La Sambucina: romito d`antica fede
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La Sambucina: romito d`antica fede
Capitolo XIII La Sambucina: romito di silenzio e preghiera Nella Media Valle del Crati, molto rinomata e frequentata è l’Abbazia Cistercense della Sambucina. Qui ogni anno, oramai da secoli, per volontà dei monaci cistercensi si celebra la festa in onore di Maria Santissima Assunta in Cielo. Un appuntamento fisso, non solo per centinaia di fedeli locali, ma soprattutto per le migliaia di emigranti che sentono la necessità ogni anno di adempiere al religioso ‘voto’, volendo respirare la surreale atmosfera della Sambucina. Come di tradizione, inizia il primo agosto di ogni anno la quindicina in onore della Beata Vergine, che ai monaci (altre fonti parlano di un pastorello) cistercensi d’inizio millennio apparve tra i verdi arbusti di un sambuco. Il vegetale prospera tutt’ora intorno all’Abbazia ed il cui bianco e profumato fiore detto “u majiu” è molto usato sia nella fitoterapia locale che in cucina. Nel lento ed afoso pomeriggio di ogni giorno, la gentile e melodica campanella dell’ormai rifatta torre, a devozione della famiglia Crocco nel tardo ottocento, richiama come dieci secoli fa serenamente i fedeli del popoloso villaggio montano. I rintocchi frenetici ed insistenti dell’anziano parroco don Oreste Ripoli, si odono nel silenzio della lussureggiante vegetazione, al di là dei vasti possedimenti monastici, fino a giungere alle comunità d’oltre valle come Covate, Malacera, Immilano. Lentamente, soprattutto anziane donnette, con passo lento ed impacciato e con la corona del rosario in mano rispondono all’accorato appello sbucando dai diversi viottoli che costellano l’antico complesso abbaziale e procedono a capo coperto con lo sguardo basso, verso l’antico tempio. Avanzano claudicanti, e avvertono annusando, oltre agli odori di umido provenienti dai circostanti anfratti, il sopraggiungere del delicato e prezioso incenso, recitando lodi e sentite preci. Una scena di manzoniana memoria si presenta dunque dinanzi agli occhi del visitatore occasionale, che non potrà non rimanere estasiato ammirando anche lo spettacolo di una natura tutt’intorno ancora incontaminata e magicamente catapultata all’anno mille. Sul far della sera, il bagliore bianco della pietra tufacea si ammansisce un poco, diluendosi in riflessi rosati, che tuttavia non attenuano la superba severità del suo portale. E’ l’ora in cui le rondini la cingono d’assedio e con forti squittii ne celebrano il trionfo, immutato nei secoli. E’ l’ora migliore per camminarvi intorno, mentre nell’aria che odora di fieno, lasciandosi alle spalle i rumori della natura che va a riposo, si stempera il brusio placato del giorno. Si è conservata intatta per secoli, dagli abitanti del posto, la nostalgia per questo luogo incantato, abbarbicato su di un dolce e lungo pendio ai piedi della Sila, dal quale si può ammirare, soprattutto quando gli alberi sono nudi e spogli, la Valle del Crati ove sorgeva la mitica Thebae Lucana. E quando la notte scende, al termine della ricca quindicina, si ode solo l’eco delle preci, dei canti, delle salmodie che rimbombano solitarie per la valle; e le cicale, vivaci e irruente, fanno a gara per rompere il silenzio delle nostalgiche tenebre. Una tenue brezzolina si alza da occidente e giunge a ricordarti che l’estate sta finendo, per lasciare il posto all’autunno triste e melanconico. Ma ancora lì, a ridosso del querceto dalle foglie tremule ed argentate, la luna fa timidamente capolino, sono forse, le ultime dolci cullate di una stagione che oramai si congeda. Alla fine di Agosto, molti emigranti rivolgono già il mesto saluto agli amici, ai parenti, e per ultima (non per minore importanza, ma per rimarcare maggiormente il ricordo) alla Madonna dell’Assunta perché li protegga durante il lungo viaggio di ritorno, verso quelle città a loro non più ostili ma ancora estranee, e che gli procurano pane e lavoro. Nonostante questo viaggio, molto probabilmente del non-ritorno, il loro cuore rimarrà per sempre comunque legato a questi boschi, a queste vecchie pietre, a questi straordinari tramonti, mescolandosi ad un dolce alito che vola abbracciato al caldo vento dell’estate. Anche la Vergine, per pura coincidenza, o forse perché questo era l’intento dell’artista che l’ha scolpita, sembra salutare con la sua eburnea mano, ed indicare solo il cielo quale meta di definitiva pace e felicità. E’ ormai adulta, la piccola Barbara, che un tempo scorrazzava con la sua gialla bici liberando al vento i suoi biondi e fluenti capelli. Si abbandona sorridente, a ripetute giravolte, ondeggiando e sfidando i pochi ragazzini che l’ammiravano per la sua già precoce signorilità. Aldilà del recinto, immutato negli anni, un magnifico pergolato di glicine, che oltre a difendere dalla calura estiva, allieta la sosta emanando un delizioso profumo. Pianocavallo, la maestosa e verdeggiante montagna che domina superba su quelle che erano le antiche officine dei cistercensi, conserva gelosamente il ricordo di un passato che ad ogni occasione si ridesta e ritornano in mente le gesta, i riti e le antiche mansioni. Questo monte, silente e verdeggiante, si erge a testimone del tempo che scorre lento ma inesorabile, è la “serratura” tutt’ora, di una porta alchemica per poter scoprire il passato di questa zona. Quando si scende a valle, si avverte la fiamma dell’estate che ti assale e ti accalda, sciogliendo cose e colori, l’aria è afosa, tremula. Ma quando si risale verso Badia, tutto si rischiara, ti accoglie benefica la frescura, e gli elementi cromatici disegnano nettamente la geometria dei paesaggi, e soprattutto nel tempo di primavera, quando il cuculo canta, diffondendo dolci e rinnovati suoni. Lì, in mezzo alla concava radura sorge il Santuario, che a prima vista potrebbe essere scambiato per un vecchio casolare; ma l’artistico ed elaborato portale fugano ben presto ogni dubbio, a testimonianza di quel che resta di una remota e gloriosa comunità religiosa, i cistercensi, che applicavano alacremente il motto di San Benedetto da Norcia Ora et labora. La straordinaria disinvoltura e precisione tecnica, la vigorosa freschezza con cui i monaci costruivano un catino absidale o arrotondavano una volta, mediante la semplice giustapposizione di pietre grezze, è ancora oggi sorprendente se si ammira il superbo portale. I monaci, nel corso dei decenni, avevano appreso dai maestri comacini lombardi la tecnica di lavorare il tufo, escogitando sistemi originali per realizzare i portali. Quello della Sambucina (Alto m. 6,30 e largo m. 5,10), unico nel suo genere in Italia, è dispiegato in tutta la sua originalità da un decoro architettonico scandito da pietre incavate e lesine, collegati nella parte superiore da festoni di piccole arcate pensili triplicate con una particolare strombatura, e con particolari fregi decorativi; vi è inoltre una fila di denti di sega e composizioni più raffinate a denti di ingranaggio che si interpongono tra la cornice marcapiano e l’estradosso delle archeggiature. Leggermente accennati sono altri motivi vegetali a collarino e a volute. Quella ammessa da Bernardo, è un’arte depurata, regolata dall’armonia dei numeri e delle proporzioni nel solco della tradizione filosofica che fa della matematica lo strumento della creazione divina. E’ un’arte in cui il silenzio e la luce sono immagini immateriali della perfezione divina, in cui i volumi puri, nati dall’assemblaggio delle pietre tufacee conducono alla percezione globale della geometria celeste. Il rifiuto dei colori forti e saturi e delle sculture, rappresenta la forma positiva di una scelta che, attraverso il superamento delle forme più immanenti, conduce alla trascendenza. Secondo gli storici, dal duecento al settecento l’Abbazia Cistercense della Sambucina era centro di gravità della cultura meridionale, Casamari fu una sua costola qualche decennio dopo mediante una bolla di Celestino