di officine meccaniche, però non sapevo bene cosa facesse […], era un nome storico di Bologna. Poi mi ci sono ritrovato dentro, fortunatamente non a fare le otto ore in fabbrica ma a far qualcos’altro. (Impiegato Unieuro, centro commerciale Minganti; Piano b 2008) Sono arrivata a Bologna per studiare all’università e, da studente, la città la giri in bicicletta, non esci mai dal centro storico […]; quindi non sapevo cosa fosse questo posto prima…l’ho imparato venendoci a lavorare. (Commessa libreria Coop, centro commerciale Minganti; Piano b 2008) Prima di iniziare a lavorare qui non conoscevo le Minganti. Prima abitavo in centro, in via Castiglione, e questa era proprio una zona che non frequentavo, perché comunque non avevo motivi per frequentarla, anche perché non c’erano punti interessanti, o centri commerciali, o particolari cose che mi attiravano (Barista al bar del primo piano; Piano b 2008) Conquistando relazioni più di fiducia con questi lavoratori abbiamo iniziato a chiedere loro che clienti si trovassero davanti ogni giorno (Piano b 2008), rilevando come quest’ultimi fossero per lo più provenienti da altri quartieri di Bologna, non residenti della Bolognina. Eppure, furono gli stessi architetti a confidarci quanto, nei nuovi progetti dell’Amministrazione, questo Centro Commerciale avrebbe dovuto essere il primo passo per conquistare tutta una nuova fetta di consumatori in un quartiere prima caratterizzato dalla sola presenza di fabbriche metalmeccaniche e ora destinato a divenire una seconda centralità per Bologna e un grande nodo del terziario dopo l’arrivo degli uffici 39 comunali nella parte est della Bolognina, l’alta velocità, la riqualificazione della Stazione Centrale, la Porta d’Europa e la nuova uscita autostradale, il collegamento navetta verso l’aeroporto e la posizione a ridosso dell’ente fieristico e del palazzo della Regione. Secondo noi è una delle zone che potenzialmente vanno maggiormente prese in considerazione per una riqualificazione futura, sia per motivi di centralità rispetto ad aree importanti di Bologna, come la stazione, come la fiera, come la vicinanza con il centro storico, sia perché è ricchissima di zone industriali dismesse […], e quindi ci sono molte aree vuote su cui intervenire. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008) Eppure, fin da subito, i clienti sono pochi e il Centro, nonostante tanto investimento pubblicitario, stenta a mettersi in moto. È una zona abbastanza nevralgica di Bologna, appunto tra la fiera e la stazione. E comunque, sebbene dovrebbe esserci un passaggio notevole, secondo me i risultati del centro nel primo anno non sono tanto soddisfacenti, perché se dopo un anno la gente ti chiede ancora dove sei […]. Io non lo so da cosa dipenda…sono stati sbagliati i negozi che sono stati fatti dentro…io non lo so, comunque noi ci stiamo riprendendo però altri, magari quando hanno aperto il negozio si aspettavano un giro di affari molto superiore. (Impiegato Unieuro; Piano b 2008) Lavori molto con gli uffici, con la gente del posto poco perché questo mi pare di aver visto che è un quartiere di anziani…è una zona un po’ di vecchie abitazioni, è un quartiere tra virgolette popolare quindi si lavora col caffettino, ma non è un posto da aperitivo, qui al pomeriggio è poco frequentato […]. Ci sono uffici dell’Unicredit fondamentalmente, della banca, quindi che rimangono dentro al Centro Commerciale, poi quando finisce l’orario di lavoro loro se ne vanno, di conseguenza da quell’orario lì, le quattro, le cinque in poi, finisce tutto…al pomeriggio è veramente angosciante ‘sto posto…(Barista del primo piano; Piano b 2008) Nonostante l’ambizione ad essere una galleria urbana, un luogo sì di consumo, ma anche di passaggio e di transito, le Minganti sembrano avere da subito un’unica significativa presenza fissa: gli impiegati dei vasti uffici bancari che hanno sede nel Centro Commerciale, cioè lavoratori di un terziario ancora poco presente in quest’area, e non i residenti del quartiere - fatta eccezione per il supermercato Coop. Ciò ci fece supporre conducendo l’inchiesta (Piano b 2008) che quest’operazione non fosse rivolta tanto al tessuto sociale esistente, quanto a quello più agiato che arriverà, in seguito al processo di gentrificazione in corso. 40 Probabilmente la destinazione della Minganti è dovuta anche a questo, perché la Fiera richiede residenze perché ci sia vita, le residenze richiedono destinazioni commerciali, è un ciclo che si innesca automaticamente. Forse il target è dovuto anche a quello, cioè non considerando solamente la Bolognina ma considerando l’area all’interno di una pianificazione più grande […]. I tempi della programmazione e della progettazione edilizia sono sempre diversi da quelli della vita reale, è intrinseco nei processi che stanno dietro a questo tipo di operazione […]. Bisogna creare delle occasioni perché poi si avviino dei processi di progettazione e intervento successivo. È un rischio ovviamente perché può darsi che quella galleria non colleghi mai niente per il resto della sua vita, ma questo è intrinseco in ogni idea di progetto. Il progetto è una previsione, le previsioni si sbagliano anche. (Architetto, studio Open Project;Piano b 2008) Quello che emergeva, parlando con gli architetti responsabili del progetto, era la volontà dei proprietari, che poi, come vedremo, coincideva con quelli della stessa amministrazione comunale, di anticipare, di accelerare il più possibile il cambiamento degli schemi della domanda: da un territorio abitato da fasce di popolazione con una scarsa disponibilità economica e attraversato da varie forme di marginalità sociale, con la costruzione del centro commerciale si aspirava a intercettare un futuro tessuto urbano più benestante, costituito da consumatori di boutiques, palestre, negozi d'informatica, gioiellerie e quant’altro. (Piano b 2008) Questa prima - dell’apertura del centro commerciale (n.d.a.) - era una zona in disuso, dove era brutto passare, che se tornavi a casa la sera rischiavi che ti aprivano la macchina o che ti rubavano le biciclette, ancora è così, però quantomeno dà un po’ più luce, più prestigio…più gente gira, più luce c’è, più caos c’è più i non amanti del caos tendono a imbucarsi. Quindi sicuramente - i residenti del quartiere (n.d.a.) - lo vedono benissimo sono molto contenti. (Barista del primo piano; Piano b 2008) Era già abbandonata da diversi anni e nell’ultimo periodo, prima del cantiere di fatto ci abitavano, come poi succede nella fabbriche qui attorno, degli extracomunitari, infatti all’inizio si incontravano personaggi strani, che proprio stavano lì abitualmente. Infatti gli abitanti del quartiere all’inizio ci dicevano: “Finalmente succede qualcosa, ci mandano via queste brutte persone”, così era quello che dicevano loro. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008) Finimmo l’inchiesta sociale intervistando amministratori del quartiere, architetti e assessori comunali che, proprio in quegli anni, da gennaio 2006 a gennaio 2007, si giocavano la loro carriera, in vista delle elezioni di giugno 2009, promettendo la trasformazione della Bolognina in un quartiere più “sicuro”, “meno degradato”, “più centrale” (Piano b 2008). Tra questi, però, cominciavano ad esserci anche 41 visioni critiche, da parte soprattutto di chi era preoccupato che l’intero processo di riqualificazione dell’area non fosse ben governato. Il centro commerciale mina il concetto stesso di città. Il centro commerciale per funzionare per essere competitivo c’è bisogno che non sia solo, ma che siano tanti, che siano tutti uguali, che siano dislocati sul territorio e che facciano un’omogeneità totale. L’ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia diceva che noi anziani dovevamo andare là per sfuggire al caldo. Ecco il centro commerciale come deposito non come stare insieme, nell’evolversi. Quale città per Bologna nel terzo millennio, se non l’omologazione? Queste fabbriche diventano centri commerciali, nel migliore dei casi, perché spesso diventano appartamenti e basta, non c’è luogo d’incontro, non c’è nemmeno commercio. Le fabbriche diventano dei mattoni da vendere a prezzo molto alto, forme d’investimento per il ceto medio, perché le banche, i bond, i Tanzi si mangiano i risparmi. (Pier Luigi Cervellati, architetto; Piano b 2008) Nel 2008 fu approvato il Piano Strutturale Comunale - P.S.C. -, documento programmatico nel quale vennero raccolti i progetti urbanistici dell’attuale Giunta, che ridisegnerà il volto della città. Il progetto, ideato da un’équipe guidata dall’architetto Patrizia Gabellini, ha toccato buona parte della città e ha previsto forti connessioni con la provincia. Il settore del P.S.C. nel quale l’ex-Casaralta e la Bolognina sono comprese è quello denominato “La città della ferrovia”. In questa area, già la precedente Amministrazione guidata dal sindaco Guazzaloca era intervenuta attraverso l’approvazione di un Piano di Valorizzazione Commerciale - P.V.C. - che aveva permesso la conversione d’uso dell’area industriale dismessa sede dell’ex Officine Minganti: da produttivo a commerciale. Nonostante tanta enfasi, basta leggere la documentazione del P.S.C., e tante parole sulla necessità di condividere con i cittadini il nuovo Piano, il primo centro commerciale della Bolognina che nacque dalle ceneri delle fabbriche dell’area di Casaralta non è mai stata discusso con i residenti e non è mai stata convocata nessuna riunione. La prima idea era quella di farci un parcheggio per le auto della polizia. In seguito, la proprietà, Coop Costruzioni e Cogei, riunite nel consorzio Felsinea, hanno deciso che quella non sarebbe stata la degna valorizzazione dell’area. C’era l’opportunità del sostegno del Comune attraverso il Piano di valorizzazione commerciale, quindi partì la costruzione del centro. Nella fase di progettazione non c’è stato nessuno scambio di opinioni tra gli abitanti del quartiere e la proprietà. Si è utilizzato il P.V.C. per cambiare la destinazione d’uso da industriale a commerciale e nient’altro. È difficile che il Comune o il Quartiere possano avere i soldi per questo tipo di opere, sono solo le grandi imprese di costruzione che hanno i mezzi per realizzare progetti simili, e loro non fanno beneficenza. È difficile che costruiscano edifici pubblici. Del resto se si costruiscono solo case si rischia di avere quartieri dormitorio, senza servizi, anche i negozi servono per vivacizzare il quartiere. Se avessimo costruito 42 un museo al posto del centro commerciale non sarebbe stata la stessa cosa. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008) Il piano urbanistico della nuova Amministrazione riguardante il comparto ancora dismesso denominato Bolognina est -, che comprende l’ex Casaralta, la Caserma Sani, i capannoni delle ex Cevolani e della ex Sasib, esprime invece queste intenzioni: Ambito urbano da riqualificare, di rilievo strategico per localizzazione e potenzialità, Bolognina est comprende un’ampia zona dal carattere disomogeneo, che si estende dalla via Stalingrado fino alla via Arcoveggio. Vi si trovano diverse aree produttive dismesse: quelle tra via Ferrarese e via Stalingrado, fino alla via Creti, tra cui le ex Officine Casaralta; quelle lungo la via Saliceto e nelle adiacenze, dove si trova anche il vasto complesso Sasib. La Caserma Sani, localizzata anch’essa in posizione chiave tra le vie Stalingrado e Ferrarese, costituisce un’opportunità fondamentale per la riqualificazione di questa parte di città. La presenza al suo interno di ampi spazi non edificati è una vera risorsa per realizzare nuovi servizi e per unire l’area della Fiera con la direttrice Ferrarese, da sempre separate e la cui connessione è per ora debolmente affidata ai piani attuativi del Prg ‘85 in corso di attuazione. La sistemazione coordinata dell’intero ambito è l’occasione per dare risposte adeguate alle criticità della periferia storica, colmando carenze strutturali di servizi e aree verdi 33. Questo grande progetto di riqualificazione d’area è dunque in mano alle amministrazioni pubbliche Comune e Quartiere -, dall’altra ai proprietari degli stabili: attori con interessi divergenti, ma con nessuna convenienza a creare un muro contro muro dannoso per tutti. Qualsiasi intervento sulle strutture private dovrà infatti comportare la creazione di infrastrutture pubbliche a supporto delle trasformazioni d’uso - residenziale, commerciale o misto - che i proprietari vorranno effettuare, pena l’insostenibilità viaria ed urbanistica dell’operazione (Piano b 2008). Queste le parole dell’assessore all’Urbanistica Virginio Merola che intervistammo durante l’inchiesta poco prima dell’approvazione del P.S.C.: Il nostro obiettivo è definire un accordo che tenga conto del Piano di valorizzazione commerciale, ma anche di un piano urbanistico d’insieme. Bisogna accantonare il progetto commerciale per una valutazione globale dell’area, perché non c’è solo la Casaralta, c’è anche la caserma militare Sani, che rientra nelle aree militari sbloccate dall’ultima legge finanziaria, e l’area della Sasib. È un’opportunità di ridisegno importante della città. Per fare questo bisogna tenere conto delle indicazioni del quartiere sul piano dei servizi, delle dotazioni di verde e della mobilità dell’area. In un laboratorio di urbanistica partecipata verranno stabiliti i dettagli. Non andremo davanti ai cittadini a dire: “Si fa così”, ma illustreremo gli obbiettivi generali dell’Amministrazione. Ovviamente si devono fare i 33 Dalla relazione illustrativa del P.S.C.. (piano B 2008) 43 conti con i privati proprietari e con gli indici di edificabilità. In fase di laboratorio non si va con i progetti, ma