Baron Bianchi

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Baron Bianchi
LINO FAVARO
MEMORIE
Di
INFANZIA – ADOLESCENZA – GIOVENTU’
Trascorse tra il
1937 e il 1965
Al
INDICE
BARONBIANCHI……………………………………………………………………4
Il Barone Federico Bianchi…………………………………………………………….4
L‟Azienda Bianchi de Kuncler………………………………………………………...6
L‟Amministrazione…………………………………………………………………….8
La villa………………………………………………..………………………………13
“ El Cason “……………………………………...….………………………………..15
Dai “ Cavai “ …………………………………………………………………………16
Dai “ Bò “ …………………………………………………………………………….23
La via Bianchi ………………………………………………………………...……...24
Le attività dell”Azienda Bianchi……………………………………………………...29
Il settore agricolo ……………………………………………………………....…….29
Il settore latteo – caseario ……………………………………………………………41
La raccolta del latte : i “ latarioi “…………………………………………………..43
Il trasporto con camion ………………………………………………………………48
Il settore vinicolo …………………………………….………………………………49
“ El Mezà “……………………………………………………………………………52
L‟allevamento bovino ………………………………………………………………..52
L‟allevamento suino ……………………………...………………………………….52
L‟officina meccanica ……………………………………………………………...…54
La falegnameria ……………………………………………………………………...54
La squadra edile ……………………………………………………………………..54
Il guardiano ………………………………………………………………………….54
I punti di aggregazione della via Bianchi ……………………………………………55
L‟Osteria Bonotto ……………………………………………………….…………..55
La “ Botegheta “……………………………………………………………………...60
Gente del Baronbianchi ……………………………………………………………..62
Condizioni di vita …………………………………………………………………...89
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La guerra …………………………………………………………………………….96
La religiosità, il rosario……………………………………………………..………106
I giochi dei ragazzi …………………………………………………….…………..109
Gli ambulanti ………………………………………………………………………111
Personaggi dell‟epoca ……………………………………………………………..114
I tre compari ……………………………………………………………………….115
Il servizio militare …………………………………………………………………125
PARTE II°………………………………………………………………………….133
Il dopo Baronbianchi ………………………………………………………………133
Appendice, immagini del tempo passato…………………………………………..144
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BARONBIANCHI
Vi siete mai trovati in un luogo deserto, una casa abbandonata, una vecchia
contrada, un castello vuoto e, nel silenzio del luogo, provare la sensazione di sentire
delle voci, dei rumori tenui, ovattati, come se fossero i rumori del tempo passato? A
me è capitato più di una volta. Di recente sono stato nei luoghi, dove sono nato e sono
vissuto fino a quando ho messo su famiglia. Quel luogo ora è in stato di abbandono.
Dove c‟era il centro di tutte le attività della fiorente azienda “ Bianchi de Kunkler”,
ora c‟è il deserto. Eppure in mezzo a quel deserto, a quegli edifici fatiscenti e
abbandonati, chiudendo gli occhi ho sentito i rumori, le voci di un tempo e ho avuto
la sensazione di un fervore di vita, tutt‟intorno. Ho sentito il suono della campanella
che scandiva i ritmi della vita di quel luogo, ho percepito come un andirivieni di gente
indaffarata nella sua quotidiana routine di lavoro……. ma ora la campanella non c‟è
più, non c‟è più neanche lo scalone esterno che portava negli immensi granai posti
sopra la cantina.
La campanella si trovava in cima a quella scala, nel pianerottolo d‟ingresso ai
granai. Era compito di Eti Maccatrozzo azionare lo strumento che regolava la vita di
tutta l‟attività dell‟azienda, nonché gli orologi delle case di tutta via Bianchi…. Eh sì,
potevano essere messe in discussione tante cose, ma non l‟infallibilità dell‟ora
scandita da Eti Maccatrozzo! Egli era il capo, il responsabile, el paron degli immensi
graneri (granai) con annesso séese (aia) ed essiccatoio, usato per le granaglie, ma,
soprattutto per essiccare i bozzoli (gaete) del baco da seta (cavalier).
Di Eti ricordo la grossa catena dell‟orologio da taschino e le guance rosse paonazze,
non saprei dire se dovute a madre natura o al fatto che i granai erano a stretto contatto
con la rinomata cantina. Forse un po‟ a questo e a quello.
IL BARONE FEDERICO BIANCHI
L‟azienda agricola Bianchi ha avuto origine dal Barone Federico Bianchi. Costui,
nato nel 1768 a Vienna, è stato uno dei più geniali e valorosi generali dell‟Armata
Austriaca. Combatté in Francia, in Russia e in tutta Europa. Il 3 maggio 1815, al
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comando dell‟Armata Austriaca sconfisse, nella battaglia di Tolentino, Gioacchino
Murat riportando Ferdinando di Borbone al trono del regno di Napoli. Per
riconoscenza il Re lo nominò Duca di Casalanza, dal nome della località presso
Capua, dove fu firmata la resa di Murat. Nel 1824, ritiratosi dalla vita militare, il
Barone si trasferì nella villa di Mogliano che aveva acquistato, assieme alla vasta
tenuta, dai banchieri Papadopoli che a loro volta l‟avevano acquistata dalla famiglia
Lin di origine bergamasca, ma appartenenti alla nobiltà veneziana fin dal 1686. La
villa era stata ultimata nel 1717. Il barone Federico si dedicò con passione alla cura
della tenuta. Morì nel 1855 e fu sepolto nella cappella posta sul retro della villa.