III° ponendola alla diretta dipendenza della Santa Sede il 6 maggio 1192. È interessante ricordare che dalla Sambucina nacquero e dipendevano successivamente le seguenti abbazie: Corazzo (Cz) 1157, Nucaria 1168, S.Spirito di Palermo 1172, Roccadia 1176, S.Maria delle Terrate 1178, Ligno Crucis tra Acri e Corigliano 1183 (Essa divenne una grangia atta alla produzione di latticini, pellame e panni di lana), Mattina 1185, Archicenobio forense 1189, Gàleso 1190, Acquaformosa 1197, Sagittario 1202, Duomo di Cosenza 1204, S.Angelo in Frigido 1220, S. Maria della Consolazione, 1295. Divenne inoltre luogo di mirabili attività economiche ed artistiche, (si pensi ad es. che le officine della Sambucina erano talmente ben organizzate e numerose che qui con maestria si praticava la delicata copiatura dei codici, la realizzazione di farmaci attraverso lo studio e coltivazione di erbe, la lavorazione artistica del legno, si erano poi specializzati anche nella lavorazione del tufo, nella realizzazione di impianti idrici, loro per primi portarono l’acqua corrente al monastero e poi giù fino in paese) ma era soprattutto un luogo di meditazione, ove l’Abate Gioacchino da Fiore “...di Spirito Profetico dotato” così definito da Dante Alighieri nel Canto XII° della Divina Commedia, per circa tre anni meditò sui cerchi concentrici dell’avvento del Terzo Regno. Dopo quello del Padre e del Figlio, egli profetizzava il sopraggiungere di una terza era per i popolo cristiano, e cioè dello Spirito. A queste, ed a ben altre conclusioni teologiche vi giunse proprio durante la sua lunga sosta in Sambucina, dove condusse anche alcune interessanti dispute teologiche con Pietro Lombardo, celebre Magister Sententiarum. In Sambucina nel 1335, venne anche il veggente Telesforo, il quale ebbe la visione dell’Angelo dalle ali d’oro nella Pasqua del 1337. Telesforo s’immerge nello studio dei veggenti calabresi e dalle loro opere attinge la luce rischiaratrice dell’avvenire scrivendo il “De Magnis tribulationibus futuris Ecclesiae” opera che lo rese famoso. In Sambucina sarebbe venuto a trovare pace anche il giureconsulto bolognese Francesco D’Accursio. Inoltre, avrebbe visitato la Sambucina, anche l’Imperatore Carlo V nel 1539 (la notizia verrebbe tratta dal Marchese da uno schedario esistente nell’archivio Sanseverino). Mentre si trovava a Cosenza, ospite dell’Università, l’Imperatore, per invito del Principe D. Scipione Sanseverino, si recò nel castello dei Licij a Luzzi recandosi anche in Sambucina retta allora dall’Abate commendatario Ferdinando Caracciolo. A ricordo di tale avvenimento il Principe di Luzzi e di Rose D.Scipione Sanseverino, fece costruire a spese sue e dell’Università dei due paesi, un’acquedotto nel luogo detto Chitirano sotto la direzione del monaco Magister Antonius Piscicellius, amministratore della Sambucina e vi fece murare degli stemmi. Dai documenti si evince che l’Imperatore Carlo V dopo la visita a Luzzi si recò a Bisignano. La fondazione dell’Abbazia cistercense della Sambucina è legata alla vicenda di Papa Onorio III alla cui morte erano stati eletti altri due Papi: Innocenzo II e Anacleto II. Quest’ultimo appoggiato dalla maggioranza dei cardinali aveva chiesto aiuto al normanno Ruggero II. Questi aveva invece dalla sua parte il re Lotario di Germania, ma soprattutto Bernardo di Chiaravalle, che nel sinodo di Etampes del 1130 si era schierato decisamente a suo favore. San Bernardo aveva un atteggiamento ostile contro Anacleto II, sia perché di discendenza ebraica, nel medioevo poco stimati, sia perché proveniva da Cluny, monastero che San Bernardo detestava a causa delle grandi ricchezze li accumulate, e per lo spirito di mondanità con cui vivevano quei monaci. Solo nel 1139 con la pace di Mignano e dopo la morte di Anacleto II si venne a capo della controversia. Innocenzo II accettato da tutti come unico Papa, riconobbe a Ruggiero il titolo di Re di Sicilia e la giurisdizione su tutta l’Italia Meridionale. Dopo queste vicende San Bernardo aveva scritto a Ruggiero una lettera con la quale si congratulava per essere stato riconosciuto Re di Sicilia, e Ruggiero a sua volta aveva invitato San Bernardo a fondare un monastero nelle sue terre. Infatti Bernardo abate di Clairvaux prima di morire il 20 Agosto del 1153, inviò personalmente alcuni monaci in Calabria i quali scelsero Luzzi tra il 1135-1141. I lavori, veri e propri, poterono iniziare grazie ad una donazione di Goffredo di Loritello, conte di Catanzaro. A questa conclusione è giunto il famoso storico medievalista Jean Leclercq (confutando radicalmente la tesi di Alessandro Pratesi che fa risalire la data della fondazione della Sambucina al 1160) mediante le lettere, ed esattamente la n°208, che San Bernardo inviò a Ruggero II re di Sicilia, mediante le quali si stabilivano le condizioni per la fondazione dell’Abbazia della Sambucina che risulta essere il primo insediamento nel Mezzogiorno d’Italia a partire dal 1141. Le affermazioni di Jean Leclercq sono suffragate dalla donatio pro anima che Berta contessa di Loritello, madre di Goffredo conte di Catanzaro e di Conza, fece nel dicembre del 1145 alla nuova chiesa di Santa Maria di Requisita/Sambucina, allora in costruzione, e per essa all’abate Sigismondo e alla comunità da lui presieduta. Infatti il conte Goffredo non potè vedere l’ultimazione dei lavori, i quali furono sorretti dalla madre Berta e dai figli, Guglielmo e Tommaso, che egli aveva avuto da Clemenza signora di Luzzi. Berta non fu comunque in grado di garantire il sostentamento dell’Abbazia, che venne in seguito alimentata grazie alle donazioni di Guglielmo II, Costanza d’Altavilla e di Federico II. La prima comunità monastica sarebbe stata composta da monaci che san Bernardo inviò dall’Abbazia spagnola di Moreruela, nella diocesi di Zamira, ivi presenti già dal 1132 dove rifondarono un’abbazia benedettina. Dopo i gravi danni subiti dal terremoto del 1184, la Sambucina fu ripristinata dai monaci di Casamari dai quali in seguito dipendeva. Essa sorse dunque, in un luogo strategico, al centro dello stato normanno, presso una chiesa filiale – S. Maria Requisita Nucis del sec. VIII – uno dei più antichi monasteri benedettini, non lontano dall’antica via romana volgarmente detta via Popilia, che si snodava da Capua a Reggio Calabria, e a metà strada circa tra Napoli e Palermo. In base ad alcuni lavori di scavo si è tentato di ricostruire la probabile pianta completa dell’Abbazia della Sambucina il cui tipo sembra richiamare la Chiesa di Fontenay in Burgundia, considerato il modello della più antica architettura dei Cistercensi. Sembra che, solo le due arcate di apertura tra la crociera e gli antichi bracci, appartengono ad un tempo successivo alla seconda metà del secolo XII. Guglielmo di Saint-Thierry, il primo biografo del santo Bernardo scrive “Egli ebbe come unici maestri le querce e i faggi” e Bernardo stesso nel 1138 all’abate di Vauclair scrive: “Credi nella mia esperienza, nel bosco troverai qualcosa di più che nei libri, gli alberi e le rocce ti insegneranno ciò che non puoi imparare da alcun maestro”. Il posto bisogna dire rispondeva pienamente alle aspettative dei cistercensi, era solitario, abbondante di una fittissima vegetazione, ricco d’acqua corrente, i cui tratti intorno sono ancora ben visibili. Gli insediamenti si fecero tramite i vescovi o i signori del luogo e la Calabria si popolò dunque dei monaci di Citeaux, agli inizi del 1140. Il capitolo generale di qualche tempo dopo decretò che al momento di una fondazione due abati definissero con cura ogni particolare e verificassero se i luoghi ceduti in vista della fondazione, presentavano tutte le condizioni volute dalla Regola e dagli Usi: se la o le donazioni bastavano per il mantenimento della comunità; se il vescovo non si opponeva al sorgere di questa nuova abbazia, e dovevano assicurarsi che vi fosse la solitudine più assoluta. Il monaco è solitario, l’abitante del deserto, l’uomo della fuga