con il quadro d’insieme e si raccolgono le idee. Daremo delle discriminanti, non si può lasciare il campo aperto, altrimenti la discussione diventa ingestibile. (Virginio Merola, assessore all’Urbanistica Comune di Bologna; Piano b 2008) Come evince da queste parole tutto il territorio oggi abitato da molti cittadini cinesi è in via di riprogettazione. La “partecipazione” sembra essere la parola chiave del nuovo Piano di disegno urbanistico; quello che però rivelammo mancare, durante la nostra inchiesta sociale, è l’idea, da parte dell’Amministrazione, di un progetto definito. Al momento non so se quella è una zona dove chiederemo ai privati di fare edilizia sociale. È un argomento da affrontare. Bisogna vedere se sarà questo l’interesse pubblico in quella zona. Il piano strutturale prevede che, compatibilmente con gli indici di edificabilità, il 20% delle costruzioni sia destinato all’affitto. Ad oggi per me la priorità è la riqualificazione urbana di servizi, di verde, di centri di aggregazione che facciano rivivere il quartiere. Se poi una verifica ulteriore mi dice che è possibile anche prevedere edilizia sociale, sarò il primo ad ammetterlo. I paletti di edificabilità sono fondamentali. Noi arriveremo ai laboratori partecipati con una valutazione urbanistico-ambientale e di piano dei servizi, poi su come e dove realizzarli la discussione è aperta. (Virginio Merola; Piano b 2008) Secondo l’ultimo censimento, nel quartiere Navile risiedono più di 60.000 persone, poco meno di un quinto dei residenti in tutta la città. All’interno del quartiere l’area più popolosa è quella della Bolognina, che conta oltre 30.000 residenti. Più di uno su dieci dei residenti al Navile è cittadino straniero e più della metà di questi ultimi abitano alla Bolognina. Anche senza le sue fabbriche questo territorio resta un quartiere popolare per via della qualità edilizia, del tessuto commerciale e della tipologia di abitanti. Il dubbio è se questi piani di ridisegno urbano siano frutto di una reale lettura delle esigenze di questo territorio che negli ultimi anni, come abbiamo visto, è teatro di conflitti sociali derivanti per lo più da un senso di spaesamento identitario da parte dei residenti storici e da diversi usi dello spazio pubblico e privato relativi all’eterogeneità dei residenti che lo abitano, come avremo modo di dimostrare anche nel prossimo paragrafo. Se a leggere la documentazione del P.S.C. tutto sembra realizzabile, almeno sulla carta, poco chiara, come ha dimostrato il ridisegno delle officine Mingnati, è la consapevolezza che ha l’Amministrazione dei bisogni e delle aspettative degli abitanti storici e di quelli nuovi arrivati che compongono il quartiere. Oggi la città è usata, non c’è più un senso di appartenenza. Ovviamente ho vissuto male questi cambiamenti, perché questo è il quartiere in cui sono nato, ma capisco anche che bisogna governare 44 la trasformazione, altrimenti sei tagliato fuori. Non è possibile ricostruire l’identità della Bolognina, con le caratteristiche di allora, devi pensare a una società multiculturale e trovare dei punti di mediazione. Pensare diversamente, ovvero ad una città senza immigrati, è una stupidaggine. (Claudio Mazzanti; Piano b 2008) “Mix urbano” e progetto “multiculturale” fanno pensare a un forte protagonismo dei gruppi di cittadini stranieri presenti nel territorio della Bolognina; eppure quest’ultimi disertano le riunioni indette dall’Amministrazione per discutere il futuro del territorio e quando sono presenti gli è impedito di prenderne parte - durante l’inchiesta ci accorgemmo della presenza nel territorio di alcuni imprenditori cinesi che presentarono un progetto per comperare la proprietà e l’uso commerciale di attività che avrebbero aperto nel centro commerciale Minganti; questo progetto non venne preso in nessuna considerazione. (Piano b 2008) Alcuni commercianti cinesi hanno chiesto di avere un negozio all’interno delle Minganti, ma la scelta è stata di escluderli. L’idea era quella di mantenere un livello più alto, se si voleva riqualificare il quartiere. E poi con la presenza di negozi cinesi, non tutti gli altri esercenti sarebbero stati così contenti di pagare affitti tanto alti. Lo stesso succederà, secondo me, per i negozi che apriranno nel complesso dell’ex mercato ortofrutticolo, dove sorgerà la nuova sede del Comune. Ci sono anche tanti bolognesi che abitano nel quartiere, bisogna pensare anche a loro, è anche un attimo di respiro avere un centro commerciale senza cinesi. (Architetto, studio Open project; Piano b 2008) Tra i gruppi nazionali stranieri presenti alla Bolognina, quello cinese è il più significativo. Oggi l’imprenditoria asiatica è perfettamente inserita nel tessuto economico-produttivo bolognese; ciò, tuttavia, non è servito molto a superare una forte diffidenza da parte dei residenti storici. Tutto il commercio a bassa soglia è in mano ai cinesi. Il mercatino di via Albani, per esempio, esiste dal 1935, adesso sono 50 commercianti italiani e 50 stranieri, presto saranno tutti immigrati: quale italiano lavora 16 ore in negozio anche la domenica? Non ci si può meravigliare che gli abitanti di questo quartiere, ex operai di tradizione comunista, sentano forte il disagio per questa situazione. È uno shock culturale. (Claudio Mazzanti; Piano b 2008) A quanto pare la Bolognina ha già cambiato volto, prima ancora che un solo cantiere venisse aperto e che il P.S.C. venisse pensato: l’autentico tratto di modernità del quartiere, e probabilmente della città, è rappresentato dalla presenza di decine di negozi di abbigliamento cinesi e saloni di parrucchiere africani, la possibilità di mangiare più facilmente un kebab che un piatto di tortellini, i capannoni industriale in disuso che con due dragoni di gesso all’ingresso sono diventati ristoranti cinesi. (Piano b 2008) 45 Ma spostiamoci ora nella parte ovest della Bolognina, meta abitativa sempre più in questi anni di cittadini di origine nordafricana, prevalentemente marocchini, per indagare come anche questa altra fetta di territorio è stata teatro di radicali processi di trasformazione. 5. I boxeurs della Tranvieri Nel febbraio 2007, insieme alla collega antropologa Fulvia Antonelli, iniziammo una ricerca etnografica sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di pugili dilettanti della “Tranvieri”, una palestra della Bolognina a ridosso di Piazza dell’Unità. Nel condurre lo studio, ancora in corso, abbiamo utilizzato diversi strumenti legati alla pratica etnografica: abbiamo scritto diari e note di campo relativi alla vita quotidiana che si svolge dentro gli spazi della palestra; abbiamo raccolto le storie di vita dei principali iscritti della Tranvieri, condotto conversazioni approfondite con pugili in attività e in pensione, giornalisti sportivi, membri della Federazione pugilistica regionale e nazionale, allenatori e manager; abbiamo usato la letteratura, come riviste specializzate, scritti letterari, memorie dei grandi pugili, ma anche visionato celebri film sulla boxe ricostruendo la storia della Tranvieri, una palestra nata nel 1950 e da sempre legata al Circolo del Dopolavoro dei tranvieri bolognesi. (Circolo Dozza Atc 2005) Conducendo le prime interviste ci siamo resi conto, fin dall’inizio, di come molti pugili e frequentatori della palestra non si fidassero dei rappresentanti della società “perbene”, ovvero quella che considera la boxe come uno sport violento e disumano e non avrebbero rivelato le proprie storie a degli intervistatori estranei. Per questo abbiamo ritenuto necessario costruire relazioni di fiducia con i protagonisti della nostra ricerca iscrivendoci alla Tranvieri. La costruzione dell’oggetto di ricerca è stata, in effetti, il risultato di un reciproco adattamento tra noi, come antropologi, e i nostri interlocutori. (Antonelli, Scandurra 2009) Siamo entrati la prima volta in palestra, a febbraio 2007, dopo aver condotto, dal gennaio 2006 al gennaio 2007, come detto nel precedente paragrafo, un’inchiesta sul territorio della Bolognina allo scopo di descrivere i cambiamenti che hanno interessato quest’area dopo la chiusura, a fine anni Ottanta, delle fabbriche storiche bolognesi, in grande parte metalmeccaniche, e l’arrivo, contemporaneo, di numerosi migranti - processi che, come descritto in precedenza, hanno radicalmente cambiato il territorio in questione (Piano b 2008). Durante l’inchiesta, parlando con anziani ex operai di una fabbrica dismessa del quartiere sita nella stessa via della Tranvieri, alcuni di loro ci hanno raccontato di un loro collega, Carati detto il “pugile operaio” il quale, durante le cariche della polizia durante gli scioperi degli anni Settanta, conseguenza dei primi licenziamenti e dei primi processi di dismissione industriale che poi avrebbero caratterizzato tutto il territorio negli anni a venire, aveva il ruolo di incutere timore alle Forze dell’Ordine34. Buona parte di pugili della prima generazione della Tranvieri, infatti, ha continuato a lavorare nelle fabbriche del quartiere mentre praticava, a titolo dilettantistico o professionistico, la boxe. 34 46 E’ stato inizialmente l’esotismo che caratterizzava questi racconti, l’eccezionalità di questo “personaggio” ad attirare la nostra attenzione su questa palestra. L’ambiente della Tranvieri è divenuto “familiare” quando abbiamo iniziato a comprendere il senso e la logica delle pratiche dei pugili dentro la palestra e a osservare i loro comportamenti fuori dal ring. Abbiamo così rinunciato a leggere nella scelta di praticare il pugilato un carico di violenza che ogni aspirante pugile porterebbe con sé, magari fin dalla nascita - sono molte le biografie dei grandi boxer che ricostruiscono la storia dell’infanzia di uomini come Jake La Motta per mostrare come questi uomini altro non potevano diventare che campioni di pugilato; piuttosto abbiamo preferito studiare i rapporti che legano il quartiere alla Tranvieri, e come certi immaginari che nei due ambienti sono dominanti si intreccino e si sovrappongano, cercando di evitare il rischio di isolare la palestra e occultare i rapporti di dipendenza che quest’ultima ha con il contesto urbano più ampio. In questa direzione abbiamo utilizzato la palestra come una finestra per leggere le trasformazioni del territorio ancor più in profondità. (Antonelli, Scandurra 2009) Entrare alla Tranvieri ha significato, per noi, fare i conti con 50 anni di pugilato a Bologna, con la storia di uno sport nato nei circoli del Dopolavoro operaio, con la cultura della socialità e del tempo libero in uno dei territori più popolari della città come abbiamo visto. Noi a Bologna facevamo due riunioni alla settimana, il lunedì della boxe al Paladozza e i venerdì della boxe alla Sempreavanti, sotto lo stadio, che c’era una palestra. E il pubblico era enorme: quando hai mai visto al palazzo dello sport di Bologna ottomila persone in piedi che vanno a vedere un incontro di pugilato? Lo facevano i grandi pugili […]. Diciamo che i ricordi sono bellissimi perché era un’altra vita, un altro sport. (Albano) Albano, che dirige da anni la palestra Tranvieri, così ricorda gli anni ‘50, ‘60 e ‘70 a Bologna, gli anni d’oro del pugilato bolognese e nazionale. Quasi tutte le persone che abbiamo intervistato e che hanno vissuto questi match, come diretti protagonisti o come semplici spettatori, raccontano questo periodo come irrepetibile, poiché “valorosi” erano i pugili, “eroici” i combattimenti: “un altro sport” appunto. Oggi alla Tranvieri combattono altri pugili, quasi tutti di origine straniera, che non hanno vissuto questo periodo. Le storie degli attuali pugili della palestra della Bolognina fanno emergere i problemi e le difficoltà reali che comporta una carriera da boxeur e decostruiscono il mito del pugilato bolognese durato fino alla fine degli anni Settanta. Non è un caso che nella stessa palestra i vecchi pugili del passato, che continuano ad allenarsi nello stesso posto dove hanno iniziato la loro attività sportiva, occupino luoghi della Tranvieri differenti da quelli dove si fermano a riposare e parlare tra loro i pugili più giovani durante le pause degli allenamenti. La “zona muretto” della palestra, per esempio, quella al lato del ring, fra gli attrezzi per i pesi e le panche per gli addominali, rappresenta uno street corner per i “veterani” della Tranvieri (Whyte 1943). Quest’area, posizionata appunto tra il ring, le panche e i pesi è uno spazio istituzionale strategico perché da questo 47 angolo è possibile avere una visione completa di tutto quello che succede in palestra. Il “muretto” è il luogo dove vengono raccontati storie e aneddoti sulla boxe come quelli di Albano, dove la memoria della palestra viene trasmessa ai nuovi iscritti. La storia del pugilato bolognese, che non è mai stata scritta se non da un libro poco conosciuto (Quercioli 1994), è d’altronde una storia orale e si tramanda da decenni attraverso la voce dei pugili che hanno finito la loro carriera, degli allenatori e delle persone che si sono succedute alla dirigenza della palestra. La storia ufficiale della Tranvieri e più in generale del pugilato bolognese è quella dei “vincitori”, ovvero di coloro che hanno avuto una significativa carriera sportiva alle spalle e ora occupano posizioni di rilievo all’interno della Federazione pugilistica regionale di pugilato. Non esistono pubblicazioni sistematiche relative agli incontri disputati se non nelle cronache sportive dei giornali cittadini, dove comunque trovano spazio solo le imprese di pugili affermati in città. All’interno della Tranvieri, se qualche anziano boxeurs locale mette in discussione queste storie è perché è stato un “perdente”. Se a far emergere, invece, le contraddizioni e gli aspetti più oscuri di questo sport è un giovane pugile la risposta dei “vecchi” è spesso: “Ma che ne sa lui!”