La baronessa Federica, pronipote del capostipite, nata a Thaus l‟ 1/1/1889, viveva
nella residenza di Este e sposò nella seconda decade del „900 uno svizzero del casato
de Kunkler dal quale ebbe un unico figlio, Pieradolfo. In quel periodo nella villa di
Mogliano abitava un‟altra pronipote del Barone Federico sposata ma senza figli. Con
l‟ausillio del capitale portato in dote dal marito, la baronessa Federica riscattò la
parte di eredità della cugina e divenne unica proprietaria della tenuta. Si trasferì da
Este portando con sè alcuni dipendenti di fiducia tra cui il maggiordomo Santo e la
cuoca abissina Ester. L‟azienda prese la denominazione Bianchi de Kunkler. La
baronessa Federica rimase vedova e per circa vent‟anni condusse in prima persona
l‟attività aziendale. Alla sua morte, avvenuta il 28 Giugno 1957, subentrò il figlio che
in gioventù non aveva avuto gran passione per la cura della tenuta. Egli non si sposò e
non ebbe eredi. L‟azienda, anche per il progressivo cambiamento dei tempi, perse
consistenza, cessarono delle attività. Alla morte del barone Pieradolfo, avvenuta il 21
Aprile del 2000, non si sapeva che fine avrebbe fatto l‟antica e rinomata proprietà.
Poi spuntò un parente, un
cugino di Pieradolfo che, tra l‟altro, porta il nome
dell‟antico capostipite. Il nuovo barone Federico Bianchi ha preso in mano la
proprietà, ha venduto parecchie cose, ha rivoluzionato i terreni rimasti mettendo a
dimora nuovi vitigni di piccola taglia e molto ravvicinati. Insomma un tipo di
coltivazione mai vista dalle nostre parti. Tutto questo per ottenere una produzione di
vini pregiati. Nel frattempo ha rispolverato il titolo di Duca di Casalanza per ridar
lustro al casato. Intanto, però, stringe il cuore, a chi ci ha vissuto dentro, vedere lo
stato di abbandono in cui versa la “cittadella” che fu l‟Amministrazione Bianchi de
Kunkler.
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L’AZIENDA BIANCHI DE KUNKLER
Intorno agli anni cinquanta l‟Azienda era al massimo fulgore. Aveva vasti
possedimenti a Dese, a Marcon, a Preganziol, a Bonisiolo, a Casale, a Zerman e
naturalmente nei dintorni del nucleo centrale della proprietà, dove aveva sede
l‟Amministrazione. Oltre
agli innumerevoli
appezzamenti di terreno l‟Azienda
possedeva botteghe a Venezia, Padova, Treviso e Mestre, dove vendeva direttamente
i prodotti del settore caseario. Nel territorio del nucleo centrale dell‟Azienda,
chiamato Amministrazione, si trovavano, oltre agli uffici direzionali ( mezà ), la
rinomata centrale del latte, l‟altrettanto pregiata cantina, la distilleria, l‟officina
meccanica, la falegnameria, l‟enorme stalla per le mucche, i grandi granai con
l‟essiccatoio e un vasto cortile pavimentato (séese). Inoltre c‟era un fabbricato per la
lavorazione del tabacco, un locale a uso refettorio, una serie di capannoni per il
ricovero di attrezzi agricoli, altri capannoni molto alti per l‟essicazione del tabacco
e infine, dietro la cantina, le stalle per l‟allevamento dei maiali. Da quanto detto si
può
capire
perché
ho
definito
“cittadella”
il
complesso
denominato
“Amministrazione”. Appena fuori il recinto dell‟area direzionale e ai margini del
bosco della villa c‟era l‟allevamento dei vitelli sistemato nel vecchissimo grande
cason, una tipica costruzione dei tempi passati con copertura fatta di cannelle di
palude. Uscendo fuori dell‟Amministrazione, e girando per via Bianchi in direzione
Zerman, s‟incontrava il complesso con le stalle dei cavalli. Circa duecento metri più
avanti c‟era la stalla dei buoi che ospitava una decina di giganteschi esemplari
bianchi dalle enormi corna, usati per arare i campi fino all‟avvento delle prime
macchine agricole. Il territorio dell‟ Amministrazione era delimitato a ovest e a sud
dal canale che tutta la gente del posto chiamava Pianton ma che in realtà ( l‟ho
scoperto molti anni dopo) è lo Zermanson. Il vero Pianton scorre a sud di Mogliano
nei pressi del quartiere S. Marco. Il percorso del “ Pianton “ non era quello di adesso.
Ora, a seguito di opere per il miglioramento dei deflussi idrici del territorio, il
canale percorre una linea retta dal punto di attraversamento del Terraglio fino alla
stradina che da via
Bianchi, all‟altezza dell‟osteria Bonotto, s‟inoltra verso via
Croce. Il percorso originale andava in linea retta fino al
cason, poi faceva una
curva ad angolo retto, a destra, quindi proseguiva fino all‟attraversamento del
viale che dall‟Amministrazione va alla villa Bianchi per poi compiere un‟altra
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curva ad angolo retto, questa volta a sinistra. Da qui continuava quasi in linea retta
fino ad attraversare la strada di accesso all'Amministrazione, proseguiva costeggiando
il grande
séese , poi, oltrepassato un piccolo bosco (el boscheto), che si trovava
dietro le stalle dei buoi, girava un po‟ a sinistra per prendere una direzione obliqua
e arrivare a immettersi nell‟alveo attuale in corrispondenza dei terreni dei Ferraro.
Era un percorso sinuoso, ma, vi assicuro, bello da vedersi. Le buche che si formavano
nelle curve, le varie “gorghèe “ erano una manna per noi ragazzini quando si
andava a pesca.