mundi, l’innamorato del silenzio, per l’amore di Dio, e di Dio solo. Le visite dei luoghi fatte dagli abati, erano molto rigide a riguardo. Si vedono abati severamente puniti per aver trasgredito questa legge e edificare essi stessi le loro fondazioni. L’abbazia bisognava che avesse il minor contatto possibile con l’esterno, e i paraggi immediati dell’abbazia propriamente detta erano occupati da giardini e da terre coltivate. La pianta di un’abbazia cistercense, detta pianta bernardiana, si presenta strutturata in un organismo complesso ed autosufficiente, con disposizione articolata e pratica degli edifici, essa prevedeva che l’intero fabbricato, eccezion fatta per la foresteria, l’infermeria, e le stalle, ruoti intorno al chiostro, cuore del monastero. I cistercensi, si ispirarono comunque anche ad un modello, quello benedettino naturalmente, che l’imperatore Ludovico il Pio, fra l’816 e l’830, adottò come universale, creando una sorta di schema teorico. Questo disegno rappresenta la sistemazione esemplare dello spazio cenobitico. Al centro di questo complesso teorico è stata posta la chiesa, punto di congiunzione fra la terra e il cielo: qui si opera il legame con il paradiso, quando la comunità si riunisce per adempiere alla sua funzione più importante, cantare le lodi di Dio all’unisono col coro angelico. A sud dello spazio liturgico è collocata la residenza della comunità. La sua configurazione è simile a quelle della città antica: una corte interna addossata alla chiesa; su un lato la cantina, le provviste di cibo, la cucina, la panetteria; sull’altro il refettorio, sormontato da un ripostiglio per i vestiti. Riguardo alla cantina Giuseppe Marchese scrive nel 1932 che “Un cinquant’ennio fa esisteva in Sambucina una vasta cantina e fra le moltissime botti ve n’era una di proporzioni mastodontiche che i monaci ed il popolo luzzese appellavano << Botte della Maddalena >> che sembra sia sopravvissuta fino al 1880 circa. Nelle notizie di Cesare Firrao alla fine del seicento quest’ultima è descritta così: “Tiene assai circhi di legno et altre arnature fatte di legno, e le sue duve sono tutte lavorate di travicelli lunghi e grossi et anche li fondi, con un usciolo molto largo più di un’huono. Il netto di dentro del vasellone è di nove brazza di lunghezza e palma dieze. Li fondo è largo per diametro brazza sei e mezza; la panza nel mezzo brazza sette e mezzo e palme due e circonferenza brazza ventitrè e palme quattro”. Quindi le misure della botte risulterebbero essere orientativamente: altezza m 5,68; diametro del fondo m. 3,38; diametro della parte centrale m 4,40; circonferenza m 13,22. Alla fine del XV secolo era stato notato che i vini contenuti in botti grandi, si conservavano più a lungo di quelli serbati in botti più piccole. La ragione per cui si verificava tale circostanza consisteva nel fatto che nelle botti grandi il quantitativo di vino esposto all’aria era minore rispetto al totale contenuto nella botte, si riduceva così il tempo in cui il vino andava trasformandosi in aceto. Si era ancora osservato che se si aveva l’accortezza di non travasare il vino e lasciare costante il livello con aggiunte adeguate dopo ogni prelevamento, il prodotto contenuto in quelle botti si manteneva inalterato per più di un anno. Infine, sul terzo lato, fiancheggiata dai bagni e dalle latrine, una sala su cui, al primo piano, si trova il dormitorio che comunica con la chiesa; attigua a questa dimora, un’ampia distesa di accessori per la produzione agricola e artigianale: giardini, granai, scuderie, stalle, laboratori, capanne dei domestici. A nord, oltre la chiesa, a cui è ugualmente legato, si colloca l’alloggio del padre, dell’abate, una casa corredata della propria cucina, della propria dispensa, del proprio bagno. A nord-est, temporaneamente esclusi dalla comunità fraterna, i malati e i novizi, sono riuniti in un’altra dimora, anch’essa automa, ma divisa in due, perché il locale adibito alla somministrazione dei purganti ed ai salassi si trova ad essere confinato all’angolo estremo; infine, presso la porta a nord-ovest, gli estranei ammessi a penetrare nell’abbazia sono ospitati in due case munite dello stesso equipaggiamento completo; la più vicina alla casa dell’abate accoglie i visitatori di riguardo e gli studenti esterni, che non fanno parte della famiglia; l’altra, dal lato dei frati, è riservata ai poveri ed ai pellegrini. Una tale organizzazione intende riflettere le strette gerarchie della corte celeste. Al centro il posto di Dio, il santuario; alla sua destra, nel prolungamento del tratto nord del transetto, il posto dell’abate, isolato: capo della famiglia egli è collocato in alto, da solo, su un piano superiore; a sinistra dell’Onnipotente, al terzo posto, è situato il corpo della parentela, i figli, tutti fratelli, tutti uguali, i monaci, che corrispondono agli angeli e formano, come questi, una milizia, una guarnigione mantenuta da un servizio domestico legato al suo refettorio, poiché l’ideale è l’autarchia, l’autosufficienza; nel punto più lontano della porta, questo spiraglio aperto sul mondo corrotto, sono raccolti gli invalidi e i giovani che hanno subito un’arresto di sviluppo. Le tombe, secondo sempre questo modello, sono collocate verso l’est, dal lato dell’alba, simbolo della risurrezione, e che verso l’ovest, dal lato dove il sole tramonta, che è il lato della perversità, restano sistemate le persone di passaggio. La riforma cistercense voluta da Bernardo si fondava su austeri principi, ma che nel corso del tempo furono distorti o negletti. Bernardo per i suoi monasteri voleva costruzioni a pianta semplice e standardizzate, un’architettura spoglia ma funzionale, e senza decorazioni che lui definiva “piacevoli, costose, futili, e profane” anche se il tutto doveva essere comunque fondato su un modello umano e tuttavia in grado di condurre alla trascendenza divina grazie alla perfezione delle sue proporzioni, e costruita con materiali tangibili e basata su valori fondamentali del silenzio e della luce. Che la Sambucina sia ancorata direttamente alle indicazioni di San Bernardo lo attesta anche lo stile, in quanto non compare assolutamente il gotico. L’ideale cistercense inoltre, definito progressivamente attraverso continui ritocchi, deriva da una lettura critica della Regola benedettina adattata alle nuove condizioni del mondo feudale e più consona alle aspirazioni dei contemporanei in quanto rivolta alla ricerca della solitudine e della povertà. Intatte o in rovina, le abbazie cistercensi suscitano un’ammirazione che nasce dalla loro perfezione funzionale ed estetica; città ideale, il monastero risponde anzitutto ai bisogni di una città isolata dal mondo. Secondo i termini della Regola “se possibile, il monastero sarà costruito in modo tale che tutto il necessario, cioè l’acqua, il mulino, e l’orto sia all’interno di esso e che i diversi mestieri vengano svolti lì, perché i monaci non siano obbligati a uscirne, il che non conviene assolutamente alla loro anima”. Bernardo inviò i monaci in Calabria, con il chiaro intento di fondare un monastero dove introdurre pratiche di lavoro manuale non in base a considerazioni economiche, ma per volontario esercizio di virtù e di sottomissione, vietando in modo esplicito ogni aumento della dotazione iniziale del monastero. Tutto doveva servire al sostentamento della comunità, il sovrappiù doveva essere condiviso con i bisognosi. Ma ben presto anche il monastero e i monaci della Sambucina si trasformano in proprietari di immensi latifondi riscuotendo decime e taglie, e dove si percepiscono rendite e diritti feudali. Le grange (dal latino granum) erano ad esempio luoghi dove venivano ammassate considerevoli quantità di fieno o di grano o altra necessità. Una di queste si trovava tra Acri e Corigliano presso il Legno Crucis. Ben presto vengono assunti uomini di fatica e salariati per affiancare monaci e conversi. Quest’ultimi, erano persone che sfuggivano alle