. Per questo aver concentrato il nostro studio sugli immaginari, le rappresentazioni e le pratiche di un gruppo di aspiranti boxeurs, tutti novizi, dilettanti e nella maggior parte dei casi immigrati di seconda generazione, ha provocato dei conflitti poiché ha significato dare legittimità ad altre “narrazioni”. La rappresentazione del mondo pugilistico bolognese è a tutti gli effetti un campo di lotta. Ernesto, un ex pugile dilettante, è uno dei membri più ascoltati in palestra in virtù della sua presenza quotidiana alla Tranvieri da più di quaranta anni, ed è tra i pochi che può permettersi di rappresentare il mondo della boxe bolognese e della Tranvieri in altri modi rispetto a quello “ufficiale” poiché la sua fedeltà al pugilato e alla storia della palestra è indiscutibile. Come lui, altri ex pugili dell’età dell’oro come Dante sono stati disponibili a raccontarci, oltre agli aneddoti, anche il lato “oscuro” del pugilato e le difficoltà che hanno incontrato nella loro carriera professionistica: le sconfitte ingiuste, gli incontri combinati, il potere degli sponsor. Emerge spesso in queste storie la “fame” di uomini, che poi hanno ottenuto molte soddisfazioni sul ring, i quali, in quegli anni gloriosi, praticavano la boxe per guadagnare qualcosa: comperare una moto, uscire con le ragazze il sabato sera, acquistare dei vestiti alla moda. Io penso di essere stato un buon dilettante […]. Ma il mio sport era il motociclismo […]. Io con i miei amici volevamo essere come Marlon Brando in “Fronte del Porto”. Però per correre in moto ci vogliono dei soldi […], e tutti i soldi che prendevo dal pugilato sia nel dilettantismo che nel professionismo li mettevo sulla moto. Una volta mi hanno chiamato il venerdì per fare un match il sabato sera ed erano sei mesi che non venivo in palestra perché avevo fatto un incidente con la moto e mi ero rotto un paio di costole, e ho accettato di farlo perché si prendevano dei soldi. Poi finalmente ho smesso sia di correre in moto che di fare pugilato. Perché nel pugilato io ero quello che andava per far vincere gli altri. Non è che dovevo, però è evidente che mi chiamavano sempre con 48 gente che era molto più allenata di me. Uno che mi chiamava il venerdì per fare un match il sabato allora mi doveva dare un sacco di soldi in quelle condizioni […]. In azienda prendevo circa 75 mila lire al mese quando sono diventato qualificato, e per quell’incontro mi avevano offerto 300 mila lire. L’ho fatto per soldi, ma poi mi sono stufato di prendere botte. (Dante) La palestra ha aiutato molti pugili come Dante a uscire dal mondo della strada come spesso ci hanno detto molti ex pugili: le risse, i furti, le bravate, i conflitti fra bande giovanili. Io ho iniziato a tredici anni. Giravo con ragazzi più grandi di me e le prendevo da tutti sempre perché ero il più piccolo della compagnia. Poi una volta ho visto una sera […], una scena che mi è rimasta impressa perché ho visto un omino piccolino picchiare un omone grande. Mi sono informato per capire chi era ed era il pugile Raimondo Nobile della Tranvieri. Nobile era 54 chili, ma sul ring picchiava come uno molto più grande di lui. Così, sto parlando del ‘56, ‘57, non per passione, ma per questo decisi di andare nello scantinato per fare la boxe, anche se ero piccolino di età. (Albano) La palestra…ho iniziato nel ‘60 che mi sono proprio tesserato, avevo 19 anni. Con la palestra inizia che ti danno una certa disciplina e veniva eliminato il discorso delle botte per la strada, perché non avevo bisogno di sfogarmi lì, mi sfogavo qui…mi sfogavo…mi sfogavano gli altri! Ma non è che io ero un attaccabrighe, era che il 70% dei ragazzi della Bolognina per passare il tempo si picchiavano, però…due botte e poi amici come prima, beh, magari non subito. (Dante) Confrontando le parole di Albano e di Dante con quelle dei boxeusr protagonisti della nostra ricerca non sono affatto dissimili le ragioni che hanno spinto questi ultimi ad allenarsi in palestra. I giovani pugili della Tranvieri sono adolescenti, dai 12 ai 25 anni, che in parte frequentano la scuola, gli istituti tecnici della Bolognina, in parte sono alle prese con le prime esperienze nel mondo del lavoro. Molti abitano nel quartiere e qui passano buona parte del loro tempo libero. Nei loro racconti l’ingresso alla Tranvieri emerge come un evento piuttosto casuale, una scelta come un’altra ma, quando interrogati sulle loro motivazioni più profonde, la volontà di praticare la boxe è risultata sempre rispondere a un bisogno di sfogo, di autodisciplinamento corporeo o di socialità. Ho 19 anni appena compiuti, ho iniziato circa un anno e mezzo fa. Ho iniziato perché avevo dei problemi in casa e l’unico posto dove mi trovavo a mio agio era questo. Fuori…dove potevo sfogarmi, dove avevo più respiro era la palestra. Ho fatto questa scelta perché al posto di andare in giro a fare il bullo ho deciso di venire in palestra inizialmente senza nessuna intenzione di combattere. (Anuar) 49 Kalhed: Per quello ho iniziato ad andare in palestra, il motivo principale sono state sempre le solite discussioni fra mia madre e mio padre…mi davano sui nervi e andavo fuori, e mi dovevo sfogare con qualcosa… fumare mi faceva schifo, bere lo odiavo, stare a ballare fuori sabato e domenica e basta…altre cose non le avevo e allora…incontro Yassine - pugile di origine tunisina iscrittosi in palestra più di cinque anni fa - che mi dice: “Vieni a dare due pugni al sacco in palestra che ti fa bene!”. Yassine l’ho conosciuto in discoteca, io ero andato a fare un giro, lui stava litigando con dei tipi e io gli diedi una mano… me lo ricordo che alla fine mi ha detto: “Merda , ma che mani c’hai?” Ricercatori: E perché gli hai dato una mano? Kalhed: Perché non aveva sbagliato lui, lui aveva chiesto semplicemente di entrare e l’altro l’ha spinto, perché sai per noi arriva sempre prima il rispetto, se tu mi rispetti, io ti rispetto. I racconti di giovani boxeurs come Anuar e Kalhed, entrambi figli di marocchini venuti in Italia più di dieci anni fa, sono pieni di riferimenti a tensioni che questi ragazzi vivono dentro la famiglia, in un ambiente scolastico scoraggiante e vissuto in modo conflittuale, per via di esperienze lavorative fallimentari dove la maggior parte di loro ha capito il significato della parola insuccesso. Le pratiche di vita quotidiane di Kalhed e Anuar, sono le stesse di altri loro compagni di palestra nati in Italia ma senza cittadinanza, che vivono quotidianamente la Tranvieri una volta finito il tempo della scuola, del lavoro, delle responsabilità famigliari. Il rispetto di cui parla Kalhed costituisce per questi giovani pugili un valore fondamentale. La Tranvieri, allora, anche se non sempre in modo consapevole, si configura come una scelta motivata perché permette a questi ragazzi di sentirsi rispettati, di provare il proprio valore, di dimostrarsi forti senza il carico di autodistruzione che lo sfogo e l’affermazione di sé in forme aggressive produrrebbero in altri contesti, come emerge dall’intervista a un altro pugile di origine marocchina: Io sono uno che quando si arrabbia non ci vede più, infatti il pugilato mi serve anche per questa cosa qua, quando mi arrabbio mi sfogo un po’ qua. È una brutta cosa. In terza media un ragazzo mi ha mandato a fanculo, e io mi sono arrabbiato e gli ho buttato un tavolo addosso, gli ho spaccato la schiena. Non ci ho capito più niente. Questo qua mi diceva sempre: “Sei un marocchino, tornate al tuo paese”. Io non gli ho mai fatto niente fino ad allora, poi ho reagito. Quella volta mi volevano sospendere da scuola, solo che io non avevo mai fatto niente e non mi hanno punito. (Samir) La scuola, e gli istituti professionali della Bolognina frequentati da Samir, Kahled, Anuar rappresentano, nelle loro parole, dei luoghi di umiliazione. La maggior parte di questi giovani boxeurs vede gli istituti tecnici del quartiere come istituzioni totali dove più che acquisire una formazione e delle conoscenze, ovvero costruirsi un futuro, si acquista solo la consapevolezza di tutto ciò che non potranno essere né diventare. 50 A scuola mi piaceva molto andare. A me ha rovinato mio padre perché diceva che non avevo la testa per andare in una scuola diversa e mi ha mandato alle Fioravanti, all’istituto tecnico, e io davvero la odiavo quella scuola con tutte le mie forze dal profondo del mio cuore, io odiavo la meccanica, odiavo fare l’idraulico, odiavo l’elettricista, odiavo fare tutti i lavori merdosi che ti toccano se vai lì […]. Io mi chiedevo perché devi sempre fare o il falegname o l’elettricista, perché sei destinato a fare il muratore, perché non puoi studiare, che ne so, fare l’avvocato? (Kalhed) La grande parte dei pugili protagonisti della nostra ricerca ha alle spalle storie di migrazione forzata, difficoltà economiche, precarietà sociale e un vissuto quotidiano comune dove i luoghi di ritrovo sono i cortili, i campetti di basket e di calcio abbandonati, i vicoli del quartiere a ridosso delle scuole. Puoi fare il giro di tutte le palestre del mondo, nelle palestre di pugilato non trovi uno ricco, perché è gente che deve avere della cattiveria, perché se non hai della cattiveria sei finito […]. La gente povera, io, un altro, gente che è un po’ cattiva dentro, che ha vissuto un po’ la vita, che sa cosa significa stare nella strada, cosa vuol dire picchiarsi per la strada. La gente che fa pugilato inizia a fare a botte in strada a 10 anni […]. Ci sono stati due amici che hanno fatto tanta galera, davvero tanta galera. Poi uno è venuto qui con me. Questo qua era una bestia, una bestia davvero, faceva pugilato per la strada, se lo vedevi ti prendevi paura. Picchiava tutti. È venuto qua, l’ho portato in palestra e lui diceva: “No, io voglio fare i soldi veloci”. Anch’io ne ho fatte tante nella vita, ho rubato, uno è ragazzo, ma dopo capisce che così non si va avanti, e gli dicevo: “Senti a me, statti tranquillo qua”, e lui: “No, io adesso vado a rubare una macchina, poi rubo a un negozio, mi faccio un po’ di soldi”; era fissato, l’hanno preso lui e un altro, la polizia, dopo una rapina […]. Io sono cresciuto con lui, purtroppo era così, noi facevamo tutto insieme, eravamo proprio legati, è con lui che ho iniziato a fare pugilato. (Erzan, giovane pugile di origine albanese anche lui residente in Bolognina) La Tranvieri per questi ragazzi non costituisce un ambiente altro rispetto alla segregazione territoriale che caratterizza determinate aree e luoghi di incontro di quartieri periferici di Bologna come la Bolognina, come abbiamo visto. E’ possibile parlare infatti di una omogeneità di condizione sociale se ci si riferisce ai giovani pugili iscritti in palestra; ciò che però li distingue dai loro compagni di strada, nella maggior parte dei casi compagni di banco di scuola o colleghi di lavoro, quasi tutti immigrati nati in Italia ma figli di genitori nordafricani, è la ricerca di autocontrollo, di disciplina, la volontà, espressa attraverso il pugilato, di governare la propria vita, spesso vissuta come un destino da sfidare quotidianamente. Il pugilato per i ragazzi della palestra non rappresenta tanto una soluzione alla frustrazione verso un mondo sociale che sentono indifferente quando non ostile nei loro confronti, piuttosto la possibilità di non essere sempre rappresentati in esso come esclusi. Molte pubblicazioni sul mondo della palestra di pugilato, scientifiche e non, condannano la boxe come uno sport violento. 51 La boxe è indifendibile, da un punto di vista medico e morale: è insano che la gente si prenda a pugni, è l’ultima cosa che vorrei che i miei figli facessero. E non piace più a nessuno. Ma mi rapisce. In America c’è una lunga tradizione letteraria sul pugilato, pensiamo a Norman Mailer. E’ come un’epica antica, è un’arte morta. («La Repubblica», 30 giugno 200735) Altre pubblicazioni, all’opposto, descrivono i pugili come vittime di un sistema economico-sportivo che tratta loro come “corpi in vendita” (Wacquant 2004). Dall’altra parte, numerosi sono i racconti, anche romanzati, che sottolineano le traiettorie di vita di quei pugili che, attraverso la boxe, sono riusciti, grazie alla loro forza di volontà, a uscire dal mondo della strada e costruirsi un avvenire dignitoso (Philonenko 1997). Eppure, la “cattiveria” di cui parla Erzan, giovane pugile di origine albanese della Tranvieri, non è gratuita, piuttosto è da leggere come un insieme di strategie che questi ragazzi agiscono per “cavarsela” nonostante i pochi soldi, il difficile mercato del lavoro, la scarsa integrazione a scuola. Le parole di Erzan, in questo senso, non sembrano né quelle di una vittima che sogna di fare il pugile inconsapevole che sta “svendendo” il suo corpo, né quelle di un “eroe” che, nonostante le sue cattive amicizie, “riesce a farcela”. L’analisi politica-economica, in questo senso, non costituisce una spiegazione capace di giustificare tutti i comportamenti, alle volte autolesionistici, di pugili come Erzan - per esempio, la scelta di alcuni di tentare una carriera impossibile da professionisti, compiendo numerose rinunce e sacrifici e sperando così di dimostrare il proprio valore come uomini e di arricchirsi in fretta. Le azioni e le traiettorie di vita di pugili come Erzan, infatti, non sono riconducibili deterministicamente alla struttura sociale in cui sono inseriti ma, allo stesso tempo, avvengono dentro un ventaglio di possibilità condizionato da determinate relazioni di potere e dentro una storia che le influenza (Colombo 1989). La palestra, in questa direzione, sembra