Tornando ai confini dell‟Amministrazione, a nord essi erano delimitati da una
recinzione con una rete molto alta con nella sommità un doppio filo spinato; a est
il confine con i terreni dei Ferraro era delimitato da un fossato con due folte siepi
poste nei rispettivi lati. All‟interno del recinto dell‟Amministrazione c‟erano alcune
abitazioni
ricavate
da edifici esistenti.
Appena
passato il ponte d‟ingresso
dell‟azienda, a sinistra, c‟era la casa del fattore generale Vittorio Spizzotin. Dopo
la morte di questi, avvenuta nel 1958, la sua famiglia si trasferì altrove e la casa
diventò l‟abitazione della mia famiglia fino al 1966. Sopra gli uffici amministrativi
(mezà) erano state ricavate due abitazioni
in cui alloggiarono
le famiglie di
Bigliardi, direttore della latteria e di Peschiuta. In seguito la famiglia Peschiuta si
trasferì in un alloggio ricavato in un angolo dei grandi granai posti sopra il lato
ovest della cantina. Un‟altra abitazione era stata ricavata in un fabbricato posto
dietro i magazzini del tabacco. Qui abitava la famiglia di Luigi Simionato (Gigio
Sopeti), padre del mio coetaneo e inseparabile amico Giovanni (Gioanin). Fino a
qualche tempo dopo il 1945, un‟altra famiglia, quella del guardiano Emilio Marton,
alloggiò in una abitazione situata a nord della cantina. Tale alloggio fu poi
accorpato alla distilleria e i Marton si trasferirono nell‟abitazione ricavata dalla
ristrutturazione della stalla dei buoi, i leggendari buoi maremmani ormai soppiantati
dalla meccanizzazione. Nel recinto dell‟Amministrazione, proprio all‟angolo sud est
vicino al confine con i Ferraro e il “Pianton”, esistevano i resti di una specie di
vecchio bunker sotterraneo ricoperto da una “montagnola” di terriccio con una fitta
vegetazione di arbusti, in prevalenza acacie. Il posto era chiamato “el giassaron” in
quanto, in tempi lontani, quando non c‟erano i frigoriferi, serviva da deposito del
ghiaccio che era recuperato, in lastroni, da fossati e canali durante l‟inverno. A tale
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compito erano tenuti a contribuire anche i vari contadini che lavoravano i terreni del
padrone con contratto a mezzadria o “ al terzo “.
L’AMMINISTRAZIONE
In Amministrazione si accedeva per il viale, ancora esistente, che ha inizio in via
Bianchi a circa 300 metri dal Terraglio. A quel tempo il viale aveva un aspetto
diverso dall‟attuale. All‟inizio aveva due bei paracarri in marmo, seguiti da due
grandi ippocastani (chiamati maroneri per via del loro frutto simile ai marroni).
Queste belle piante, che in primavera si ornavano di una splendida fioritura, erano
presenti in vari luoghi del nostro paese. Se ne trovavano alla stazione ferroviaria, alla
scuola elementare in centro paese, nella villa Stucky e in altri posti. Purtroppo una
malattia micidiale li ha man mano colpiti decretando la loro massiccia decimazione.
Qua e là se ne vede ancora qualcuno ma si capisce che sono malandati. I due
esemplari presenti all‟ingresso del viale che immette in Amministrazione erano di
dimensioni ragguardevoli e avevano imposto il nome al luogo. Infatti, quel posto era
denominato “ ai maroneri “ e a distanza di anni dalla loro scomparsa i vecchi del
Baronbianchi così ancora lo indicavano. Tornando al viale di un tempo, ai lati c‟era
un fossato abbastanza profondo mentre ai margini della carreggiata c‟era un bel filare
di maestosi platani come sul Terraglio. Percorrendo questo viale si arrivava al ponte
del “ Pianton “. Di questo ponte, a causa della deviazione del canale, ora restano visivi
solo i due parapetti in pietra. Sorpassato il ponte, la strada si divideva in tre parti
andando così a formare, di fronte al fabbricato contenente il mezà, due grandi aiuole
verdi a forma di triangolo, con il vertice rivolto all‟ingresso del territorio e la base
verso il fabbricato. La grande aiuola di sinistra conteneva, oltre ad alcuni alberi, tra i
quali spiccavano un bel glicine e un grosso ippocastano (maronèr), la moderna pesa
per la pesatura dei carri. L‟aiuola di destra conteneva alcuni alberi tra cui due
maestose magnolie, tuttora esistenti, e un albicocco che regalava a me
e
all‟inseparabile Gioanin dei frutti squisiti. Nella mia lunga vita non ho più trovato
una qualità di armeini così deliziosa, ma forse l‟elemento ambientale gioca un ruolo
importante per il mio giudizio. C‟è da dire chè in realtà quei frutti non erano a nostra
disposizione; potevamo raccogliere solo quelli caduti dall‟albero. Allora di tanto in
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tanto, furtivamente e a turno, passavamo
sotto l‟albero per dare una energica
scrollatina, facendo finta di niente e senza fermarci a raccogliere i frutti caduti. Poco
più tardi si ripassava, noncuranti e senza fretta, in modo che fosse chiaro che si
raccoglievano solo i frutti caduti. Sono certo che alla Bruna, “ la triestina “ che
lavorava nel mezà proprio vicino alla finestra che stava di fronte a quel posto, le
nostre manovre non passavano inosservate, ma evidentemente era schierata dalla
nostra parte e non ha mai fiatato.