dure servitù della gleba, alle angherie e ai soprusi dei feudatari, desiderosi di trovare, nella pace dei chiostri un tozzo di pane sicuro e la pace dell’animo. Questi, quasi-monaci, facevano dedizione di se nelle mani dell’abate e s’impegnavano a vivere nell’ambito della comunità monastica in obbedienza, povertà e castità sgravando i monaci di tanti affari a loro non pertinenti, in quanto questi dovevano dedicarsi alla preghiera, alla liturgia e allo studio, e demandando invece ai conversi il compito di gestire le proprietà fondiarie, di curare l’allevamento del bestiame, di seguire le attività manifatturiere; ad essi si dava un’istruzione religiosa, dovevano osservare il silenzio monastico ma i digiuni loro imposti erano più leggeri ed il riposo notturno più lungo, ciò permise ai Cistercensi di continuare a vivere delle proprie mani. All’interno del monastero inoltre i poveri, trovavano accoglienza soprattutto all’ora del desinare. Vi erano dunque pasti regolati per i poveri, colazioni sempre pronte per i viandanti bisognosi, ospitalità per i malati e per i vecchi indigenti. Il granaio era sempre a disposizione per soccorrere la popolazione dei dintorni, in caso di carestia. La convivialità, all’interno del monastero, era concepita secondo il modello cluniacense. Essa s’incentra intorno alla persona dell’abate, ormai integrata alla comunità che dirige, da cui non si separa più né per il riposo né per il sonno; malato, l’abate raggiunge gli altri malati all’infermeria; si assoggetta come gli altri al suo turno di lavoro in cucina. Si afferma qui una prima caratteristica: la volontà rinsaldata dello stare gomito a gomito, il timore dell’isolamento: la vita privata è divenuta talmente gregaria che il capofamiglia non dispone più di un luogo dove starsene in disparte. In compenso si sono accentuati i segni di deferenza nei suoi confronti. Quando arriva o si ritira, tutti si alzano; tutti s’inchinano al suo passaggio; nel refettorio, davanti a lui, sono collocati due ceri e, quando va in chiesa o nella sala capitolare, per la riunione quotidiana, uno dei suoi figli porta un lume davanti a lui, altrettanto dicasi se deve spostarsi di notte dentro il convento. Al ritorno dai suoi viaggi , tutta la comunità, schierata, gli si presenta; all’ingresso della chiesa, bacia i monaci, gli uni dopo gli altri, e in refettorio quel giorno è servito un piatto di più; d’altronde, a tavola, è trattato diversamente dagli altri: gli si portano vivande più raffinate e del vino migliore. Tiene sotto la sua esclusiva autorità, governandola da sovrano, tutta la società domestica. Tuttavia non la governa da solo. Una equipe lo assiste,un corpo intermedio da cui deve prendere consiglio, costituito da quelli che le raccolte, dove sono registrate le consuetudini, chiamano seniores, con una parola che mette in luce questo tratto importante della socialità interna, la necessaria subordinazione dei giovani agli anziani. L’abate si appoggia d’altra parte su dei capi servizio, degli ufficiali. Il primo, il prior, è una specie di vice signore che fa in tutto e per tutto le veci dell’abate quando questi non è disponibile. Sotto di lui stanno i responsabili dei quattro settori. La chiesa è affidata al sacrista, che la apre e la chiude alle ore stabilite, veglia sugli accessori liturgici e su tutti gli strumenti del sacro di cui la comunità fa uso per adempiere alle sue funzioni specifiche. Al cameriere è affidato ciò che si conserva nella parte più interna della casa, nella camera; è dunque responsabile del denaro e di ciò che il denaro procura, è lui che rinnova ogni primavera le vesti dei monaci e, ogni autunno, alla vigilia di Ognissanti, il loro pagliericcio e quanto occorre per il letto; fornisce i ferri per i cavalli, i rasoi, e provvede all’illuminazione, eccetto che in chiesa. Ciò che concerne il victus, i viveri, e che normalmente è prodotto dalla terra della proprietà, riguarda il cellerario; sovrintende alla dispensa, dove dorme un monaco e dove si tiene in permanenza un lume acceso, fa ogni giorno le porzioni di cibo, con l’aiuto del monaco che ha in custodia il vino e del monaco che ha in custodia il grano (questo è anche incaricato dell’acqua, quindi del bucato). Le relazioni con gli estranei, meno puri e in posizione d’inferiorità rispetto alla dignità monastica, costituiscono la quarta funzione, divisa tra il monaco ospitaliero e l’elemosiniere. Quest’ultimo distribuisce ciò che l’abbazia ha in eccedenza tra gl’indigenti; fuori delle mura di cinta, nella borgata, visita ogni settimana i malati allettati (non le donne) e dentro il chiostro mantiene diciotto poveri prebendari, ossia pensionati: questi sono delle comparse, rappresentanti accreditati della povertà che riceve un soccorso; a quei tempi in ogni casa fortunata si giudicava indispensabile la loro presenza. Dall’elemosiniere dipende anche l’accettazione dei poveri di passaggio: ma dar loro un tetto è opera di carità. La funzione di ospitalità se ne distingue nettamente: i passanti di qualità, della stessa estrazione dei monaci, ricevuti da questi come amici, si riconoscono dal fatto che non vanno a piedi ma a cavallo, sono alloggiati in altri locali che amministra il frate ospitaliere. La comunità è distribuita in quattro gruppi, alloggiati in quattro quartieri distinti: il noviziato, l’infermeria, il cimitero e il chiostro. Separato dalla chiesa da quello dei monaci, il luogo di soggiorno dei novizi è un luogo transitorio e come di gestazione: qui si opera lentamente la riproduzione spirituale della comunità; bambini, offerti al monastero molto giovani dal loro lignaggio, vi sono allevati, educati sotto la direzione di un monastero. Quando il loro apprendistato è giunto al termine, quando hanno acquisito le maniere complesse del comportamento, quando sanno cantare, fare ciò che va fatto, esprimersi a segni nei periodi di silenzio, vengono trasferiti solennemente tra gli adulti. È un rito d’adozione, d’integrazione. In primo luogo la professione, un atto personale d’impegno: si tratta di una formula scritta, firmata, letta e poi deposta sull’altare, davanti alla comunità riunita; poi dei gesti simbolici come quelli della vestizione cavalleresca, l’ammissione in un gruppo qualificato: l’antico novizio completa il suo abbigliamento indossando il capo di vestiario monastico che ancora gli manca: la cocolla;viene accolto con una mimica: il bacio di pace che il nuovo venuto riceve in primo luogo dall’abate, poi da ciascuno dei suoi fratelli; infine tre giorni di ritiro, in cui si ripiega su se stesso, sull’intimo, sul segreto, sul privato per eccellenza. È degno di nota soprattutto il ritorno per tre giorni alla solitudine. Una prova. Per diventar monaco bisogna chiudersi in un silenzio totale, con la testa coperta dal cappuccio, il corpo dalla cocolla, notte e giorno; è come un’involucro, una casa piccola dentro la grande, un bozzolo in cui si opera la metamorfosi, una sorte di clausura interiore, per un ritiro simile a quello di Cristo nella tomba, e per una rinascita sotto altra forma. L’infermeria è ugualmente un vaglio, un luogo di attesa: una parte della comunità vi si trova temporaneamente isolata perché impura. La malattia, effettivamente, è vista come il segno del peccato; coloro che ne sono affetti devono essere tenuti in disparte fino a purgazione avvenuta. Esclusi temporanei, i pensionanti dell’infermeria erano riconoscibili dal bastone, segno di debolezza e dalla testa coperta, segno di penitenza. Infatti, se erano malati, dipendeva dal fatto che erano peccatori; dovevano dunque cercare di purificarsi attraverso pratiche di penitenza; una volta guariti, prima di raggiungere gli altri, dovevano ancora procedere a un’ ultima purificazione, ricevere l’assoluzione. Per i più il soggiorno all’infermeria precedeva l’ingresso all’altro mondo, e questo passaggio era anch’esso cerimonia rituale e collettiva. Nessuno moriva solo: il trapasso era quasi l’atto meno privato di