offrire, nelle rappresentazioni dei pugili, sia un riparo dalla strada e dai luoghi dove questi ultimi sperimentano soprattutto insuccessi e contraddizioni, sia un luogo di ritrovo dove a contare sono altri valori e il rispetto è una parola fondamentale. (Bourgois 2003) Quando sei in palestra con una persona, non puoi sentirti diverso. Se sei in palestra da un giorno, tre mesi, un anno, sai che anche lui vuole arrivare dove vuoi arrivare tu e quindi cerchi di dargli una mano oltre all’allenatore. Gli dai una mano su come si tirano i colpi, su come si sta sul ring, alla fine in palestra non ci sono le diverse nazionalità, qui la maggior parte sono stranieri e non ci sono mai stati casini, ci siamo sempre aiutati. Poi fuori puoi avere delle sfighe perché puoi trovare gente che non fa niente tutto il giorno e poi gli capita una sfiga esce di casa e quel giorno se la prende con te, e Intervista a David Remnick, direttore e firma storica del «New Yorker», autore del libro su Muhammed Alì, “Il re del mondo”. (Remnick 2008) 35 52 se ti becchi un pugno da un pugile…un pugile deve sapersi controllare, se tiri un pugno puoi fare male, se non lo sai dare lo ammazzi. (Anuar) Ufficialmente la palestra è aperta dal lunedì al venerdì a partire dalle 17.30 fino alle 20.30, ma, di fatto, apre le sue porte anche al di fuori degli orari “ufficiali”. Alcuni ragazzi, per esempio i più giovani, arrivano in palestra prima delle 17.30 precedendo gli stessi maestri; Ernesto, infatti, apre la Tranvieri prima dell’inizio dei corsi per mettere in ordine i pesi e tutti gli attrezzi, riparare le corde rovinate, oliare il punging ball, sistemare i guantoni spaiati. Alcuni di questi giovanissimi boxeurs, in questi momenti che precedono l’inizio dell’allenamento, aiutano Ernesto in questi lavori di manutenzione a dimostrazione del rapporto di fiducia che lega i “vecchi” della Tranvieri ai nuovi iscritti, rapporto che prescinde da quello che questi ultimi hanno con i due maestri della palestra. I pugili che vengono dal lavoro, che hanno più esperienza di boxe alle spalle, arrivano invece più tardi e rimangono ben oltre l’orario ufficiale di chiusura: le lunghe docce dopo l’allenamento, le chiacchiere e gli scherzi negli spogliatoi sono un modo per allentare la tensione dopo le fatiche della scuola, del lavoro, dei guanti e del ring. La palestra cambia aspetto il sabato pomeriggio e la domenica mattina quando, sebbene dovrebbe essere chiusa, Ernesto, che possiede le chiavi della sala, la apre ai giovani pugili i quali, tra un colpo al sacco e una sessione di corda, trasformano lo spazio della palestra in un campo di calcio. Giocatori di queste partite “clandestine” sono anche i fratelli e gli amici del gruppo di boxeurs che frequentano la Tranvieri regolarmente, ragazzi molto giovani, di origine magrebina e tutti residenti nel quartiere. Il sabato pomeriggio e la domenica mattina in palestra si parla un singolare connubio di arabo e dialetto bolognese e la ripetuta convivenza in questo spazio ristretto tra veterani, giovani boxeurs e i ragazzi della Bolognina del “giro” della palestra permette di litigare, insultarsi e prendersi in giro spesso ricorrendo a stereotipi che in un altro contesto, come quello degli allenamenti settimanali, sarebbero considerati razzisti. In questo senso il gruppo dei giovani pugili della Tranvieri prende forma dentro un vissuto quotidiano fatto di “intimità culturale” che si può riconoscere in “quegli aspetti dell’identità culturale, considerati motivo d’imbarazzo con gli estranei, ma che nondimeno garantiscono ai membri la certezza di una socialità condivisa”. (Herzfeld 2003) Non c’è verso sei proprio un arabo, è possibile che devi rompere le palle per un rigore fino a questo punto? (Ernesto, ex pugile italiano in uno dei suoi proverbiali rimproveri durante le partite di calcetto in palestra la domenica con i giovani di origine magrebina) La Tranvieri il sabato e la domenica diventa un ritrovo di gruppo, quando la scuola e le sale gioco sono chiuse, e i cortili dei grandi palazzi popolari della Bolognina non sono punti di incontro perché i genitori sono a casa e bisogna sottrarsi al loro controllo dai balconi, come ci racconta un giovane pugile di origine nigeriana: 53 Oddio, ma tu ce l’hai presente che cos’è una madre africana? Non sono normali, sono fuori di testa, agitate…vai da un tuo amico a suonargli il campanello sotto casa e inizia il terzo grado, quella si mette a urlare che il figlio non sta mai a casa, sembrano dei radar…no, no preferiamo darci appuntamento in palestra o in qualche altro posto! (Martin) Le partite del fine settimana sono anche occasioni di “ingaggio” di futuri pugili, perché la maggior parte di questi ragazzi intorno ai 16 anni finisce per affiliarsi alla Tranvieri dopo questa iniziazione “non regolare” alla palestra: quando arrivano ad iscriversi molti di loro sono già entrati in tale spazio, hanno usato le docce, imparato l’uso degli attrezzi, ma non hanno mai visto i maestri. Anche per questo Ernesto è consapevole che, per quanto la dirigenza non autorizza ufficialmente tale “occupazione” della Tranvieri nei week-end, il Presidente e gli stessi maestri chiudono un occhio rispetto alle attività che si svolgono in palestra il sabato e la domenica in parte perché ne hanno un ritorno come società pugilistica, in parte perché la Tranvieri è sempre stata vissuta come un circolo Dopolavoro e un luogo di ritrovo degli atleti. Le relazioni fra i giovani pugili, ovviamente, si costruiscono non solo nei momenti eccezionali come quelli del sabato e la domenica ma attraverso la pratica quotidiana in palestra. Sottoporsi all’apprendimento della tecnica pugilistica, per chi voglia studiare come si strutturi e quale sia la logica di interazione dei suoi frequentatori, è l’unica porta di accesso alla Tranvieri e ai suoi mondi quotidiani. Vivere il ritmo quotidiano in cui un boxeur modella il suo corpo, affina la sua tecnica e costruisce il suo capitale di fiducia per salire sul quadrato è fondamentale nel momento in cui si vogliono comprendere le sue pratiche, i suoi immaginari ed intuirne il senso (Wacquant 2002). Per questo da marzo 2007 ci siamo iscritti in palestra e abbiamo iniziato ad allenarci con questo gruppo di pugili di origine straniera nati in Bolognina oppure venuti qui da molti piccoli e alfabetizzati nelle scuole del quartiere. Una volta conquistati determinati rapporti di fiducia con un gruppo di giovani pugili abbiamo cominciato ad uscire dalla palestra con loro. Il rapporto strada-ring è determinante per la Tranvieri. Tito, l’allenatore più anziano della Tranvieri, è consapevole di quanto la sua palestra attinga i pugili migliori, come nel caso di Erzan, dalla stada, dai caseggiati della Bolognina. La Tranvieri, come vedremo in seguito, ha un forte rapporto con il territorio che la ospita; se, però, prima poteva contare, per quanto concerne i suoi iscritti, su molti operai, quasi tutti italiani, che lavorano nelle fabbriche del quartiere e prendevano la residenza alla Bolognina, oggi dipende sempre più, in termini di risultati sportivi, da un gruppo di giovani di origine straniera che abitano a poche centinaia di metri dalla palestra. Qui il Quartiere la tiene in grande considerazione la palestra, il presidente del quartiere è uno che ha frequentato la palestra e lo dice sempre. È uno che i piedi in palestra, quando era 54 ancora negli scantinati ce li ha messi, anche adesso a volte passa, magari sotto le elezioni amministrative…, sa che ci siamo. Perché poi la gente parla e queste storie si sanno, e vedono che con i nostri, mai troppi guai, non abbiamo mai creato guai perché i ragazzi quando arrivano qua non c’è problema di nessun tipo, magari fuori….(Tito, allenatore storico della palestra) Il gruppo di pugili della Tranvieri, quando abbiamo cominciato ad uscire dalla palestra per analizzare meglio il rapporto strada-palestra, si è costituito nel tempo grazie ad un passaparola e ad una rete di conoscenze formatasi nel territorio. Kalhed, Yassine, Jameel, Erzan prima di iscriversi in palestra si frequentavano nei luoghi di ritrovo del quartiere. Kalhed: Ad esempio se tu vai in centro tutti conoscono Yassine perché lui lavora in centro, fa il buttafuori alla discoteca; vedi Kalhed, tutti lo conoscono perché andava in quella discoteca, era il caposala al bowling…prima di entrare dovevi passare da lui... Ricercatori: Perché lavoravi a bowling? Kalhed: Non lavoravo - ride per il mio fraintendimento. Il gruppetto mio era al bowling, io andavo al bowling e tutti mi seguivano, quello al centro che adesso ha chiuso. Io andavo da un’altra parte e tutti venivano dietro a me da un’altra parte. Quando stavo a casa la gente veniva a suonarmi sotto casa…“Kalhed, possiamo salire?!!!”, e io: “No, mollami!”. Allora è un modo per farsi rispettare, ma non perché hai visto un film e vuoi fare il Padrino, è un modo per far capire ad una persona che ci sei anche te, che un marocchino non è uno scocciatore, un ladro, un assassino, ma è anche un bravo ragazzo, che va a scuola, lavora, fa sport e si fa i cazzi suoi, ma la gente non lo vede questo. Io quando andavo in centro e camminavo ti giuro c’era della gente che abitava a Casalecchio, qua vicino a Bologna, e mi chiedeva: “Kalhed possiamo entrare in centro?” e io: “Che cazzo mi chiedi, vieni, fai quello che vuoi, sei nel tuo paese!”… “No perché mi hanno detto al Pilastro che devo chiamare te perché te comandi in centro”. Io dicevo: “Guarda che ti stai sbagliando!” Ricercatori: Quindi i territori erano tu al Centro, Yassine alla Barca… Kalhed: No, Yassine al Pilastro perché prima abitava in San Donato, Erzan la Barca, in periferia… Ricercatori: Insomma la Tranvieri ha tre “capi” della città! Kalhed: No - ride -, quattro. Io, Yassine, Erzan e Jameel - tra i pochissimi pugili della Tranvieri a vincere una competizione nazionale recentemente, padre tunisino e madre italiana, ma nato e cresciuto in Italia - che controllava il San Donato. Alla volte, come nel caso di Fadil, giovane pugile di origine marocchina, sono stati gli stessi genitori di questi ragazzi a spingere i loro figli a iscriversi in palestra dopo aver visto i loro compagni di scuola o di ritrovo passare tutti i pomeriggi con Tito e Sante - il secondo allenatore della palestra - nella società sportiva della Bolognina; anche al fine di strapparli dal mondo delle strada e dai luoghi di ritrovo del 55 quartiere dove questi ragazzi usano frequentarsi. Fadil, del resto, ha abitato per diversi mesi in un palazzo dove risiedeva anche la famiglia di Anuar e Kalhed. Fadil: Sì, Anuar, Samir, li conoscevo tutti, loro venivano da prima, anche Yassine, Erzan… Ricercatori: Perché abitavate tutti più o meno vicini? Fadil: Sì, andiamo insieme alla discoteca, al bowling, a tante parti, li conoscevo e sentivo che parlavano boxe, boxe, boxe…quello che conoscevo meglio era uno che è stato qui molti anni. Forse non l’avete mai visto perché ha smesso di fare boxe. Ricercatori: Ma vi conoscevate anche perché venendo dallo stesso Paese vi frequentavate? Fadil: Si, soprattutto perché mio padre all’inizio abitava in via Stalingrado vicino alla casa del padre di Anuar; lui li vedeva che venivano con la borsa a casa e sapeva che andavano a fare boxe in palestra così…allora appena sono venuto sempre mi diceva di venire. Spesso abbiamo chiesto alla squadra di pugili della Tranvieri quando si fossero conosciuti la prima volta. Kalhed, per esempio, come altri iscritti, hanno deciso di seguire gli allenamenti di Tito e Sante dopo aver saputo che amici conosciuti in discoteche del territorio frequentavano la società della Bolognina. Ricercatori: Quindi tu Yassine lo conoscevo da prima? Kalhed: Sì da quando avevo 17 anni. L’ho conosciuto in discoteca, io ero andato a fare un giro a Corticella, dietro la Bolognina, lui stava litigando e io gli diedi una mano… Ricercatori: Perché gli hai dato una mano? Kalhed: Perché non aveva sbagliato lui, lui aveva chiesto semplicemente di entrare e l’altro l’ha spinto, perché sai per noi arriva sempre prima il rispetto, se tu mi rispetti, io ti rispetto. Mi puoi dire che non entro ma non mi tocchi, poi Yassine che è uno che è tutto precisino, elegante, odia essere toccato. Come è successo a lui anche un’altra volta a San Lazzaro, al Comune qui vicino, che in discoteca ha avuto una discussione con lui e gli ha detto: “Ah, voi marocchini, africani, venite qua e volete comandare!”; allora Yassine stava partendo e io mi sono messo in mezzo perché stava lavorando lì e gli faccio: “Yassine fermati che sennò finisci nella merda!”, e lui allora: “Vabbè, tu sei mio fratello, gli dai tu due pugni in faccia e siamo a posto!”. Ho portato il tipo più avanti e gli ho detto: “Guarda, non ti tocco, però fai quello che dico io, vattene perché qua rischi di farti male!”. E lui mi ha dato uno schiaffo. Ti giuro su mia madre che non gli ho risposto, non gli ho dato né calci, né schiaffi, né pugni. Ti giuro non l’ho toccato e il tipo ci è rimasto di merda. Tempo dopo l’ho incontrato in via Indipendenza, al centro di Bologna, mi ha fermato e mi fa: “Tu sei un grande! Perché se mi rispondevi mi devastavi!”. E io: “Vedi che l’hai capito?”…Ti giuro mi ha dato una cinquina della madonna e io l’ho guardato solo. Yassine quando sono tornato da lui mi fa: “Allora gli hai dato due pugni a quello là?” e io: “Sì, Yassine, non ti preoccupare!”. 56 Jameel, Kalhed ricordano, per esempio, di essersi incontrati, prima di iscriversi alla Tranvieri, al mare e in altri luoghi di ritrovo della Bolognina. Spesso durante risse e bravate che li hanno visti come protagonisti. Con Jameel ci siamo incontrati questa estate al mare (2007) e ci siamo cacciati una avventura allucinante in Bolognina; ci siamo messi in mezzo alla pista a fare gli idioti, a metterci in guardia, a lanciare le mani, solo che lui ha le mani pesanti se ti arriva ti fa male; eravamo ubriachi, io schivavo ma fino a quando ci riuscivo, e gli dicevo: “Oh, vai piano!”