Anche le due magnolie erano teatro della nostra età infantile. Forse ancora oggi,
salendoci sopra, si noterebbero le nostre iniziali incise con l‟inseparabile britoin
(coltellino). Quante volte ci siamo saliti sopra! Nelle torride giornate d‟estate, là in
alto, nascosti nel verde del ricco fogliame, ci sembrava di dominare il mondo. Da
lassù si osservava tutta la vita che si svolgeva nell‟Amministrazione: si vedeva
arrivare la gente, i carri, il bestiame. Proprio sotto le due magnolie, davanti agli uffici,
s‟incontravano, per contrattare la vendita di bestiame, il mediatore Sandri, con i suoi
due baffoni d‟altri tempi, e il fattore generale Spizzotin. Dall‟alto delle due magnolie
abbiamo assistito più volte a quella che a noi sembrava una commedia. Sembrava
una scena tratta da un film western di Sergio Leone nel quale i due protagonisti si
sfidano a duello e si fronteggiano girando intorno per studiarsi. Era un‟ interminabile
sequenza di discussioni, di separazioni, di riavvicinamenti, di giri intorno, di finte
arrabbiature. I due contendenti, a turno, fingevano di rompere la trattativa per poi
ricominciare, ognuno con l‟intento di alzare o abbassare la posta a seconda del proprio
tornaconto. Alla fine, dopo che il tutto sembrava fallito, i due si riavvicinavano per
sigillare l‟accordo con un doppio rumoroso sberlone, palmo della mano su palmo della
mano, non prima di averci sputato sopra. Questo aveva il valore come e più di un
contratto redatto in presenza di notaio.
Dopo il ponte d‟ingresso, prendendo la strada sinistra, s‟incontrava una fitta macchia
di bambù, tuttora esistente, che si trovava entro un recinto per gli animali da cortile
della casa del fattore Spizzotin. Quindi s‟incontrava l‟ingresso di detta abitazione che
era ricavata all‟inizio di un lungo caseggiato comprendente, a seguire, la falegnameria
(poi trasformata in refettorio), dei grandi porticati per il ricovero di mezzi e carriaggi e
infine l‟officina meccanica. Dal ponte sul “Pianton” si vedeva la scalinata ricavata
sulla riva del canale che portava dal cortile della casa del fattore a una piazzola a
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livello d‟acqua dove era fissata una tavola obliqua, un anpòr usato per lavare i panni.
A quel tempo evidentemente l‟acqua dei canali si poteva quasi bere.
Dal ponte, prendendo la strada centrale, si arrivava al lungo fabbricato posto
frontalmente e avente nella parte centrale il cuore dell‟azienda: il
mezà. Questo
comprendeva una entrata con uno sportello per il pubblico e due grandi sale divise da
una vetrata. Nella prima sala trovava posto il capo ufficio Armando Sartori con tutti
gli impiegati, nella seconda sala, che aveva anche un ingresso proprio dal porticato
laterale, c‟erano i tavoli e le poltrone “nobili” per la baronessa e suo figlio. Il
fabbricato proseguiva a sinistra con un lungo porticato dietro al quale, fino al
dopoguerra, si trovava la grande stalla delle mucche. In seguito questo edificio,
ristrutturato e ingrandito, divenne magazzino per la lavorazione e il deposito del
tabacco. Dal mezà, proseguendo verso destra s‟incontrava l‟entrata dello scalone che
portava ai piani superiori in cui si trovavano gli alloggi occupati, in tempi diversi, da
Bigliardi, Peschiuta, ecc.; proseguendo per lo scalone si arrivava in cima, dove si
trovava un vasto granaio. La scala che portava al granaio mi è rimasta impressa nella
memoria perché aveva i gradini in mattoni rossi, consumati fino all‟inverosimile.
Chissà quante migliaia di volte, nel tempo, era stata percorsa da uomini che salivano
con sulle spalle un sacco da cinquanta chili di granaglie! Io stesso ho potuto osservare
varie volte la “processione” di operai intenti a quel massacrante lavoro.
Tornando al piano terra e proseguendo verso destra aveva inizio lo spazio di
pertinenza della Centrale del latte. Per prima cosa si trovava un sottoportico, chiuso da
inferriata, che dava accesso allo spogliatoio degli addetti alla latteria e a un locale
adibito alla distribuzione del latte e prodotti caseari;
questo era il “regno” di
Teodolinda Maccatrozzo, la mitica “ Inda “, che per anni svolse con fare gentile
questo compito prima di andare in pensione e cedere il posto ad Adele Candelù. Il
fabbricato proseguiva con la vera e propria latteria e terminava, proprio nell‟angolo di
fronte all‟ingresso della cantina, con il locale caldaia. La caldaia, fino agli anni
cinquanta, era del tipo Cornovaglia a grande volume d‟acqua e a tiraggio naturale,
quindi aveva bisogno di un adeguato camino. Ecco perché, poco più avanti,
s‟incontrava il maestoso camino in pietra come quelli che si vedono ancora in qualche
antico opificio, ad esempio nella filanda di Campocroce o nelle fornaci. Questo
purtroppo è stato abbattuto, si dice per problemi di stabilità, ma forse solo perché
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verso gli anni ‟60 la mitica caldaia Cornovaglia era stata sostituita con una più
moderna, del tipo multitubolare a tiraggio forzato per cui il grande camino non era
più necessario. Certo, per noi ragazzini era una grossa curiosità sbirciare dentro il
vecchio locale caldaia per vedere il fuochista Pietro Vecchiato ( Piero Caldo ) che con
la tipica pala da carbone introduceva palate di “ sassi” neri nel ventre infuocato di quel
focolare.