tutti. Quando il suo stato si aggravava, il malato portato da due confratelli, veniva condotto fuori dall’infermeria, in mezzo all’assemblea, nella sala di riunione detta capitolare, per l’ultima confessione che doveva essere pubblica. Il moribondo tornava poi nell’infermeria per ricevervi la comunione, l’estrema unzione e prendere congedo dalla comunità: dopo aver baciato la croce, scambiava il bacio di pace con tutti i confratelli, cominciando dal padre abate, come aveva fatto alla fine del noviziato. Dall’inizio dell’agonia era vegliato senza posa; si collocavano davanti a lui delle croci, dei ceri, e tutti i monaci, avvertiti da colpi battuti contro la porta del chiostro, si riunivano recitando al posto del confratello, il Credo e le litanie. Quando era spirato, il corpo veniva lavato da altri monaci, suoi pari nella gerarchia delle età e delle funzioni, portato in chiesa, seppellito dopo la salmodia nel cimitero. Il cimitero faceva parte del settore più strettamente privato del recinto monastico, riservato al gruppo di confratelli che la comunità monastica costituiva; formava il terzo quarto di quello spazio familiare. I defunti, di fatto, non erano separati in nulla dai loro confratelli vivi. Per l’anniversario della loro morte, in refettorio veniva servita una razione supplementare e per di più gustosa; si riteneva che cibassero la comunità, che mangiassero con lei, che tornassero a dividere la sua vita carnale secondo il rito essenziale della convivialità. Per quanto riguarda la dimora, era collocata al centro della curtis, essa intendeva offrire l’immagine di ciò che dovrebbe essere sulla terra una vita privata perfetta, e perciò si sforzava di avvicinarsi agli ordinamenti del mondo celeste. L’ordine dei quattro elementi dell’universo visibile, aria, fuoco, acqua e terra, regnava nello spazio interno, la corte interna che chiamiamo chiostro, forma introvertita della piazza pubblica, interamente volta al privato, col suo ambulacro coperto; e un ordine regnava nel tempo, rigorosamente regolato nel corso delle stagioni, delle ore diurne e notturne; a un ordine rispondeva la distribuzione delle varie attività fra i vari compartimenti della costruzione. Intorno al chiostro, dove regna il grande silenzio – interrotto dai passi dei monaci e dal suono delle campane che chiamano agli uffici liturgici – stanno disposte le celle in cui i monaci trascorrono buona parte della giornata. Ma lo spazio più curato, il più adorno, consacrato all’opus Dei, al lavoro offerto a Dio, (ufficio specifico dei religiosi) alla preghiera, cantata a pieni polmoni, da tutti insieme: era la Chiesa. Al suo fianco, orientata allo stesso modo, stava la sala, (aula), destinata alle conversazioni e ai procedimenti giudiziari; corrispondeva all’antica basilica, ma era, anch’essa, volta verso l’interno, poiché tutte le parole pronunciate in questo luogo erano private, segrete; ogni giorno, a mattutino, i frati in buona salute che non si trovavano ad essere colpiti da punizione ci si riunivano in massa, in primo luogo per acquisire consapevolezza di quel loro stare uniti attraverso la lettura di un capitolo della regola e della lista dei defunti, resi presenti attraverso l’appello del loro nome, e anche per trattare, in comune, gli affari temporali come nel consiglio del principe feudale; infine per procedere alle reciproche correzioni; la sala era il luogo di una permanente autocritica dove la denuncia delle infrazioni disciplinari da parte del colpevole o degli altri mirava a ristabilire regolarmente l’ordine interno. I colpevoli erano in primo luogo flagellati, pena caratteristica di una giustizia domestica privata, applicata dal padre alla sposa, ai figli, ai servi, agli schiavi, poi per il tempo assegnato alla loro purificazione, separati dalla comunità, ricevevano a parte la loro razione di viveri, e restavano alla porta della chiesa, in castigo, con la testa sempre coperta, separati, isolati, e ciò che ci importa è di vedere di nuovo la solitudine concepita come un esilio. Una prova. Una punizione. Purgata così la sua colpa, la pecora smarrita raggiungeva il gregge in refettorio. Il pasto preso in comune ogni giorno (in certe stagioni vi si aggiungeva uno spuntino) si presentava come una cerimonia volta anch’essa a celebrare l’unità fraterna. Si mangiava seduti, in buon ordine, su tavole le cui tovaglie erano cambiate ogni due settimane: un banchetto dove ognuno trovava entrando, al posto che gli era assegnato, un pane e un coltello; dalla cucina venivano portate delle scodelle e il vino dalla cantina, servito in quelle misure dette <<giuste>>, una per due monaci; il regolamento imponeva di bere senza far rumore, di controllare i gesti, in perfetta disciplina, con l’abate al centro, che dava il segnale, in silenzio. Un rito celebrato in comune, con l’animo dominato, distolto dalla concupiscenza, dal testo letto ad alta voce da uno dei frati. Durante i pasti il monaco doveva accontentarsi di quanto gli viene offerto, non bisognava mormorare per la qualità del cibo, non osservare i confratelli mentre mangiano, non mangiare al di fuori degli orari dei pasti, non alzarsi da tavola prima che sia terminata la lettura. Occorre combattere inoltre la passione della smodatezza: nessuno può riempire una coppa fino all’orlo, né può accedere liberamente alla dispensa. Il piatto base della loro alimentazione erano le fave, (la pasta di oggi) accompagnata spesso da molto lardo ed uova. Solo d’estate (periodo in cui terminava il digiuno) era usata la carne perché si praticavano sei mesi di astinenza, mentre molto usato era il pesce, spesso solo di acqua dolce. Esistevano nelle adiacenze infatti, delle grosse vasche dove i pesci, lucci e trote, erano tenuti vivi grazie ad un semplice sistema idrico, per soddisfare le esigenze della comunità. Molti pesci provenivano anche da Corigliano. Per non parlare delle verdure, degli ortaggi, del vino la cui tecnica veniva copiata anche dai contadini del luogo. Ancora oggi quando il sole d’agosto è a picco e brucia la campagna intorno, nella cantina dei Lupinacci il vino si conserva assai fresco, librando nell’aria il profumo del tempo mai trascorso. Al tramonto cominciava il tempo del pericolo, delle peggiori aggressioni diaboliche. Per dare l’esempio, soprattutto per quanto concerne il silenzio, l’abate cistercense si isolava nel tempo del maggior pericolo, la notte, in una cella, il suo dovere era di vegliare da solo, agli avamposti. Bisognava allora serrar le file, guardarsi meglio: nel dormitorio situato al primo piano, a strapiombo su qualunque minaccia strisciante, il luogo più appartato della dimora, non era assolutamente permesso starsene da soli e l’abate restava in mezzo alle sue pecorelle. Tutta la notte il lume acceso, dei monaci che vegliavano, un bivacco. Riposavano per lo più su letti ligi allo spirito di povertà e penitenza. Erano costituiti da intelaiature in legno semplicissime, niente cortine e, soprattutto, niente lenzuola, e al posto del caldo e morbido materasso di piume, un semplice pagliericcio o un sacco di lana, considerati assai poco confortevoli. A volte al posto delle coperte si usavano pelli grezze di pecora. Ognuno tuttavia sdraiato sul proprio letto che la regola vietava formalmente di dividere con altri: l’imperativo comunitario cedeva soltanto su questo punto, davanti al timore, inespresso ma ossessivo, delle tentazioni. Occorre immaginare queste notti monastiche, trascorse tra il dormitorio e la chiesa, come momenti generalmente di freddo pungente nei mesi invernali, senza che i muri di pietra del monastero e il sobrio corredo dei letti potessero fare adeguato argine ai rigori del gelo. Infatti, oltre al calefactoriuum, la stanza riscaldata per eccellenza, esistevano solo altri due luoghi – l’infermeria e la cucina – nei quali era possibile trovare il fuoco. Il calefactorium in particolare, era usato per riscaldarsi brevemente in occasioni specifiche (per es. l’intervallo dopo le