. Eravamo troppo ubriachi quella sera. (Kalhed) Tito è consapevole da quando insegna alla Tranvieri di quanto la società di boxe dipenda dal territorio e trovi proprio tra gli abitanti della Bolognina buona parte dei pugili da far combattere. In questi ultimi anni, come detto, ha notato, però, come gli iscritti siano sempre più figli di immigrati, prevalentemente marocchini - ciò, fra l’altro, riflette, come rivelato precedentemente, la stratificazione dei residenti nel quartiere, visto che, secondo le statistiche comunali, il numero di marocchini in alcune zone di quest’area urbana ha raggiunto quasi il 25% delle presenze, in termini di residenza, complessive. La palestra è molto strana perché arriva un albanese o uno dell’Afghanistan e il giorno dopo è in palestra, poi chiedi ad uno italiano che abita nel quartiere e magari non lo sa, perché non si sforza e non gli interessa il pugilato. (Tito) Molti ragazzi che si allenano in Tranvieri, come Anuar, Kalhed, Fadil hanno abitato, con le loro rispettive famiglie, negli stessi palazzi di edilizia popolare che caratterizzano questo territorio. In via Stalingrado, a poche centinaia di metri dalla Tranvieri, per esempio, un intero palazzo è stato e tutt’ora ospita parte della popolazione immigrata, per lo più di origini marocchine, del quartiere; dai primi anni duemila fino alla fine della ricerca questo palazzo, un insieme di appartamenti molto vasto, è stato spesso al centro di articoli e inchieste dei quotidiani locali e rappresentato come la casbah di Bologna36. Ho iniziato perché all’inizio quando mio padre era arrivato abitava in via Stalingrado, dove ci sono ragazzi che abitano lì e che vengono qua. Ci sono molti ragazzi della palestra che abitano lì, come Anuar…quel palazzo dove abitano tutti i marocchini, lì abitano quei ragazzi che venivano qua. (Fadil) La Tranvieri, Tito in particolare, e più di altre palestre regionali spesso ha aiutato questi ragazzi a integrarsi meglio nel territorio. I due allenatori, del resto, sono consapevoli del fatto che per diventare 36 Tale palazzo è stato al centro di una ricerca etnografica condotta da Giulia Guadagnoli parte del lavoro realizzato dalla Cattedra di antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna all’interno del P.R.I.N. 20072009 in corso di pubblicazione. 57 un campione di boxe un atleta deve avere una vita il più possibile regolare: dal punto di vista affettivo, economico, famigliare. Fadil e Anuar, per esempio, hanno trovato dei lavoretti grazie ai consigli e alle conoscenze di Ernesto e Dante. Altri, come Erzan hanno potuto iscriversi nonostante, privi di cittadinanza italiana, non avrebbero e non possono tutt’ora combattere nei campionati assoluti dilettanti nazionali. Tito ha aiutato ragazzi in difficoltà e con precedenti penali alle spalle: da una parte assolvendo a una funzione sociale agita da tanti anni all’interno di un rapporto con le istituzioni comunali e lo stesso Circolo Dozza da cui la società della Bolognina dipende, dall’altra consapevole sempre più che dal mondo della strada è possibile “pescare” i boxeurs del futuro. Con l’arrivo dei primi pugili di origine straniera la Tranvieri ha dovuto cambiare i tempi, gli spazi, la stessa organizzazione degli allenamenti. Sante, per esempio, ammette senza nessun pudore come sia difficile allenare alcuni pugili durante il periodo di Ramadan. È un casino. Questi arrivano in palestra senza aver mangiato per tutto il giorno e non vedono l’ora di tornare a casa oppure mangiano ma arrivano tardi perché non possono allenarsi con lo stomaco pieno. Più che il mangiare il problema è il non poter bere nemmeno acqua. Alla fine del Ramadan siamo nei casini perché hanno preso tutti due tre chili, che la notte si riempiono di cous cous per reggere durante il giorno. (Sante, il secondo allenatore della Tranvieri) I due allenatori sanno che puntando su pugili come Kalhed e Yassine ogni giorno dovranno stare molti attenti ai comportamenti di questi ragazzi fuori dalla palestra, visti i loro vissuti, le difficoltà scolastiche, lavorative, soprattutto i conflitti famigliari che caratterizzano le loro vite quotidiane. Ancora una volta, però, il loro ascolto ha una doppia faccia: da una parte, infatti, Tito soprattutto ha dimostrato, praticamente, di dare una mano ai suoi pugili quando in difficoltà - trovare una stanza in affitto a un ragazzo, parlare con la sua famiglia per rassicurarla del comportamento corretto del figlio in palestra, aiutare dei pugili a sistemare i loro libretti compilando insieme i documenti necessari per combattere e risolvendo loro alcune beghe di carattere burocratico, promettere ai servizi sociali di essere responsabili delle azioni di un iscritto che ha avuto difficoltà e ha subito denunce di tipo penale, permettere ad alcuni boxeurs di continuare ad allenarsi anche quando non avevano modo di pagare la quota mensile, etc.; dall’altra Sante stesso riconosce come Anuar, Fadil, Samir abbiano motivazioni, relativamente al loro fare boxe, maggiori di tanti altri pugili italiani che si allenano in altre palestre del Comune. Il lavoro sulla Tranvieri non ha avuto, fin da subito, la pretesa di essere uno studio sulle “seconde generazioni” di immigrati che vivono nel nostro Paese (Ambrosini, Molina 2004); ci ha permesso però di analizzare alcune storie e rappresentazioni che emergevano dal lavoro di campo e individuare, così, dei temi che sono astati al centro della ricerca P.R.I.N. Nell’ultimo decennio il dibattito sulle cosiddette “seconde generazioni” di immigrati, infatti, sta guadagnando sempre più terreno tanto come spazio di analisi e ricerca all’interno di molteplici aree disciplinari, quanto come controversa questione dibattuta 58 dai diversi attori locali - Regioni, Comuni, Province, associazioni, comitati di quartiere etc. - implicati nella gestione delle politiche di inclusione e accoglienza e che si misurano sulle problematiche della partecipazione e della cittadinanza. Lo stesso termine “seconda generazione”, del resto, è in discussione visto che pugili come Anuar sono in Italia da quando avevano sei anni e hanno intenzione di crescere a Bologna una loro famiglia. Nello spogliatoio, spesso, abbiamo avuto modo di parlare con questi ragazzi della loro situazione famigliare, soprattutto domandargli cosa pensassero i loro genitori della boxe e del loro passare tutti i pomeriggi in palestra. Un filo rosso di queste chiacchierate informali nella società della Bolognina è stato, però, come emerge anche da molte monografie che hanno concentrato la loro attenzione sulle pratiche di vita quotidiana di giovani immigrati di seconda generazione in Italia (Giacalone 2002, Queirolo Palmas, Torri 2005; Benadusi, Chiodi 200637), i problemi che questi apprendisti pugili vivono tornando a casa ogni sera scontrandosi con la loro famiglia. No, prima abitavamo vicino Vergato, in provincia di Bologna…abbiamo vissuto lì per due anni…io e mio fratello eravamo morti, abitavamo in una palazzina e non c’era niente intorno, eravamo noi e attorno zero, il campo da calcio era a due chilometri…non ce l’abbiamo fatta più, non ci volevamo stare e siamo venuti a Bologna nel 1998 e ci siamo trasferiti vicino all’ospedale Maggiore. Andavo a scuola a di fronte all’ospedale Maggiore. Mi sono trovato subito benissimo con i ragazzi, dalle elementari ci sentiamo ancora adesso, ho legato subito perché io mi trovo sempre bene con i ragazzi italiani, perché faccio battute, scherzo, rido…invece mio fratello no, perché lui è molto più diretto, ha un obiettivo e lo deve raggiungere punto. Lui dice: “Io arrivo là e arrivo là. Punto, non mi devi dire niente!”. Anch’io sono così però nella vita che ne sai te che ti succede oggi, domani. Poi ci siamo trasferiti in via Marconi in centro a Bologna e lì è iniziato l’odio di mio padre contro di me. Avevo 16 anni e iniziavano le prime uscite, le prime sere che tornavo ubriaco, iniziavo a dormire fuori la sera, inizia che ti viene a prendere alla 2 e tu esci alle 2.40 da un posto, cominci a uscire da solo con il motorino; cominciò a chiudermi fuori di casa per farti capire certe cose che però io non capivo. Io adesso ho capito perché faceva certe cose, però prima non le capivo, adesso riesco anche a dargli ragione, però è normale, è una cosa che devi vivere. (Kalhed) Da una parte, per esempio, dai racconti di Kalhed, Anuar, Yassine, anche il pugile rumeno Mircea, emerge come questi ragazzi abbiano dovuto, soprattutto a scuola e al lavoro, difendere le loro origini di fronte ad accuse razziste dei loro compagni di classe o colleghi, dall’altra quanto, una vota tornati a casa, Il problema di come definire questi giovani immigrati e quanto il termine “seconde generazioni” li rappresenti è stato al centro di una parte del lavoro di ricerca realizzato dalla Cattedra di antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna all’interno del P.R.I.N. 2007-2009 in corso di pubblicazione. Studio etnografico condotto, da una parte, dagli antropologi Bruno Riccio e Monica Russo, dall’altra dai colleghi Ivo Giuseppe Pazzagli e Federica Tarabusi. Parallelo a questi studi è stata la ricerca che l’antropologa Casandra Cristea ha condotto sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di ragazzi di origine rom che vivono da anni nel territorio comunale di Bologna, sempre in corso di pubblicazione. 37 59 ogni sera hanno dovuto discutere con i loro genitori per rivendicare io loro sentirsi e volere essere considerati italiani a tutti gli effetti. Kalhed, per esempio, riassume tutto il suo rapporto con i genitori in un continuo tira e molla in cui il giovane pugile ha alternato strategie di aperto conflitto ad azioni che volevano dimostrare quanto fosse attaccato alla sua famiglia e i suoi valori. (Sayad 2002) C’è stato un periodo che dormivo in macchina perché mio padre non voleva che stessi in casa, io non riuscivo a trovare casa, quindi ho dormito due mesi nella macchina del lavoro e venivo in palestra, abitavo da solo e dovevo fare la spesa per due famiglie per me e per mia madre, dovevo pagare l’affitto per me e a casa di mia madre, dovevo dare da mangiare alle mie sorelle, libri, zaini, scuola, Anuar, lo scooter. Ho fatto dei salti troppo presto, ho perso degli anni, dai 18 ai 22 che li ho persi per la famiglia, per stargli dietro…ho bruciato molte tappe ma non me ne pento perché alla fine ho fatto del bene alla mia famiglia. Se tu prendi un ragazzo italiano, non farebbe queste cose per la famiglia, se ne sbatterebbe le palle, ma non perché uno è italiano, ma perché crescono in un modo diverso, tutto è dovuto, i libri, le scarpe della Nike, la palystation, lo zaino firmato, lo scooter, andare a prenderlo alla discoteca alle 4 di notte è dovuto, sono cose che…da noi no…da noi poi, a me non è successo così, non sono mai stato così fortunato! Per questo cerco di non far vivere a mio fratello le stesse cose che ho vissuto io, gli ho comprato la moto, se non ha soldi glieli do senza che si accorga che glie li sto dando […]. Con lui - mio padre (n.d.a.) -non ho mai avuto un buon rapporto, adesso è migliorato, gli ho presentato la mia ragazza dopo tre anni, gli ho detto che i miei obiettivi sono andare a vivere con lei e costruirci un futuro da qualche parte, quindi anche lui da una parte cerca di aiutarmi, però da un’altra…è più’ forte di me. Non mi pento di averlo fatte perché alla fine mio padre aveva divorziato e ho dovuto aiutarli, ma sono contento alla fine si sono risposati, ora stanno bene. Si sono risposati dopo due anni…contenti loro, per me non è cambiato niente. (Kalhed) Kalhed, per esempio, anche quando è uscito di casa, anche con la volontà di non tornarci più, ha sempre subito il giudizio del padre. Di fronte ad ogni scelta il giovane pugile di origine marocchina ha sempre immaginato il genitore come fosse davanti a lui per criticarlo e mettere in discussione le sue azioni. Kalhed: Io ho vissuto da solo per un po’, poi i miei si sono separati e sono dovuto tornare a casa per dare una mano a mia madre che non lavorava e io ero l’unico che lavorava. Ero andato a vivere da solo perché non ce la facevo più con mio padre, ero arrivato ad un punto che dicevo: “O l’ammazzo o lui mi ammazza!”; eravamo due caratteri troppo simili per vivere insieme, siamo uguali, perché lui mi diceva una cosa e io l’opposto. Mio padre quello che diceva lui doveva essere quello punto. Loro volevano andar giù e io ho detto: “No, io giù non ci vado, io devo lavorare” e lui: “No, tu vieni giù sennò ti cerchi un’altra casa dove andare a dormire!”. Avevo 17 anni, sono tornato a 20, sono andato di nuovo via a 21, sono tornato a metà dei 22. Ricercatori: Quindi tu a 17 anni vivevi da solo… 60 Kalhed: Si, loro sono partiti per il Marocco in vacanza e io me ne sono andato, mi sono preso una camera singola perché prima avevo un locale di un mio amico dove ci ubriacavamo, dormivamo, facevamo tutto là. Poi il locale è andato in frantumi dopo nove mesi perché consumavamo più dei clienti. Mi trovai casa, trovai lavoro, trovai la ragazza, perché io con la mia ragazza sto da cinque anni e mezzo. Un altro tema che emerge nella letteratura scientifica sulle seconde generazioni in Italia e che trova conferma nelle parole dei protagonisti del lavoro sulla palestra di pugilato è quello relativo al difficile inserimento scolastico di molti giovani immigrati che vivono nelle nostre città. (Giovannini38 1996) La mia professoressa di italiano delle medie mi diceva: “Kalhed se tu non vai a fare questa cosa sei un idiota!”