Ritornando al ponte, e prendendo la strada di destra si andava verso i granai con il
grande séese e l‟essiccatoio, poi si proseguiva passando davanti alla latteria e si
arrivava all‟ingresso della cantina, che aveva un grande portone adatto a far passare i
carri. Dietro questo fabbricato si trovava la distilleria. All‟interno della cantina, di cui
ricordo il gradevole fresco estivo, erano sistemate delle botti dalle dimensioni
incredibili. Un‟ala della cantina era seminterrata e vi si trovavano delle botti più
piccole con i vini più pregiati. Qui c‟era il vino per la baronessa e il “palazzo”, il vino
per Spizzotin, Sartori, Peschiuta, per il parroco di Zerman, don Narciso Mason, per il
parroco di Mogliano, Monsignor Luigi Fedalto, e, sicuramente, anche per il parroco di
Sanbughè, poiché una parte del territorio dell‟Amministrazione era sotto tale
parrocchia.
L‟Amministrazione era collegata alla villa Bianchi da un lungo viale (ancora
esistente) affiancato da imponenti platani: percorrendo tale viale si lasciava subito a
sinistra l‟officina meccanica. Più avanti, poco prima di arrivare al ponte sul “Pianton”
si trovava la issiera (oggi si direbbe lavanderia), una casetta con all‟interno dei
lavatoi, usati per lavare prevalentemente i camici e i vari teli usati in latteria. Sul
davanti della casetta uno spazioso cortile, in postiera del sol, consentiva una buona
asciugatura dei panni. La vicinanza con il canale facilitava lo scarico delle acque il cui
approvvigionamento era invece garantito da un pozzo artesiano rimasto attivo fino
agli anni cinquanta. Mia madre mi raccontava che prima della guerra era lei, con
Amelia Dal Ben (Melia Cicara), sua cugina e moglie del santoeo Antonio Candelù, a
compiere, due volte la settimana, questo lavoro per arrotondare le entrate della
famiglia.
Poco oltre si attraversava il ponte sul “Pianton” gemello di quello che si trovava
all‟ingresso da via Bianchi. Anche di questo ponte oggi rimangono visivi solo i due
parapetti in pietra. Più avanti si vedevano i resti dell‟ippodromo, una grande area,
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all‟incirca rettangolare, con al centro un grande albero con foglie sempre rosse. Fino a
prima della guerra in quest‟area era ricavata una pista ellittica per l‟allenamento dei
cavalli da corsa e da passeggio dei proprietari della villa. Dopo la guerra fu lasciata
per anni coltivata a prato. Oltre l‟ippodromo, lo stradone terminava nel
cortile/giardino della villa.
Tornando all‟inizio del viale e osservando il lato di destra si notava il grande recinto
dell‟allevamento bovino con subito dietro la grande nuova stalla. Questo enorme
fabbricato, eretto per sostituire quello vecchio, era stato costruito con concetti
assolutamente rivoluzionari e innovativi per quei tempi: c‟erano ampi spazi interni,
aveva tanta luce naturale che entrava da ampie e numerose finestre, il pavimento era
rivestito con idonee piastrelle sia nei corridoi sia nelle postazioni per gli animali, che
erano dotate di abbeveratoio self-service, ecc. Nel piano sopra la stalla era stato
ricavato un unico stanzone lungo non meno di sessanta metri e largo almeno dieci,
che, per alcuni anni, fu utilizzato per allevare i bachi da seta. L‟accesso al piano
superiore era possibile da una larga scala in metallo, provvista di corrimano, ma non
di parapetto. Proprio questo particolare è stato la causa di un episodio che ha lasciato
in me un segno ancora oggi visibile. Infatti, da bambino, mentre per gioco salivo la
scala, non potendo arrivare al corrimano, sono volato giù. Per terra, nel punto
dell‟impatto, emergeva uno spuntone di pietra sul quale puntualmente sono andato a
impattare con il mento, con la conseguenza di ritrovarmi un bel taglio sotto il mento.
Allora l‟inseparabile Gioanin si mise a strillare richiamando l‟attenzione della madre
Giuditta (Maria Sopeti) che, a sua volta, dopo aver eseguito il primo soccorso con
lavaggio a base del solito miracoloso aceto, mandò a chiamare la Este, mia madre, la
quale, dominato, non senza fatica, lo spavento, arrivò con la sua bici attrezzata per il
trasporto di pargoletti e a tutta birra mi portò dal medico condotto dottor Silvestro
Sinicco. Questi, personaggio storico del nostro paese e medico condotto per molti
anni, mi applicò sette punti di sutura. Fece un buon lavoro visibile anche ora che sono
arrivato ai settanta anni. Il medico condotto faceva questi interventi e all‟occorrenza
estraeva anche denti. Ora le cose sono cambiate …..e di molto!
Tornando alla stalla, che dall‟esterno non sembrava certamente tale, ma un qualsiasi
fabbricato industriale, e proseguendo, si arrivava al ponte passato il quale, a destra, in
fondo a un viottolo, si vedeva il grande Cason usato come ricovero per i vitelli.
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Andando avanti per il viale si arrivava al bosco con le sue gigantesche e vecchie
querce, frammiste a tanti altri alberi secolari. Passato il bosco, si trovava la villa
padronale.