Veglie, vigilie nelle notti di Natale, per far sciogliere il grasso, o per la pratica medica dei salassi). In ultima analisi, il carattere fondamentale della convivialità monastica era lo stretto gregarismo; ogni intimità, ogni segreto andavano immancabilmente divisi con gli altri, e la solitudine era considerata a un tempo un pericolo e un castigo. Nel monastero tutto è comune, compresi gli oggetti che il monaco riceve per l’uso personale. Le virtù del monaco che dovranno emergere in questa convivenza sono quelle dell’umiltà, del disprezzo delle cose del mondo e delle ricchezze, della condivisione fraterna. Egli non va alla ricerca dei lussi, degli agi delle comodità, delle frivolezze. Il suo modo di vivere è sobrio, parco, misurato, orientato all’essenziale. E proprio per questo i monaci potevano fare un bagno completo solo due volte l’anno, per le feste del rinnovamento, Natale e Pasqua, inoltre ciò li limitava a non scoprire la pudende, quindi pudore dappertutto. Ogni monastero aveva il diritto di eleggere il proprio abate, non doveva versare nessun contributo alla casa che lo aveva fondato, anzi molto spesso, la casa madre lo aiutava economicamente, fino al raggiungimento dell’autosufficienza e così è avvenuto ad es. per la Matina di San Marco Argentano (Cs) o quello di Corazzo (Cz). Il primo principio su cui si basavano i rapporti tra filiazioni Cistercensi, anche per quanto stabilito nella “Carta Caritas” la Regola dell’Ordine, era quello della reciproca assistenza ed aiuto sia spirituale che materiale. La Regola prevedeva che ogni anno a Citeaux, una volta l’anno, si doveva riunire il Capitolo Generale, al quale partecipavano, con parità di diritti, tutti gli abati dell’Ordine e dove era solo questo l’organismo che poteva prendere iniziative vincolanti per l’ordine stesso. La giornata tipo del religioso sambucinese era molto particolare, ricca di orazioni soprattutto, ma tanto tempo era dedicato alle attività amanuensi, secondo un antico insegnamento tramandato dai padri del deserto sinaitico ed egiziano in base al quale solo attraverso il lavoro e la preghiera si rifuggivano le tentazioni. La principale attività dicevamo, era quella della trascrizione dei Codex ai quali si dedicava il monaco amanuense. Questo monaco è uno dei protagonisti meno conosciuti della storia monastica: lui non gode, come i suoi confratelli, della sala comune del convento, e approfitta degli spazi bianchi sul còlophon dei manoscritti, per scrivervi lamentandosi che ha freddo, che l’ora del pasto è ancora lontana, che l’inchiostro gela nel calamaio. Durante la permanenza in Sambucina, il suo compito era stato notevolmente facilitato, poiché si era abbandonato il rotolo di papiro e si era adottato il codex, il libro insomma, di cui noi ancora oggi giriamo le pagine, che allora erano in pergamena. Oltre a favorire la meditazione, il codex rende molto più facile ricopiare un testo e collezionarne parecchi esemplari alla volta. Ma, detto questo, il lavoro dell’amanuense era molto stressante. Anche quando erano in tanti nella stessa ala, era necessario che osservassero obbligatoriamente il silenzio per meglio concentrarsi. Un’intera ala del vasto complesso abbaziale venne utilizzata per svolgere questa delicata mansione di copiatura, molto probabilmente era quella posta ad est per sfruttare al meglio la luce del sole. Il materiale maggiormente utilizzato era la pelle di capra o di pecora che gli stessi monaci con una tecnica a loro congeniale trattavano stirandola ed essiccandola lentamente al sole. Con un intero montone si ricavavano solo quattro strati. La pelle, lungamente lavorata, diventava molto fine e dura. La pergamena dopo il bagno e la pulitura iniziale, doveva essere stesa su un telaio, raschiata, battuta, passata con la pietra pomice e infine ripartita in fogli. Essi venivano in seguito cuciti ed assemblati formando voluminosi libri. La copertina era costituita da cuoio molto spesso e finemente lavorato, a volte con bordature e fregi in ferro. Altri monaci più accorti e precisi, si occupavano della trascrizione. Il carattere di scrittura che veniva usato è quello che noi oggi definiamo gotico (così chiamato perché i Goti, popolo germanico, quando decisero di aderire al cristianesimo intorno al 430 d.C. dovettero darsi anche una lingua che non possedevano), molto complesso e laborioso. Il libro era sistemato su un pulpito e l’amanuense utilizzava una penna ricavata da un pezzo di canna fesso all’estremità; in altri monasteri si usavano piume d’uccello e si scriveva o sulle ginocchia, o su una panca o su un tavolo. Preliminarmente, con l’aiuto di un righello di legno tracciavano a punta secca linee e tratti verticali per determinare i margini e le colonne, e suddividevano il “foglio” in spazi lineari sui quali sovrapponevano la scrittura. All’amanuense vero e proprio dobbiamo aggiungere altri lavoratori solitari: correttori, rubricatori, pittori, miniatori, rilegatori. Un mestiere faticoso, stando alle parole di uno di essi che ci dà testimonianza diretta: <<…appanna la vista, fa diventare gobbi, incava il petto e il ventre, danneggia i reni. Tutto il corpo viene messo a dura prova. Perciò, o lettore, sii delicato e non mettere le dita sulle lettere>>. Alcuni monaci, si erano dunque specializzati ad es. nelle rifiniture dei disegni, con fregi in polvere di oro e argento, usando decorativi svolazzi. I colori dei disegni erano tratti da alcuni minerali oppure da piante naturali che era facile reperire intorno all’Abbazia (il giallo ad es. era ricavato dai petali della ginestra molto rigogliosa nei pressi del santuario). Si riuscivano a copiare solo 6 fogli al giorno, e per copiare tutto il Vecchio ed il Nuovo testamento non bastasse un solo anno, si realizzavano non più di 40 volumi nell’intera esistenza. La Sambucina riforniva inoltre tutte le biblioteca dell’Italia Meridionale, non solo di altri monasteri appartenenti al medesimo ordine o ad altri ordini, ma anche di ricchi signori, ai quali si faceva dono di questi libri in seguito a qualche elargizione. Nel 1152, la decorazione del libro viene regolamentata: solo le iniziali vengono dipinte di un unico colore e senza alcuna figura ornamentale, ma nel corso dei secoli il metodo venne allentato, abbandonandosi a decorazioni più “mondane”. La rilegatura e la decorazione dei piatti di copertina erano spesso veri e propri lavori di oreficeria ad incastro, con borchie di pietre preziose, che finivano per apparentare il libro ad un reliquiario. L’attività del copista era dunque a pieno titolo un’autentica forma di ascesi, né più ne meno che la preghiera e il digiuno, un reale rimedio per tenere a freno le passioni e imbrigliare l’immaginazione, grazie all’attenzione degli occhi e alla tensione delle dita che essa richiedeva. “A che pensavano, che immaginavano questi amanuensi quando ricopiavano un testo pagano che talvolta ritenevano menzognero, talvolta licenzioso o indecente?” si chiede lo storico Michel Rouche “Cominciamo col dire che essi non operarono mai una qualche forma di selezione o di censura: la loro fedeltà al testo era assoluta, pochi fra di loro vi hanno lasciato le loro impressioni”. Un libro costava parecchio caro, dato che per ogni copia delle opere di Cicerone o di Seneca era necessario un intero gregge. “Che fine ha fatto la biblioteca della Sambucina?” si chiede Giuseppe Marchese. L’intera biblioteca consisteva in circa quattromila volumi e sembra che in seguito ad alcune sue indagini una parte sia stata trasferita presso il Convento dei Cappuccini di Luzzi insieme anche ad altri arredi sacri, un’altra parte presso la Curia di Bisignano, altri volumi presso l’Abbazia della Matina e tantissimi altri presso la Santa Sede. Perduti o andati lontano dunque i manoscritti raccolti da Luca Campano, da Pietro Scarsilio, da Domenico Flimure o tanti altri tratti dai conventi benedettini. Solo due manoscritti si conservavano nella biblioteca privata dei Vivacqua di Luzzi. Subito