. Io mi chiedevo perché se sei straniero devi sempre fare o il falegname o l’elettricista? Io ancora adesso sto trovando il modo per fare il poliziotto, non perché mi piace essere chissà chi, ma perché è un lavoro onesto, puoi dare un appoggio allo Stato dove ho vissuto per tanto tempo di migliorarsi. (Kalhed) Per quanto il dibattito sulle seconde generazioni in un contesto come quello della Bolognina rifletta una situazione completamente differente da quella per esempio che emerge dalla letteratura scientifica che rivolge lo sguardo, per esempio, alle periferie francesi dove vivono molti ragazzi di origine magrebina (Mellino 2007, Quadrelli 2007), l’odio che Kalhed prova per la scuola che frequenta è dovuto anche agli insuccessi del padre e al fatto, che più che un modello questi rappresenti per il giovane pugile un esempio di fallimento che non vuole ripetere. Mio padre voleva fare l’insegnate solo che ha incontrato persone che non erano d’accordo tanto con lui…nel senso che molti non hanno accettato la sua laurea, molti non l’hanno fatto voluto far entrare in quello che voleva fare lui. In Marocco trovava lavoro tranquillamente, solo che lui aveva studiato per insegnare in Europa e allora…non è stato fortunato e glie l’ha data su. Ha mollato tutto e ha cominciato a lavorare come manovale, come manovale, poi si è stufato ed è andato a lavorare in fonderia; ha lavorato in fonderia sette anni a Monte San Pietro, qua vicino Bologna, poi si è stancato anche lì e prima ha lavorato per i vigili del fuoco in una ditta che aiutava a trasportare le attrezzature, poi si è rotto le scatole ed è andato a lavorare all’A.T.C….[…]. Quando eravamo piccoli ci accennava, ci spingeva molto allo studio, ma io non avevo testa. Non è che non avevo testa, a lui piaceva molto la matematica oltre che le lingue, ma io la matematica sempre zero…lui insisteva: “Voi dovete studiare perché…”, e io gli rispondevo: “Sì, infatti ho visto a te, ti è servito molto studiare…per finire Come detto in precedenza, i problemi di inserimento scolastico di molto ragazzi e ragazze di origine straniera sono stati oggetti di uno studio etnografico all’interno della ricerca P.R.I.N. condotto dalle antropologhe Giovanna Guerzoni e Fulvia Antonelli concentrando l’attenzione sull’Istituo professionale delle Fioravanti ubicato nel quartiere Navile e in corso di pubblicazione. 38 61 a lavorare in fonderia!”. Io ho sempre preso l’esempio di mio padre, lui ha sempre lavorato, ha studiato prima di tutto però non ha risolto niente. Anche mio zio si è laureato in scienze politiche in Marocco, poi è venuto qua in Italia nel 1998 e la sua laurea non valeva niente, doveva rifare gli ultimi due anni, li ha rifatti e sai adesso che fa? Lavora con un meccanico! (Kalhed) La scelta di iscriversi alla Tranvieri per molti ragazzi risponde anche alla volontà di fuga dal contesto lavorativo, scolastico, famigliare dove sentono di essere spesso poco rispettati. La speranza di una carriera sportiva nella boxe è anche quella di un veloce e facile arricchimento attraverso il passaggio al professionismo. Perché io vedo la debolezza e la differenza fra le classi, fra la classe povera e la classe straricca, mi chiedo perché non c’è una via di mezzo, perché non esiste stare bene, o sei nella merda o sei straricco! (Kalhed) La Tranvieri, in questo senso, appare a Kalhed e Anuar, come ad altri pugili di origini marocchine, come un ambiente dove tutti sono trattati ugualmente, durante gli allenamenti; sarà poi il ring a decidere chi è il puigile che merita maggio rispetto. (Wacqaunt 2002) La gente dice che io e mia fratello siamo spacciatori perché ci possiamo permettere la moto, lo scooter, la macchina, ho installato internet e allora tutti i marocchini del quartiere dicono che sono uno spacciatore. Poi sono dei particolari, la gente ti vede vestito bene, mio fratello vestito bene, le tue sorelle che vanno a scuola con le scarpe messe per bene, lo zaino, i libri, e quindi io sono uno spacciatore. Una volta camminavo per strada, lei non mi aveva visto e una signora diceva: “Ah, Kalhed e Anuar sono degli spacciatori, quelli finiscono in galera subito!”. Io l’ho fermata e le ho detto: “Guardi signora, io lavoro nove ore al giorno, mio fratello lavoro undici ore al giorno, e se mi piace una maglietta che costa 200 euro io me la compro perché è una soddisfazione personale, è una cosa che io quando avevo 16 anni non mi potevo permettere, oggi me la posso permettere e quindi me la compro. Se mia sorella vuole una giacca che costa 100 euro io glie la compro perché non voglio che passi la stessa cosa che ho passato io!”. E lei: “Sì sì, raccontalo a qualcun altro, non a me!”. Lei è una tipa anziana che vive sotto di me. Molta gente però pensa questo di me e di Anuar, l’importante è che mio padre non pensi questo, perché erano riusciti a convincere anche mio padre che ero un drogato. È venuto da me e mi ha chiesto se mi facevo le canne. (Kalhed) In questa direzione, la palestra è una finestra per leggere gli immaginari, le rappresentazioni, le pratiche di vita quotidiana di un gruppo allargato di giovani di origine straniera che abitano nel territorio della Bolognina. Attraversando la Tranvieri, per esempio, è possibile leggere i flussi immigratori che hanno caratterizzato negli ultimi enti anni la Bolognina. (Wacquant 2002) 62 Da una parte curioso è come Anuar e gli altri pugili marocchini ostacolino e vedano di cattivo occhio l’ingresso in palestra di ragazzi di origine cinese in palestra. Un cinese che fa pugilato? Questa non l’avevo mai sentita! (Anuar, quando, nell’autunno 2007, si è presentato alla Tranvieri un ragazzo di origine cinese che voleva iscriversi in palestra) Dall’altra parte tutti i pugili di origine straniera della Tranvieri sanno che la boxe è stata veicolo di maggiore integrazione anche e soprattutto in contesti caratterizzati da una forte presenza di immigrati, come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania. Durante la ricerca abbiamo raccolto anche le storie di vita dei boxeurs della prima e seconda generazione che hanno combattuto per la società pugilistica della Bolognina. Quando abbiamo chiesto a Ernesto, che è la persona che da più anni frequenta la Tranvieri, di descriverci i suoi vecchi compagni di palestra, sono emersi racconti e storie di vita non dissimili da quelli degli attuali pugili targati Tranvieri. Parole come “strada”, “cazzotti”, “difficoltà” famigliari e a integrarsi nel territorio, nel mondo del lavoro, ritornano spesso nei discorsi di Ernesto come in quelli di Yassine e Kalhed. Ci sono stati pugili anche qui che valevano molto, mi ricordo ancora Cusma, che abitava nel cortile da me, e l’ho portato io Cusma, che lui mi ha chiesto se poteva venire. Ma io conosco anche i pugili di prima, che erano sempre qui, della zona, come Nobili, Carati, ma anche Stagni, che però non l’ho mai visto combattere. Di Cusma mi ricordo che era un pugile “peso matto”, un fisico eccezionale, un ragazzo di una simpatia incredibile, con una passione per lo sport, che anche la figlia ora andrà alle Olimpiadi. Per me poteva dare molto di più al pugilato, nonostante ha vinto il titolo europeo. Aveva una potenza unica. Poi ha avuto anche una storia tragica, la storia della moglie, anche se non so come è stata la faccenda, che insomma è morta per un incidente al lavoro. Ora abita a Castel Franco, in provincia di Bologna, che se lo volete trovare ora lavora al cimitero. Poi ha avuto altre sfighe. Suo fratello, per esempio, è uno che è cresciuto sulla strada, poi in tutto erano 10, 11 figli. Erano gente un po’ strana, tutti legati, che facevano casini, storie anche di prigione alle volte. (Ernesto) La scuola, spesso, come ricorda Artemio, era considerata una “costrizione”, tempo perso rispetto a quello passato nei luoghi di ritrovo del quartiere. Come per Kalhed e Anuar, che hanno frequentato gli istituti professionali della territorio, anche per Artemio il “mestiere” era meglio impararlo fuori dall’istituzione scolastica. Io ho fatto la prima e la seconda in Sicilia, poi la terza sono andato in Germania, ma là non conoscevo la lingua e mi hanno messo con mio fratello in prima. Poi ho fatto fino alla quarta, solo 63 un mese, e sono ritornato in terza. Insomma, dico sempre a mio nipote che ho fatto tre volte la terza ma non mi hanno mai bocciato. (Artemio) La Bolognina, nei primi anni di Dopoguerra, rappresentava per ventenni come Dante, Ernesto, Albano un territorio tutto da esplorare. I loro genitori, come quelli di Anuar e Marcel, non riuscivano a stargli appresso dopo la scuola. Molti vecchi pugili, in maniera simile a come racconta Kalhed, formarono in quegli anni delle “bande” di quartiere composte tutte da giovani ragazzi, quasi tutti maschi, che passavano il tempo giocando nei cortili, nei parchi, nelle piazze pubbliche del territorio. Poi sono tornato a casa […]. Io ho sempre abitato al 50 di via Barbieri, la seconda casa dopo i carabinieri, che la Bolognina era in quartiere di operai, non c’era gente ricca, che i genitori quando tornavano a casa facevano la conta dei figli. (Dante) La Bolognina, il teatro ideale dove Ernesto, Dante, Albano erano soliti incontrarsi, giocare, commettere delle “bravate” era oggetto di discussione nello spogliatoio maschile quaranta anni fa come lo è oggi per pugili come Anuar e Marcel. Quando Yassine parla nello spogliatoio dei suoi trascorsi con la polizia e la giustizia riceve dai suoi compagni di palestra la stessa approvazione e stima di quando Dante, sotto le docce, raccontava a Ernesto e gli altri compagni di allenamento gli scontri con le Forze dell’Ordine avvenute nel quartiere. Io allora avevo anche un motorino galera, a 14 anni, poi un altro motorino a 16 anni, che me li compravo, a parte il primo, me li compravo io, che magari li aggiustavo, che io ero malato di motorini. Noi andavamo spesso anche a via Barbieri, dove adesso c’è la gelateria, proprio all’incrocio tra via Barbieri e via Fioravanti, dove c’è il semaforo, dove non c’era la veranda che c’è adesso che viene fuori; là c’era un piazzale grande con un ricciolo che lo delimitava, grande, largo, anche un po’ alto, vicino alla palestra alla fine. Allora noi c’avevamo il barista che ci rompeva sempre le scatole e una volta abbiamo preso una macchina e l’abbiamo caricato dentro per fargli uno scherzo, insomma ci divertivamo. (Dante) Le risse e il “fare a botte” erano, per i vecchi pugili della Tranvieri, episodi ricorrenti come lo sono oggi - ad ascoltare le “chiacchiere” di spogliatoio che avvengono quotidianamente tra boxeurs alla Tranvieri. Ancora una volta a spingere i vecchi pugili a usare le mani erano questioni di “rispetto”. Per me è stato molto educativo fare la boxe se ripenso ai miei amici della banda del Chiodo. Se uno mi toccavo la faccia io scattavo su e partivo. Anche quando ballavo succedeva sempre, che ballavo il boogy boogy, e quante risse, anche se non me le cercavo mai. Quando poi sapevano che io ero pugile nessuno mi provocava più. Anche alla sala da ballo dove ho conosciuto mia moglie c’era un mio 64 amico che avete visto in fotografia che c’aveva un grande pugno e un altro che mi ha provocato, ma io ho resistito e gli ho detto che ero pugile. Io ho dovuto fare a botte alle volte per gli altri, che avevano paura, come il mio amico che provocava però poi aveva paura. Io non provocavo ma non mi tiravo indietro. Io andavo a ballare, non fumavo, non bevevo, prendevo l’aranciata e dicevo sempre: “Ma non preoccupatevi della mia mascolinità, pensate alla vostra!”. Io allora giravo con la Prince che era una macchina assurda che la prendevano tutti in giro che non si capiva quale era il davanti e quale era il dietro! Io fino a otto anni non avevo mai alzato le mani su nessuno, poi in Germania ho dovuto farlo perché ero emigrante. Per questo sono andato in palestra per difesa personale, poi ci ho preso gusto, prendevo qualche soldino e andavo a ballare e così ho continuato per un pò. (Artemio) Io l’unica volta, per dire, che ho fatto le botte dopo aver fatto il pugile è stato con i militari, a Torino, ma solo quella volta là. Ora non mi ricordo che se vi devo dire i nomi non me li ricordo, anche con colleghi. Eravamo però alla Marina e c’era un siciliano che leggeva il giornale e gli dico: “Fammi vedere l’ultima pagina che voglio vedere cosa ha fatto Carati!”. Io ero l’unico pugile perché gli altri facevano canottaggio. Mi fa: “Che vuoi? Non mi fai mica paura”. E io: “Allora vuoi fare a botte?”