LA VILLA
Il palazzo, a tre piani, ha una facciata semplice stile veneziano con, al primo piano,
una balconata che ne valorizza l‟aspetto non sfarzoso; sul lato est della villa si trova
una bella barchessa con porticato a sei luci e notevoli pilastri. Dietro la villa, con la
facciata rivolta verso il Terraglio, c‟è un‟ elegante chiesetta con un bel campanile. Sul
retro della chiesetta è stato eretto il mausoleo della famiglia Bianchi che comprende
nove sarcofaghi di pregio. In uno di essi riposano le spoglie del capostipite del casato,
Barone Federico. Il piano superiore della barchessa comprende una grande stanza
adibita a granaio e due locali più piccoli. Nello stanzone, tra le altre cose, erano stipate
la biada e le carrube usate come integrazione alimentare per i cavalli. Nelle due stanze
più piccole erano conservati i trofei di caccia dei tempi andati. Vi si trovavano
maestose corna di cervi, stambecchi, crani di grossi cinghiali e altri animali tutti con
incisione a fuoco della data, luogo e artefice della conquista del trofeo. Il tutto scritto
in tedesco e relativo prevalentemente all‟Ottocento. Le località di caccia erano di tutta
Europa e i cacciatori erano antenati del casato od altri nobili. Per me bambino
accompagnare mio padre quando si recava in quel luogo per prendere la scorta di vena
(biada) e carrube era come fare una gita premio.
Il palazzo è attorniato da un notevole bosco di secolari piante ora in buona parte
distrutto dal tempo. All‟interno del bosco una “montagnola” ammantata di fitta
vegetazione di bambù ricopriva la cantina per conservare al fresco i vini pregiati e
altro. Questa “montagnola” era ovviamente meta di giochi per noi bambini. A nord
della chiesetta c‟erano l‟orto e le grandi serre tipiche delle ville di una volta. In
quell‟orto c‟era una grande varietà di piante da frutto pregiate, come uve da tavola
introvabili o pere e mele di rara qualità. Naturalmente il luogo era inaccessibile a noi
ragazzini, ma, l‟attrazione era così forte che, aguzzando l‟ingegno, qualche volta si
trovava il modo di entrarci. Era, però, un‟ avventura da cuore in gola, perché per tale
peccato non era sufficiente l‟assoluzione del buon cappellano don Antonio Masiero,
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futuro parroco di Bonisiolo. Per fortuna ci andò sempre liscia, non siamo mai stati
colti in flagrante.
Nella villa, oltre alla baronessa e a suo figlio, viveva il “ maggiordomo” o “general
manager” (come si direbbe oggi) Santo Tasinato, che aveva seguito la baronessa
quando questa si trasferì da Este. Costui, un uomo di bassa statura, un po‟ tarchiato e
con una capigliatura nerissima sempre impomatata, aveva sposato Egide Tonetto
(Gide Braghessato) da Zerman. Sempre da Este era arrivata anche la cuoca di origine
abissina, di carnagione scura e piuttosto alta, sempre sorridente, di nome Ester, che
non mancava mai di regalarmi una mela o qualche altro frutto quando da bambino
passavo dal palazzo. Anche l‟ortolano e giardiniere Piero Schiesaro era arrivato dalla
tenuta di Este. Quando questi lasciò l‟incarico, il suo posto fu preso dal nipote di
Santo che si chiamava Rino Tasinato (Rino del paeasso) , che in seguito espletò anche
la funzione di autista e sposò Elda Tonetto, sorella della “Gide”. Sul retro della villa,
nell‟angolo di nord-est erano ricavate delle abitazioni poste sui tre piani dell‟edificio.
Al piano terreno abitava la famiglia di Antonio Candelù capo stalliere
dell‟allevamento di mucche, sopra abitava la famiglia di Paolo Rizzo (Pagoìn) capo
officina meccanica, giunto da Este nel 1934; sopra ancora la signora Olga, una distinta
donna, vedova di Castellan, direttore della catena di negozi per la vendita di latte e
affini. Allo stesso piano alloggiava la famiglia di Schiesaro, sostituita poi dalla
famiglia di Ottorino Zanato, che aveva occupato il posto di Eti Maccatrozzo nel ruolo
di magazziniere - factotum dei granai.
A Ovest della villa, appena di là del Terraglio, c‟è ancora una casetta, ora vuota,
dall‟architettura particolare. Era la casa del cocchiere e del giardiniere - ortolano ai
tempi della baronessa cugina dell‟ultima proprietaria. In quella casa andò ad abitare
Benedetto (Beneto), cugino di mio padre, quando si staccò dalla patriarcale famiglia
Scarpazza per andare a fare il giardiniere. Era nel periodo successivo alla grande
guerra. Nel periodo della mia residenza al Baronbianchi l‟aspetto della villa era ben
diverso da quello attuale. Sul davanti c‟era un giardino curatissimo, pieno di aiuole e
di numerosi grandi vasi colorati con limoni, cedri e mandarini. Il viale che collega la
villa all‟ingresso principale, posto all‟inizio di via Bianchi, era anch‟esso molto curato
e con ai lati due filari di grandi platani, intervallati da macchie di verde modellate da
continue potature effettuate dai giardinieri. A quei tempi la manodopera costava poco!