dopo la mezzanotte iniziava la giornata tipo del monaco sambucinese, esattamente alle ore 1,45, allertati dal frate guardiano salmodiando, alle 2,00 iniziavano le Vigilie (consistenti in canti o preghiere), alle 3,00 intervallo di pochi minuti, alle 3,10 circa inizio delle Lodi, alle 3,45 intervallo, alle 4,00 Prima (Preghiere), alle 4,40 inizio Lavoro, alle 7,15 intervallo, alle 7,45 Terza, alle 8,00 Eucarestia, alle 8,50 Lectio (Lettura della Bibbia), alle 10,40 Sesta, alle 10,50 Pranzo, alle 11,30 Riposo, alle 13,45 Risveglio, alle 14,00 Nona, alle 14,15 Biberes, alle 14,30 Lavoro, alle 17,30 intervallo, alle 18,00 Vespri, alle 18,45 Cena, alle 19,15 Intervallo, alle 19,30 Compieta, alle 20,00 Riposo. Quest’orario veniva rispettato in estate, in inverno veniva modificato di un’ora a seconda dei casi. Nuovamente ci si levava e si ritornava in coro. Il tempo monastico possiede la caratteristica della lentezza, dell’assenza di ogni agitazione – scrive lo storico Tonino Ceravolo – e della mancanza della fretta, di una scansione ispirata ai ritmi naturali della giornata. In generale la notte è tempo esclusivo della preghiera e della meditazione. Non essendoci orologi l’alzata in inverno era prevista prima del canto del gallo e in estate al momento stesso del canto. In seguito nel tardo medioevo, i nonaci inventarono un curioso Horologium stellare monasticum che funzionava mettendosi ad un certo punto del giardino del chiostro e quando una certa stella appariva, voleva dire che era giunta l’ora per il significator horarum (di suonare la campana del risveglio, di accendere le lampade della chiesa, di svegliare i monaci a cominciare dall’abate dicendogli con riverenza: “Domine labia mea aperies”. Non si riuscì tuttavia a raggiungere un’accettabile precisione della misura del tempo. Clessidre ad acqua e sabbia, ceri e torce accesi sino consumarsi, l’ombra delle meridiane etc, non contribuirono molto a far celebrare i diversi uffici liturgici ogni giorno nello stesso momento. Nei momenti di massimo splendore si calcola che in Sambucina i monaci erano oltre cento. Immaginiamoci dunque la scena quando celebravano le lodi tutti insieme nel coro, che doveva essere necessariamente molto ampio. Rilevante era l’uffizio liturgico del coro; sette volte al giorno dalle prime luci dell’alba alla caduta delle tenebre, un’altra volta nel cuor della notte, la comunità si riuniva nell’oratorio per una preghiera che non era nè individuale, né segreta, ma proferita a voce spiegata. In gruppo si svolgeva il vero lavoro e con quello sforzo di tutto il corpo che il gesto del cantare richiede. Le parole pronunciate all’unisono, quelle dei Salmi di Davide, si iscrivevano infatti su una linea melodica, percorrente i sette toni musicali. Quel rapporto musicale era lì per accordare alle armonie cosmiche, ossia alla ragione di Dio, le parole degli uomini, confonderle con le parole degli angeli, il cui coro riempie la città celeste. Con una simile concordanza si realizzava in pienezza il legame immateriale, fra la terra e il cielo che il monastero aveva la funzione di stabilire. La Regola di san Benedetto dedicava alla salmodia circa tre ore e mezza al giorno. Presso i cistercensi si quintuplicò il numero dei Salmi recitati giornalmente, tanto che il canto divenne un compito estenuante e che giustificava l’attenuazione delle astinenze. Strumento di lavoro fondamentale era il mulino, in Sambucina se ne sono perse le tracce ma sul territorio luzzese ve ne sono rimasti diversi. Esso veniva utilizzato nella maggior parte dei casi nelle attività della tenuta agricola (macinatura delle sementi, frangiatura delle olive, o frantumazione dei gherigli di noce) ma anche nella follatura dei drappi di lana, che nella catena di produzione precede la pettinatura e la sgrossatura. Per molto tempo i cistercensi sono stati considerati gli inventori della moderna Europa rurale; monaci dissodatori hanno creato radure nelle foreste impenetrabili, idraulici provetti hanno domato fiumi e drenato paludi, viticoltori o allevatori hanno selezionato vitigni illustri e razze competitive. Grazie ai monaci della Sambucina nacque un famoso mercato annuale che si svolgeva nella piana di Luzzi (nei pressi di San Vito) dal 15 al 22 Agosto con mercanti ed acquirenti provenienti da tutta la Calabria e Basilicata. Sempre grazie alla loro opera dai Casali di Cosenza fino ad arrivare a Sibari nacquero numerose attività artigianali che fecero rifiorire tutta la Valle del Crati. La Sambucina coltivava inoltre anche le bambagie (in dialetto conosciuta ancora come ‘a vammacia cioè il cotone), in prossimità di contrada Petrine, tra i fiumi Crati e Muccone, zona ancora conosciuta come vammaciata. I monaci disputarono inoltre a lungo anche sull’esatto modello del loro abito: quale fosse il giusto taglio, l’ampiezza delle maniche e dei fianchi, la larghezza del cappuccio, i tipi di stoffe, i colori. E secondo San Bernardo sono tre i pensieri carnali che tormentano il monaco: il cibo, il bere ed il vestito. Sono pensieri da paventare perché rappresentano l’emergenza del mondo. E dal momento che il monaco sceglie di fuggire il mondo, deve rinnegare ogni pensiero legato ad esso. Ma i cistercensi si muovono nel corso del tempo, comunque nella ricercatezza delle stoffe e del modello. I cistercensi, e quindi anche quelli della Sambucina, in origine indossavano un abito bianco, stretto ai fianchi da una cintura di cuoio. In seguito essendo che si sporcava facilmente, è stato deciso di aggiungere una striscia centrale di colore nero. Molto utilizzato, all’interno della comunità, era il linguaggio dei segni. Dato che il silenzio era essenziale per vincere il peccato, esso era necessario ai novizi non solo per sviluppare l’autocontrollo, ma anche per progredire nell’apprendimento. Per cui la vita della comunità esigeva un sistema di comunicazione che non disturbasse il silenzio degli altri. Per cui si sviluppano sistemi di linguaggio basati su segni. Ad esempio un elenco di Clairvaux contiene 227 segni che coprono le necessità di base della vita monastica ed utilizzati negli altri monasteri dell’ordine e di conseguenza anche in quello di Luzzi: segni per il cibo, le bevande, gli oggetti liturgici ed ecclesiastici, il personale monastico, gli edifici, gli utensili e via di seguito. Il silenzio inoltre era essenziale per liberare i monaci dalle preoccupazioni che normalmente occupavano le menti e le lingue, al di fuori dal chiostro. Un’esistenza condotta nel silenzio favorisce la riflessione sulle “cose di maggiore importanza”. L’essenza della vita cistercense consiste nella lotta tesa alla restaurazione della nostra perduta somiglianza con Dio e alla salvezza dell’anima, un compito non intrapreso individualmente ma nella comunità, e all’interno della vita cenobitica questo scopo si poteva raggiungere attraverso una solitudine interiore. Inoltre coloro che si radunano per la preghiera non si frammettano, o disturbare con sputi o raschiamenti di gola, non risuonino colpi di tosse, non si facciano a bocca aperta e spalancata sbadigli assonnati, o emettano sospiri che infastidiscono gli altri. Lo strepito, i rumori, le risa, la chiacchiera, la mormorazione sono gli avversari principali della vita di raccoglimento e di silenzio, l’unica adatta alla preghiera che il monastero richiede. Non c’è preghiera e contatto intimo con Dio senza silenzio, un silenzio del cuore senza il quale quel fisico sarebbe inutile, vano e anche addirittura ingannevole e pericoloso. La scelta della clausura richiede ancora oggi, anime forti, capaci di separarsi da tutto e da tutti: gli affetti familiari, gli amici rimasti nel mondo, le proprie abitudini quotidiane, l’attaccamento a se, ai beni materiali. Ma il silenzio può comprendere anche la sfera visiva. Durante la visita ad una abbazia cistercense, alcuni si sentono rinfrancati dalla semplicità delle linee e dall’assenza delle immagini. Per i monaci il “silenzio” dell’architettura