. Così siamo andati giù e abbiamo fatto a botte. (Dante) Artemio, per esempio, ricorda come nel primo Dopoguerra, a Bologna, spesso gli è capitato di sentire alcuni uomini chiamare sua madre, siciliana, una “marocchina”. Una volta l’ex pugile ci ha confessato che si sentì obbligato a venire alle mani con un bolognese che scherzava sulla sua origine meridionale. Alla base dell’unica reazione violenta che ha avuto nella sua giovane vita fuori dal ring Samir, come abbiamo visto in precedenza, vi è stata proprio l’accusa rivolta al pugile di essere un “marocchino di merda”. Io nel ‘39 a sei anni abitavo in via Ferrarese. Qui invece in questa fotografia ci sono i miei amici che ci chiamavamo “la banda del Chiodo”, chissà perché. Ma tutti i miei amici sono morti, che poi avevamo brutti vizi, che a me mi ha salvato il pugilato. Poi queste sono le foto della Germania. Qui c’era mia madre che era “marocchina” nel senso che era di Marsala e qui si dice così. (Artemio) La “doppia assenza” (Sayad 2003) di cui parla Artemio qui in basso, ovvero essere accusato di essere “badogliano” durante l’emigrazione in Germania e poi, una volta tornato a Bologna e finita la Guerra di essere “tedesco”, ricorda quella di pugili come Anuar considerati dai propri genitori troppo poco “religiosi” e legati al contesto di partenza, dentro l’ambiente domestico, e “marocchini”, “altri” rispetto ai propri compagni nel mondo della scuola e del lavoro dove spesso sono vittime di politiche segregazioniste e discriminatorie. La boxe, per Artemio ha rappresentato ieri, come oggi rappresenta 65 per Anuar, uno strumento di difesa e, allo stesso tempo, un mezzo necessario per costruirsi una identità, quella di pugile, che entrambi possono rivendicarsi con orgoglio anche fuori dalla Tranvieri. Io ero welter pesante e in questa occasione che vedete in foto ero uno dei favoriti. Però sono sempre stato sfigato che ho fatto tre combattimenti in ventiquattro ore per vincere i campionati regionali. Io ero troppo tecnico, che non facevo per nulla male, toccavo poco e poi mi mettevo alle corde e stuzzicavo tutti che si incazzavano. Io a otto anni sono andato in Germania, nel ‘41, mio fratello stava là e lo prendevano tutti in giro e ci dicevano “italiano maiale!”. Mio fratello era un po’ pacioccone e un tedesco così ci dice “maiale” e io reagisco. Poi arrivano quattro tedeschi a vendicarsi e io di risse ne ho fatte mille. Prima ci dicevano “Italiani Badoglio!”, poi tornato in Italia ci prendevano in giro gli italiani che ci dicevano “tedeschi”, insomma sempre a botte. Erano ragazzini che mi prendevano in giro in Italia. Così io l’ho fatto sempre per difesa personale e alla fine ho fatto cinquanta incontri, come dilettante, fino alla rottura dei menischi. (Artemio) Quando per esempio abbiamo chiesto a Dante come a Samir quale fosse il loro pubblico ideale, durante le manifestazioni a cui avevano preso parte, la risposta è stata “quello di Piazza dell’Unità”, il pubblico della Bolognina. Questo a dimostrazione di un legame con il territorio e di un desiderio di mostrare il proprio valore alle persone più care comuni alle diverse generazioni di boxeurs che hanno combattuto per la Tranvieri. Anuar, Kahled, tutti i pugili attuali della Bolognina aspettano con ansia ogni anno l’incontro a Piazza dell’Unità. Io credo di essere stato un buon dilettante e poi sono passato al professionismo. Così ho fatto il pugilato dal ‘60, poi ho fatto pugilato in Marina e poi nel ‘68, dopo le Olimpiadi di Città del Messico sono passato professionista e ho smesso nel ‘73, che allora si diventava professionisti, si passava, dopo le Olimpiadi, si andava ad anni di Olimpiadi […]. Poi io non mi tiravo indietro perché c’era sempre il mio pubblico, il pubblico della Bolognina. (Dante) A differenza di Dante e Albano, altri ex pugili della Tranvieri non sono riusciti a diventare professionisti e fare “carriera” come boxeurs. Ernesto, per esempio, che non ha mai combattuto sul ring in gare importanti, ha continuato a venire in palestra tutti i giorni. Durante l’età dell’oro del pugilato bolognese erano molti gli iscritti alla Tranvieri che credevano, o quantomeno speravano, di poter riuscire a diventare dei campioni. Comunque, arrivati a un certo livello, come ricorda Albano, la possibilità di guadagnare qualcosa era reale. Io quando prima facevo guanti con professionisti scappavo che le prendevi di brutto, mica andava così. Prima c’era il mito della forza. Ora ci sono pugili donne come Monia alla Tranvieri che ha due lauree, che fa sia la boxe che la kickboxing, e ha un fidanzato che insegna kickboxing. Non a caso ci 66 sono i campionati universitari di pugilato. Una volta c’era l’ignoranza, solo il babbo e la mamma che venivano e si assicuravano che tutto andava bene. Poi ai miei tempi lo facevi anche con il miraggio dei soldi, anche se io non l’ho mai fatto per quello. Io l’ho sempre fatto in un altro modo, però una volta di pugilato si poteva anche vivere. Anche un pugile non un fenomeno poteva guadagnare dei ben soldini. Io dovevo passare professionista per esempio e dovevo firmare con il supermercato mobili, insomma potevo firmare per due anni per un milione e ottocento e potevo prendere per incontro 250 mila lire a incontro con sei incontri garantiti all’anno, che io prendevo 35 mila lire, 40 mila lire al mese. Poi non sono passato professionista per un problema alla retina. (Albano) Eppure, la maggior parte dei vecchi boxeurs della Bolognina non arrivò mai a lasciare il lavoro, magari quello in fabbrica come Artemio, o quello da postino come Ernesto, per tentare la carriera. Dante, come Albano, pensavano comunque al campione Nino Benvenuti come un caso eccezionale di pugile che “ce l’aveva fatta”; Dante stesso, forse tra i più bravi pugili della sua generazione, non prese mai sul serio l’idea di guadagnarsi da vivere con la boxe. In questo senso i dubbi sul passare da dilettante professionista di atleti come Yassine e Jameel, dubbi giustificati dal fatto che solo un campione internazionale o uno che combatte per la squadra nazionale guadagna qualcosa con questo sport, sono gli stessi di molti pugili della prima e della seconda generazione della palestra. Certo Benevenuti era famosissimo Io ho conosciuto pugili come Benvenuti che guadagnarono molto. Ne ho conosciuti molti di pugili, perché c’era sempre un cameratismo. Del resto c’erano gli operai, certo, che vivevano un mix di pugilato e non, ma poi c’era chi aveva fatto una scelta di vita e quelli divenivano professionisti. (Albano) Come allora, anche per gli attuali iscritti alla Tranvieri la boxe, dal punto di vista economico, è utile solo per fare qualche “soldino”, per sopravvivere conservando comunque un lavoro, magari part-time, come i buttafuori Yassine e Mircea, il postino Anuar, l’elettricista pugile Saro. Quando sono andato a casa il mio allenatore mi ha detto: “Tu sei prima serie e ora passi professionista!”. Così mi ha detto: “Cosa vuoi fare?”. E io: “E’ saltato il menisco, mi sposo e basta!”. Io non volevo fare il professionista, che anche la fonderia era dura. Poi tra i professionisti c’era gente anche più tecnica di me e che aveva delle noci e io no. Un incontro me lo pagavano tremila lire e mille e cento lire si pagava per fare un giorno in pensione. La boxe quindi non mi permetteva di vivere e il mio destino era la fonderia. Io avevo paura a passare al professionismo, che poi in fonderia mi è scoppiato anche l’altro menisco. Io il lavoro l’avevo, ero operaio qualificato, a diciotto anni avevo vinto il campionato regionale, a ventisei anni era specializzato in fonderia. Io sono andato via a 49 anni dal lavoro, dopo 35 anni. (Artemio) 67 Nonostante tutte queste somiglianze, nelle pratiche di vita quotidiane, nel rapporto con il territorio, nell’investimento in termini di carriera sulla boxe, nel difficile rapporto con la scuola e la famiglia, nel modo di comportarsi e relazionarsi fuori dalla palestra quando si diventa pugili, i vecchi boxeurs della Tranvieri non riconoscono più oggi il territorio che abitano come la “loro” Bolognina e fanno fatica a riconoscersi nella nuova leva di pugili che si allenano in palestra. Io per dire ho anche nostalgia di come si viveva allora, che mi ricordo che a mezzanotte si andava tutti a prendere il giornale in stazione che usciva, adesso le cose sono cambiate. Allora, per esempio, non ho mai avuto paura che qualcuno potesse prendermi il portafoglio, adesso via Barbieri - una delle strade della Bolognina più abitata da immigrati, per lo più nordafricani (n.d.a.) - non si riconosce più, è cambiata completamente. (Dante) Proprio partendo da quest’ultima riflessione, conducendo il lavoro di ricerca P.R.I.N. abbiamo pensato di far dialogare alcuni dati emersi dallo studio sui senza fissa dimora con quelli che sono venuti fuori realizzando l’inchiesta sociale. Ancora una volta, in effetti, ex operai come Artemio e Dante non si riconoscono nelle pratiche di vita quotidiane dei giovani boxeurs che oggi si allenano in palestra e producono una visione nostalgica del loro territorio. Portiamo ora nelle conclusioni il frutto di questo dialogo tra studi e ricerche che ho condotto in questi ultimi anni. Conclusioni Molti ragazzi di origine straniera che vivono alla Bolognina che oggi si iscrivono alla palestra di pugilato vogliono sfuggire al mondo della strada, ma soprattutto ai lavori che loro vengono offerti sul territorio; come detto, negli ultimi anni l’Amministrazione comunale ha deciso di ricostruire dalle ceneri delle fabbriche metalmeccaniche centri e attività commerciali, oltre a una rete di servizi legati al terzo settore, anche alla luce del processo di gentrificazione in atto. Tutti lavori tipici del settore manifatturiero degradato e della nuova economia dei servizi, dove, come si lamenta spesso Yassine, bisogna quotidianamente tollerare atti razzisti dal “padrone”, mettere in contro l’umiliazione culturale e la perdita dell’“onore maschile”, come ci ha detto più volte nello spogliatoio Kalhed, se si vuole tenersi stretto il posto; tutte occupazioni che non garantiscono né sicurezza economica né possibilità di ascesa. La palestra, per alcuni pugili come Yassine, spesso appare l’unica speranza e acquisisce senso proprio nel momento in cui, come abbiamo visto, questi ragazzi incontrano difficoltà nel mondo lavorativo. La speranza, spesso senza alcun fondamento, di fare carriera attraverso il passaggio al professionismo è diventata sempre più reale per Yassine, per esempio, ogni volta che il giovane di origine tunisina ha preso coscienza che i lavori che stava facendo altro non gli avrebbero portato che umiliazioni e senso della sconfitta. Spesso, proprio in questi momenti di crisi, che hanno conosciuto, oltre a Yassine, anche pugili come Kalhed e Anuar, ritorna in gioco l’opposizione “rischio”-“lavoro” a cui fa riferimento il 68 sociologo Colombo nella sua monografia (Colombo 1989). Se lavorare significa a malapena riuscire a sopravvivere pagando lo scotto di un’umiliazione dietro l’altra, rischiare vuol dire almeno nutrire la speranza di vivere e di riconquistare il rispetto necessario per sentirsi bene con se stessi (Colombo 1989). Inoltre, come abbiamo visto, la palestra rappresenta comunque un luogo dove costruire capitale sociale e fare amicizie poi rispendibili nel territorio in termini di relazioni, mentre, e sempre più, Saro e Yassine ci hanno detto come, nonostante lavorino da tanti anni, non sono mai riusciti a fare amicizia con nessun loro collega. Nel suo lavoro di ricerca condotto ad Harlem in cui Philippe Bourgois ha studiato gli immaginari e le pratiche di vita di un gruppo di uomini e donne di origini portoricane, lo studioso concentrando la sua attenzione sui lavori che i protagonisti della sua etnografia svolgevano a New York ha denunciato un mercato lavorativo, appunto, sempre più segmentato, che tiene gli immigrati, ma anche parte della forza lavoro autoctona, nei suoi settori più periferici e marginali (Bourgois 2003). Come i ragazzi sotto osservazione da Bourgois, i giovani iscritti di origine straniera alla società della Bolognina pagano, rispetto per esempio agli studenti che hanno iniziato sul finire degli anni Ottanta ad abitare in questo territorio anche per via di affitti più bassi, le loro minori credenziali, una minore conoscenza dei vincoli burocratici, l’incapsulamento all’interno della cerchia migratoria, la scarsa conoscenza della lingua (Bourgois 2003). Tale maggiore segmentazione del mercato del lavoro, fra l’altro, come sottolinea il sociologo Colombo nel suo studio sulle pratiche di vita di un gruppo di immigrati algerini a Milano, riflette una società, quella di approdo, che pubblicizza sempre più nei consumi e non nel lavoro il luogo della propria realizzazione (Colombo 1989). Questo sistema culturale, che mischia in un’opera di bricolage elementi della cultura di strada a elementi dell’ideologia consumistica, agisce come una mappa per l’orientamento dell’azione e come un filtro tra l’azione individuale e i vincoli del contesto sociale, economico e storico. (Colombo 1989) Negli ultimi anni, con la chiusura delle fabbriche metalmeccaniche e la nascita di attività impiegatizie legate al terzo settore registrabile in tutto il territorio della Bolognina a cambiare sono state anche le relazione all’interno del mondo lavorativo; se, per esempio, come ricordano operai come Artemio e i suoi colleghi che abbiamo intervistato durante una inchiesta realizzata dal gennaio 2006 al gennaio 2007 ricostruendo le carriere lavorative degli operai della fabbrica Casaralta chiusa alla fine degli anni Ottanta (Piano b 2008), il rifiuto della subordinazione assicurava a persone come Carati il rispetto dei suoi colleghi e veniva letto all’interno di un mondo lavorativo sempre più sindacalizzato come la fiera coscienza di appartenere alla classe operaia che dava luogo a forme di azione collettiva definite da un progetto e dall’identificazione di una posta in gioco 69 nel lavoro cosiddetto post-fordista queste due componenti del lavoro dipendente si sganciano, dando come esito residuale non il movimento sociale o l’azione collettiva, ma derive anomiche. (Colombo 1989) Inoltre, per quanto la palestra, come abbiamo visto, costituisce anche un rete di contatti necessari a molti ragazzi per trovare un lavoro nel territorio - Ernesto ha trovato un posto alle poste ad Anuar e fa lavorare Fadil per la stessa cooperativa per la quale ha prestato servizio per tanti anni - la difficoltà che incontrano pugili come Kalhed deriva spesso dal fatto che sempre più, nel quartiere Navile e in tutta la città di Bologna, le competenze sociali e relazionali diventano una risorsa centrale dell’economia postfordista, come emerge anche dai lavori di Bourgois e Colombo. Quest’ultimo, per