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“ EL CASON”
Molto probabilmente questo esemplare era l‟ultimo del genere rimasto nel territorio
moglianese. Pare che una volta ce ne fossero parecchi, sparsi in vari punti del
territorio: addirittura il nome dato alla via Casoni, l‟antica stradea bassa, è proprio
dovuto al fatto che in quel luogo se ne trovavano diversi. Erano utilizzati come
abitazioni da famiglie non certo agiate. Erano privi di pavimentazione, con il tipico
tetto ricoperto di canne da palude e poche aperture per farvi entrare luce. Quello di
cui parlo era situato nelle adiacenze del bosco della villa Bianchi, in corrispondenza
dell‟ansa, una curva ad angolo retto che il “ Pianton “ faceva in direzione del ponte di
cui ora sono visibili solo i parapetti. Il posto era bello, si potrebbe dire romantico,
poiché dalla villa vi si arrivava percorrendo un vialetto posto lungo il corso d‟acqua e
affiancato da un filare di querce secolari e altri arbusti ad alto fusto. Il Cason era di
dimensioni ragguardevoli, un vero e proprio casermone utilizzato per l‟allevamento di
un notevole numero di vitelli. Un grande recinto esterno, con palizzata di legno tipo
ranch del Far West, completava l‟opera. Una piccola casa, addossata alla parete del
Cason rivolta a ovest, ossia verso il bosco, era abitata dalla famiglia di chi conduceva
l‟allevamento. In quella casa sono nato e sono vissuto fino all‟età di circa tre anni.
Mio padre, in quel periodo, oltre a lavorare alcune ore della giornata nella centrale del
latte, aveva il compito di curare l‟allevamento dei vitellini. A quei tempi i padroni
esigevano impegno a tempo pieno, che non significava lavorare solo otto ore al
giorno!
Data la vicinanza al palazzo, la baronessa faceva delle capatine per far visita alla
Este, mia madre, con cui ha sempre avuto un buon rapporto, e per coccolare il piccolo
della famiglia, il sottoscritto.
Tornando alla descrizione del luogo, ricordo il “pontile” costruito su quattro lunghi e
robusti pali di gasìa (acacia), infissi sul fondale del “Pianton”, scavato in quel punto
per ricavare una buca, che permetteva di attingere acqua limpida per abbeverare i
vitelli e, allo stesso tempo, lavare i panni su un lavatoio, un ampòr sistemato accanto
ai pali stessi. Per abbeverare le bestiole, l‟acqua era prelevata con un secchio di legno,
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fissato a una lunga asta, anch‟essa di legno, e poi versata in una canaletta sopraelevata
costruita con delle tavole. In questo modo ingegnoso l‟acqua era incanalata fino
all‟abbeveratoio posto nel recinto dei vitelli.
Quando andammo via da quel posto, subentrò Giuseppe Faggian (Bepi Fajan) con la
sua famiglia. Bepi era amico di mio padre, era un uomo molto paziente e si
soffermava volentieri a parlare a noi ragazzini (per noi ragazzini s‟intende di solito me
e Gioanin) della “Merica”. Era stato per anni in Argentina e ci parlava con nostalgia
delle praterie infinite e delle mandrie che vi si trovavano. Quando poi, in estate,
doveva portare la mandria di vitellini a pascolare in qualche prato verso Zerman (una
specie di transumanza lungo la via Bianchi) e ci chiamava per dare una mano, non ci
pareva vero! Ritornavo spesso al Cason, inconsciamente sentivo un‟ attrazione per
quel posto. Più tardi ho intuito il perché : avevo trascorso lì i primi anni della mia vita
e anche se non avevo nessun ricordo apparente, qualcosa era rimasto dentro!
Quando andò via Bepi Faggian, subentrò la famiglia di Ermenegildo Vecchiato (Tita
Caldo). Col tempo l‟attività di allevamento di bovini cessò. Per qualche anno il
Cason restò abbandonato, poi fu demolito e per me fu un grosso dispiacere, anche se
nel frattempo la vita mi aveva portato lontano e con nuovi interessi.
DAI “CAVAI”
Abbiamo visto prima che l‟ingresso del viale che porta in Amministrazione era
detto “ ai maroneri “, per via dei due grossi alberi che vi si trovavano. Da quel punto
proseguendo per via Bianchi, per circa centro metri, si arrivava “ dai cavai “, luogo
consistente in un gruppo di fabbricati eretti nelle adiacenze della stalla dei cavalli. In
quel complesso partendo da ovest si trovava l‟abitazione della famiglia di Armando
Sartori, capo del “mezà”. La casa aveva sul davanti un ingresso diretto in via Bianchi
e un ingresso posteriore sul cortile dei cavalli. Un po‟ indietro, spostato un po‟ a Est,
c‟era un caseggiato che ospitava due nuclei famigliari. Nella abitazione del lato ovest,
quindi vicino ai Sartori, nel periodo da me considerato, ha trovato alloggio la famiglia
di Pasquale Casagrande (Saeatina), poi di Alfredo Zanadel, autista rimpatriato dalla
Libia dopo la guerra, poi di Tranquillo Requale, autista morto tragicamente in
servizio, poi di Mario Berton (Fasioeo) addetto alla stalla delle mucche e infine di
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Angelo Moro (Santèa) operaio agricolo. Nel successivo alloggio abitarono le famiglie
di Luigi Simionato (Gigio Sòpeti), addetto a condurre i cavalli nei trasporti con carri e
nel traino della falciatrice per il taglio dell‟erba medica (spagna), di Costante Marcato,
addetto all‟allevamento dei maiali e di Ettore Sottana, operaio agricolo. Alla fine di
questo caseggiato iniziava il grande porticato, alto due piani e lungo circa otto metri,
che si collegava al fabbricato della stalla dei cavalli. Un‟unica grande colonna
centrale, eretta con pietre a “vista”, sosteneva il porticato dal lato del cortile. In questa
colonna, di sezione quadrata con lato non inferiore a sessanta - settanta centimetri,
erano infisse delle s-ciòne (anelli) a cui erano legati i cavalli quando si doveva
procedere alla ferratura o alla tosatura. In quel porticato, addossato alla parete della
stalla, c‟era un grande abbeveratoio, un lebo alimentato da una pompa a stantuffo che
pescava l‟acqua nel pozzo artesiano posto al margine del cortile, vicino al recinto
esterno dei cavalli. Il retro del porticato era chiuso dalla facciata di un fabbricato
costruito poco prima del 1940 e comprendente al piano terra, una grande rimessa dove
trovavano posto quattro splendide carrozze d‟epoca, con eccellenti finiture. C‟era,
inoltre, il deposito dei finimenti per i cavalli, della biada e delle carrube. I finimenti
erano di vario tipo e taglia, per trasporti leggeri e per quelli pesanti, detti comàci.