è una necessità, poiché gli edifici forniscono la cornice del lavoro spirituale che sono venuti a svolgere. Il silenzio imposto dalla Regola si riflette nella semplicità delle linee, delle finestre, delle pareti. Di norma, negli edifici cistercensi, c’è una quasi totale assenza di elementi figurativi e di colore. La decorazione è invece solo architettonica ed è costituita da nervature e modanature di ampiezza, spessore, profilo e materiali di vario tipo che evidenziano le linee architettoniche; i punti tradizionalmente scolpiti, come le mensole, i peducci e i capitelli, presentano motivi geometrici o vegetali. Ma qua e la possono spuntare teste umane o di animali, particolarmente vicino alle fontane, come per ammonire i monaci mentre si lavano le mani, a non peccare di ingordigia nel refettorio. Tali elementi sono numericamente limitati. Ciò che si riscontra in un’abbazia cistercense, e con abbondanza, sono la presenza e il gioco della luce. E’ la luce del sole che anima l’edificio durante il giorno, tracciando il profilo di ogni sporgenza e di ogni vano e valorizzando appieno il particolare architettonico; il parlare distoglie l’attenzione dalla sottigliezza del gioco della luce. Per percepire pienamente il movimento della luce e delle ombre, è necessario trovarsi in un dato punto durante tutto il giorno, dalla mattina alla sera, d’inverno e d’estate. Il lento effetto luminoso risulta particolarmente evidente quando si occupa sempre lo stesso stallo o lo stesso punto d’osservazione. La lentezza stessa della luce in movimento, costituisce lo sfondo perfetto di un’esistenza contemplativa. Il modello cistercense e più esattamente Bernardino che si è avuto in Sambucina è fatto di parsimonia, povertà e silenzio; di architetture spoglie, ricettacoli di preghiera e meditazione, animate da una fede ardente, connotati che si possono, anche se in minima parte , ancora intravedere. Intorno alla Sambucina sorse anche un piccolo villaggio (l’attuale contrada Timparello) la cui vita era regolata in funzione delle attività dei monaci, con i quali avevano non solo piccoli scambi commerciali, ma molti erano anche alle loro dirette dipendenze aiutandoli in alcune pesanti mansioni. Girovagando intorno all’Abbazia, o di quel che ne rimane, sembra di riuscire a sentire ancora oggi il fragore degli scalpellini, il fischio dell’ascia, il tonfo della zappa. Da uno dei comignoli che agghirlandano il chiostro, a volte, soprattutto d’inverno esce il fumo della vita, illudendoci che tutto comunque continua come prima. E d’estate, quando i pomeriggi assolati ed afosi seccano la gola, se ci si fa largo tra alcuni rovi, si scorge nei paraggi ai piedi di un’immensa quercia il pianto della fontana dei monaci, acqua pura che ancora oggi disseta non solo il corpo, ma anche lo spirito. All’interno del chiostro, sparsi a terra altri manufatti tufacei sono addormentati da secoli. E la meridiana, ancora in ottimo stato, in silenzio continua a segnare il tempo che inesorabilmente passa e sovrasta la storia, gli eventi, il ricordo. Lungo il corridoio, piccole e ben allineate porticine, nascondono certamente altri “tesori”, e da alcuni interstizi, profumi di mosto si mescolano a quelli provenienti da vetusti e singolari androni. Ma di quell’epoca gloriosa e stupefacente, solo la campanella continua a testimoniare tristemente alla domenica quella mirabile iniziativa di cultura e di fede! Di tutte quelle particolari attività amanuensi e di quell’antica scuola di pensiero fiorita grazie non solo alla presenza di Gioacchino da Fiore, ma anche di Luca Campano che oltre ad essere architetto, progettando e realizzando il Duomo di Cosenza, fu vescovo della città medesima, non resta amaramente quasi più nulla! Il 5 Marzo del 1569 dopo violente bufere di neve e di ghiaccio, susseguite per sei giorni da ininterrotti acquazzoni diluvionali, nel centro del corpo dell’Abbazia si verificò un abbassamento del terreno di parecchi metri, causato da una fortissima frana. Le ali del monastero e gran parte della chiesa erano scomparsi. Da qui i pochi frati si trasferirono presso la Matina. Con Cesare Calepino eletto priore nel 1624, la badia risorge per breve tempo a vita nuova. La maggior parte dei beni, dei codici e delle opere d’arte ritorna nel convento per l’energia del Calepino, che minaccia di scomunica gli usurpatori se non restituiranno ciò di cui abusivamente si erano appropriati durante il governo nefando dell’abate D.Carlo Caracciolo. Sotto il Calepino terminarono i lavori di restauro della Chiesa e di parte del convento. L’iscrizione sul portale della chiesa ricorda questo avvenimento: D.C.C.P.E.E. 1625, che crediamo vada intesa così: “Dominus Caesar Calepinus Prior Ecclesiam Erexit”. Il 18 febbraio del 1780 l’Abbazia per ordine di Ferdinando IV, venne soppressa ed i beni incamerati dal Demanio. Gli arredi sacri, i dipinti, le statue, i libri, etc, furono divisi tra le chiese di Luzzi, il convento dei Cappuccini e la Curia Vescovile di Bisignano. “Sembra che – scrive il Marchese – che alcuni beni della Sambucina venissero risparmiati in quella circostanza, giacchè essi appaiono venduti in seguito dal Demanio il 3 aprile del 1803 con alcune fabbriche del Monastero alla famiglia Lupinacci”. L’ultimo cistercense della Sambucina fu Gennaro Gordano con il quale si chiuse la vita monastica della gloriosa Badia. Vincenzo Padula ne canta le glorie e ne piange il tramonto nel suo poema: Il monastero della Sambucina O agresti solitudini/ o pinete/ o monti della Sila cosentina/,che l’estrema reliquia possedete del Monastero della Sambucina/ col rumor della caccia altri le quiete ombre vostre profane, e l’eco Alpina;/ Giovane io sono di più mite ingegno amo le muse e a meditar qui vegno. Le forze avverse della natura (il terremoto prima ed una paurosa frana dopo), ma forse la stessa volontà di Dio, che volle spezzare la superbia e lo sfarzo che l’ordine stesso aveva raggiunto, causando l’inaridimento della linfa mistica e la rilassatezza dei costumi, soppiantarono la gloria terrena dell’ordine cistercense anche in Sambucina. Da quasi due secoli, sull’Abbazia cistercense della Sambucina è stato steso un velo pietoso di sconcertante silenzio, adombrato da tanti misteri, ed interrotto solo durante la quindicina che si perpetua ogni anno in onore dell’Assunta quasi come un miracolo. Molte testimonianze ( gli scavi archeologici inaspettatamente e misteriosamente sono stati bloccati; secondo gli studiosi lungo l’asse di duecento metri in direzione del portale avrebbero rivelato verità sepolte) ed antichità non si sa dove siano andate a finire, o almeno “dicitur” sparse in private abitazioni. Molte altre in musei e case d’arte. Chi viene oggi a sostare in questi ameni luoghi, girovagando per sentieri e rupestri prati, nell’immenso silenzio delle vallate e dei declivi riesce ad udire ancora l’antico canto gregoriano che echeggia con immensa solennità e veemenza tra le frondose querce di centenaria memoria. Lo spirito di molti frati ivi sepolti, aleggia tra le millenarie pietre da loro stessi scolpite, reclamando forse giustizia davanti a Dio ed agli uomini per una storia che va riportata alla luce. Ma è certamente un miracolo, da molti sotteso, se si considera che nonostante le avversità l’Abbazia continua a celebrare ancora oggi, dopo dieci secoli il trionfo della Purezza e della Verginità di Maria Madre di Dio alla quale i monaci si erano affidati dopo quella soave ed incredibile visione tra gli arbusti di sambuco. E’ inverno, il freddo oggi è molto pungente e il cielo è incredibilmente terso. Sta oramai calando il sole aldilà delle serre paolane. Già Venere verso occidente brilla prima che il sole tramonti definitivamente. Inevitabilmente si è costretti a ripiegare, ad abbandonare questo luogo, reso tranquillo e semplice anche dalla complicità delle ombre. Dopo questa lunga rivisitazione, resta solo la consapevolezza di un silente passato, amareggiato da un inappagabile presente.