esempio, nello studiare i percorsi lavorativi di un gruppo di immigrati algerini confronta l’attuale realtà lavorativa milanese a quella industriale francese durata fino alla fine degli anni Settanta riportando, nel suo testo, le riflessioni sul mondo operaio di studiosi come Dubet e Lapeyronnie: In una società organizzata attorno all’industria, lentamente gli immigrati trovano la loro collocazione all’interno del mondo operaio. Progressivamente essi si inscrivono nelle lotte sindacali, si appropriano e condividono la coscienza di classe dei propri compagni di lavoro e abbandonano lo statuto di immigrati. La loro integrazione avviene attraverso l’integrazione nella Francia popolare e a volte nella contrapposizione con la destra. Il mondo operaio e le periferie rosse furono un formidabile strumento di integrazione degli immigrati esterni, degli immigrati interni e degli stranieri. Grazie al lavoro operaio, ai sindacati e alla comunità operaia, le periferie rosse poterono assorbire le nuove popolazioni. Il loro declino è il declino di questo strumento di integrazione. Il problema immigratorio è allo stesso tempo conseguenza e cifra di questa decomposizione. (Colombo 1989) “The Game” (1904) è un romanzo breve, che apparve a a puntate sul «Metropolitan Magazine» fra l’aprile e il maggio del 1905: narra la storia di Joe Flamig e del suo amore per Geneviève, la quale dovrà assistere, affranta, alla sua morte infelice, causata sia dalla battaglia che il pugile combatte contro il suo avversario sul ring, ma, più in generale, da una società che non ha ma permesso a Flaming di vivere da “uomo” (London 1994). I due protagonisti del racconto di Jack London sono “aristocratici della classe lavoratrice”, conservatosi sani e inviolati in un ambiente dominato dalla grettezza e dallo squallore. Geneviève ama il suo uomo, il suo corpo sano, la persona forte e protettiva che mai cade in difficoltà. “Duro dappertutto, proprio come qui”, proseguì. “Ora, è questo quello che intendo con pulito. Ogni pezzetto di carne e sangue e muscolo è pulito fino all’osso - e anche le ossa sono pulite. Non acqua e sapone solo sulla pelle, ma pulito fino in fondo. Te lo dico io che ci si sente puliti. Lo sanno 70 anche loro di essere puliti. Quando mi sveglio la mattina e vado a lavorare, ogni goccia di sangue e ogni pezzetto di carne è lì che grida a squarciagola di essere pulito. Ah, te lo dico io”. (London 1994) La storia di London assomiglia molto alle leggende che circolano, dentro e fuori la palestra, su Carati, il “pugile operaio”, il cui corpo perfetto è stato lo strumento che il boxeur ha utilizzato per tutta la vita per farsi rispettare a lavoro e dagli avversarti sul ring. Se, però, concentriamo l’attenzione su come è cambiata in termini di pratiche e di percezione il termine underclass dagli anni in cui combatteva il campione della Tranvieri a oggi, per esempio confrontando la storia del “pugile operaio” con quella dell’”operaio” Saro, oggi capitano della società pugilistica della Bolognina, possiamo analizzare come è cambiato questo territorio e comprendere meglio come si sono formati gli immaginari, le rappresentazioni di molti atleti che, durante il periodo della nostra ricerca, si sono allenati quotidianamente in palestra. Un concetto - quello di underclass - la cui apparente neutralità scientifica condensa in realtà un’attitudine politica di stigmatizzazione della marginalità sociale che ruota attorno alla distinzione tra poveri “meritevoli” e “immeritevoli”. (Wacquant 2000) Wacquant, per esempio, nella sua monografia “Anima e corpo” (Wacquant 2002) sottolinea più volte come, negli ultimi anni, ponendo lo sguardo su alcune realtà metropolitane degli Stati Uniti, Chicago in particolare come abbiamo visto, l’esclusione dall’American way of life delle classi marginali viene imputata a presunti deficit culturali, attitudinali e persino intellettivi che consegnerebbero irrimediabilmente le minoranze povere residenti nell’inner city a un destino di microcriminalità, violenza e dipendenza dallo stato sociale. (Wacquant 2002) Bourgois, il quale, come abbiamo detto, ha rivolto il suo sguardo di ricerca a un gruppo di abitanti di Harlem di origini portoricane, sempre attraverso un approccio materialista e critico ritiene che i processi di disagio sociale, emarginazione, esclusione sociale registrabili che caratterizzano sempre più oggi i ghetti americani possano essere compresi solo a “partire dall’oppressione materiale e culturale che ha connotato la storia delle minoranze negli Stati Uniti” (Bourgois 2003). La Bolognina, però, non è un ghetto né una banlieue, come detto. Eppure, il territorio dover abitano la maggior parte di pugili della Tranvieri dagli anni Cinquanta ad oggi è caratterizzato dalla crescita dell’industria basata sull’information technology, la frammentazione del lavoro salariato, la trasformazione del welfare pubblico a tutti i livelli, municipali, di quartiere, di area urbana. Tutti processi, ricorda Fava nel suo saggio (Fava 2008a) che si sono abbattuti sui ghetti afroamericani e sulla banlieue operaia francese “aggravando notevolmente la condizione dei residenti”. (Fava 2008a) 71 Il ghetto diventa l’iperghetto, dove la segregazione etnica diviene anche di classe, la solidarietà interna si frantuma, con la perdita conseguente de senso del luogo e della sicurezza fisica, divenendo un’area socialmente monotona irrimediabilmente disgiunta dagli ingranaggi dell’economia nazionale e pressoché abbandonata dal welfare pubblico. La banlieue operaia, invece, pur deproletarizzandosi per le chiusure delle industrie e la precarizzazione del lavoro salariato, si etnicizza attraverso la concentrazione d’appartenenze nazionali diverse, che ne fanno un universo sociale eterogeneo, la cui marginalità è attenuata grazie solo a uno Stato che non ha ancora dismesso i suoi interventi. (Fava 2008a) La Bolognina, oltre a non essere mai stata caratterizzata da una presenza etnorazziale, non è mai divenuta un quartiere operaio nelle dimensioni della cintura rossa parigina - le fabbriche metal meccaniche presenti nel territorio non contavano un numero altissimo di operai per quanto distribuissero i loro prodotti ben al di là del territorio locale. Per quanto, inoltre, con l’arrivo dei primi flussi consistenti di immigrati si siano create già a cominciare dalla fine degli anni Ottanta nel territorio aree abbandonate - i capannoni dismessi delle fabbriche sono stati a lungo abitati da immigrati provenienti per lo più dal Nord Africa come abbiamo avuto modo di scrivere - la Bolognina non è certo un territorio abbandonato - all’opposto alcune sue aree, oggi, sono oggetto di un radicale processo di gentrificazione (Piano b 2008). Eppure in questo territorio possiamo leggere, negli ultimi anni, processi simili a quelli riscontrabili nelle realtà oggetto di analisi di Wacquant e Bourgois, ovvero una marginalità avanzata prodotta dalla “ristrutturazione globale del capitalismo” (Fava 2008a) e dalla trasformazione del settore industriale. Leggere attraverso lo studio di queste trasformazioni che si sono abbattute su questo territorio negli ultimi anni le pratiche dei protagonisti della nostra ricercaP.R.I.N. non è possibile, perché sarebbe troppo riduttivo. In questa direzione, infatti, Bourgois tende a precisare come il suo lavoro ha avuto da subito come obiettivo quello, all’opposto, di “ricostruire i processi di significazione soggettiva dell’oppressione” (Bourgois 2003), partendo dal punto di vista di coloro che la sperimentano. Da un punto di vista materiale, infatti, rimanendo al territorio che abbiamo scelto di studiare, è legittimo parlare di “violenza strutturale”, come abbiamo detto (Farmer 2003): con la chiusura delle fabbriche il mercato del lavoro locale sta sempre più emarginando i giovani immigrati che, in alcune aree del territorio, raggiungono il 25% della popolazione complessiva residente, relegando persone come Fadil ai margini dell’economia dei servizi; dai racconti di Saro e Yassine negli spogliatoi, per esempio, emerge sempre più l’esistenza di nicchie del terziario dequalificato dove questi ragazzi trovano lavoro ma sono trattati come “servi” - come dice Wajdi. Kalhed, Samir, Anuar ci hanno parlato in più di un’occasione degli istituti professionali della Bolognina dove studiano e della nascita di vere e proprie classi differenziate per immigrati nel territorio. Sempre dalle parole di Martin e Erzan emerge il legame 72 sempre più stretto tra questi istituti e il carcere minorile di Bologna, ubicato nel centro cittadino dentro questo carcere passano ragazzi di origine straniera che studiano alle Fioravanti e frequentano la Bolognina, il cui numero sta diventando sempre più significativo. Infine, le nuove leggi italiane del 2008 in tema di sicurezza (Wacquant 2000) sconsigliano sempre più i genitori di ragazzi come Anuar e Fadil, e gli stessi pugili che si allenano alla Tranvieri maggiorenni ma con un lavoro non in regola, di recarsi alle strutture ospedaliere comunali, nel caso avessero necessità di cure, poiché qui potrebbero venire denunciati dal personale ospedaliero, dai medici stessi curanti. Ma, e questo è un altro punto di contatto con il lavoro di Bourgois, quello che denunciano Yassine, Saro, Fadil, kalhed è un altro tipo di potere, un’alrta violenza, “simbolica”39 in questo caso: come scaricatori di frutta nei mercati locali, fattorini, postini, aiuto elettricisti, come abbiamo avuto modo di vedere, alcuni ragazzi della Tranvieri riescono anche a sopravvivere. Quello che maggiormente lamentano, però, spesso anche alla fine di un duro allenamento in palestra e con sulle spalle la fatica di una mattinata lavorativa, è il modo in cui vengono trattati da datori di lavoro e colleghi. Nei grattacieli di Manhattan o Wall Street, i giovani neo-impiegati dell’inner city si rendono improvvisamente conto del fatto di sembrare dei buffoni idioti agli uomini e alle donne per cui lavorano […]. Inabissandosi nell’economia sotterranea e aderendo orgogliosamente alla cultura della strada, vanno in cerca di un’alternativa alla marginalizzazione sociale cui sono destinati. (Bourgois 2003) Da una parte, allora, molti ragazzi nelle stesse condizioni di Yassine e Kalhed rinunciano a cercare lavoro, e, come ci ha dimostrato Colombo nella suo studio, trovano in attività illegali una fonte di reddito e una pratica che li fa sentire rispettati; dall’altra Fadil, Erzan, Anuar per evitare di trovarsi dentro queste reti microcriminali entrano in palestra nella speranza di intraprendere una carriera pugilistica che li spinga lontani da questi mondi che provocano solo umiliazione quotidiana. I residente dell’inner city sono molto più che semplici vittime delle trasformazioni economiche o della discriminazione istituzionalizzata da parte di n sistema politico ed economico perverso. Essi non accettano passivamente il loro destino di cittadini di quarta classe. Combattono con determinazione […] per guadagnare denaro, ottenere rispetto e condurre vite che abbiano qualche senso. (Bourgois 2003) La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominate - quindi al dominio - quando, per pensarlo e per pensarsi o, meglio, per pensare il suo rapporto con il dominate, dispone soltanto di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questo rapporto come naturale. (Bourdieu 1998) 39 73 Se assumiamo come imperativo della ricerca etnografica quello, come ci suggerisce Bourgois, di “di ricostruire il significato che determinate pratiche sociali rivestono dal punto di vista di coloro che vi sono coinvolti” (Bourgois 2003) è evidente come ogni ragazzo della Tranvieri reagisce in modo diverso a queste trasformazioni oggettive che sempre di più, anche alla Bolognina, stanno comportando il restringersi del ventaglio di possibilità che i protagonisti della nostra ricerca hanno davanti loro. La stessa palestra è vissuta da alcuni, come abbiamo detto, solo come rifugio, da altri come luogo dove riscattarsi, da atri ancora come teatro dove “vendicarsi”, come ci ha detto lo stesso Kalhed. Il pugilato, inoltre, offre a questi ragazzi un linguaggio non troppo distante da quello della street culture che sempre più caratterizza i comportamenti dei loro amici che frequentano nel territorio. Tito insegna qualità come il coraggio, la resistenza, la virilità, il senso del gruppo, virtù che Kalhed, per esempio, vive anche come una riappropriazione simbolica di quelle qualità “culturali” che hanno caratterizzato la sua vita in Marocco. Tito e Sante, infatti, spesso non fanno altro che disciplinare e rendere funzionale all’impresa sportiva capacità di difesa e di coraggio che gli iscritti in palestra hanno acquisito in strada. Se Artemio e Carati, giovani, trovavano nella fabbrica un’opportunità e economica ed insieme la possibilità di conquistare rispetto e dignità attraverso la pratica lavorativa, Yassine e Saro sono consapevoli che se vogliono sopravvivere dal punto di vista economico dovranno subire ogni giorno le ingiustizie di cui sono responsabili i loro colleghi e i loro datori di lavoro. La boxe, allora, torna in considerazione, anche quando, come nel caso di Yassine, non si è più giovanissimi per sperare in una carriera folgorante, perché potrebbe permettere un grande guadagno senza pagare nessuna umiliazione. 74 Bibliografia Addarii, F. (2004), I santi sono tornati. Una riforma culturale imposta alla città, in “Gomorra”, anno IV, n°7, Meltemi, Roma Ambrosini, M., Molina, S., (a cura di) (2004), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, Torino Anderson, Nels (1923), The Hobo, Chicago University Press, Chicago; trad. it. 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