Sopra la rimessa era ricavato un alloggio che fu inaugurato dalla mia famiglia poco
prima della nascita di mia sorella Maria, ultima dei cinque fratelli. In quella casa,
finalmente, mia madre poté stare per una ventina di anni senza dover traslocare come
aveva dovuto fare spesso. Più avanti iniziava il fabbricato della stalla, anzi delle stalle
perché in realtà c‟era l‟edificio primitivo con sopra il fienile (tèsa) e uno nuovo,
attaccato al vecchio. Dall‟interno della costruzione più vecchia un corridoio
conduceva a una porta che dava accesso a una stanza esterna dove c‟erano un letto, un
tavolino e tutti gli utensili e materiali che mio padre usava per esercitare il mestiere di
sellaio, che aveva appreso durante il servizio militare. Tale attività era svolta nei
ritagli di tempo, anche se non era proprio saltuaria poiché comprendeva tutti i lavori in
cui c‟era di mezzo il cuoio e qualsiasi tipo di cordame: quindi riparazioni a finimenti
di cavalli, cinghie di trasmissione di macchinari usati in agricoltura, in latteria o
cantina, preparazione di tutti i tipi di corde, ecc. Quanta passione e perizia ci metteva
mio padre nello svolgimento di quest‟attività! Ricordo quando preparava lo spago per
compiere le cuciture sul cuoio. Stendeva tre o quattro fili di spago sottile, da caeghèr
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(calzolaio), a seconda della grossezza voluta, che poi fissava a un estremo legandoli a
un apposito gancio. A questo punto incominciava ad arrotolare con cura gli spaghi,
tenuti tesi, appoggiandoli a un ginocchio e passandovi sopra, più volte, il palmo della
mano. Seguiva la stesura della pece che era contenuta all‟interno di un pezzetto di
cuoio per essere presa con la mano. Dopo vari passaggi, avanti e indietro, lo spago era
pronto, impregnato di pece, che aveva lo scopo di mantenere uniti i tre o quattro fili e
di preservare la cucitura dalla pioggia. Ultima operazione era la preparazione delle
punte dello spago, troppo grosso per entrare nella cruna dell‟ago. Le due estremità
dello spago erano lasciate senza pece per consentire di poter sfilacciare i fili, poi si
procedeva ad arrotolare anche le punte e a passarci la pece. A questo punto si poteva
iniziare la cucitura che era di norma effettuata a due aghi. Il risultato era sempre una
cucitura che sembrava fatta a macchina, tale era la regolarità del punto.
All‟esterno della stalla c‟erano due recinti con staccionate in legno usati per lasciare i
cavalli all‟aperto e in semi-libertà. Accanto alla staccionata, ai margini del cortile,
faceva bella mostra di sé un pozzo artesiano dotato di una bella vera in marmo. Un
gran bilanciere, come d‟uso, completava l‟opera e facilitava il prelievo d‟acqua. Era
formato da un lungo e grosso palo piantato a qualche metro dal pozzo. La sommità
terminava con una forcella attraversata da un asse di ferro. Su questo, tramite una
cerniera, era fissato, all‟incirca nel proprio baricentro, un secondo palo che poteva
così oscillare come un bilanciere. Alla estremità opposta al pozzo, era ancorato un
grosso masso, che aveva lo scopo di bilanciare il peso del secchio pieno d‟acqua.
All‟estremità che si trovava sopra il pozzo, era fissata una catena, che sosteneva
un‟asta di legno a cui era fissato il capiente secchio, anch‟esso di legno. Si otteneva
così lo scopo di poter sollevare il secchio pieno d‟acqua con un modesto sforzo.
Alcune barchesse poste all‟intorno del fabbricato erano usate per il ricovero dei vari
carri, in particolare quelli tipici, simili a quei carri coperti che si vedono nei film del
Far West, usati per il servizio di raccolta quotidiana del latte. L‟interno delle stalle
poteva contenere circa trenta cavalli, ma non ricordo si sia mai arrivati a tale numero.
Infatti, la parte iniziale della stalla vecchia, quella vicino al porticato di entrata, era
sempre usata per stipare alcune balle di paglia e costituiva, nei mesi invernali, una
specie di sala giochi per me e qualche amichetto.
Il parco equino era costituito da diversi muli, tra cui la Gina, una docile mula dal
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mantello grigio chiaro, che rimase come ultimo esemplare presente nel luogo; da due
bei cavalli di taglia media - piccola (Franco e Fiore); da tre cavalle di taglia più grande
(Olga, Prima e Fulvia), che alternativamente davano alla luce dei bei puledrini ed
erano utilizzate per trasporti medio - pesanti. Le tre cavalle erano proprio belle a
vedersi, ben strutturate. La Olga aveva il mantello fulvo, era la più bella, ma era
famosa per le sue morsicate improvvise, a tradimento. Infatti, se ne stava tranquilla,
sorniona, con gli occhi socchiusi, fingendo di dormicchiare. Invece faceva così per
valutare meglio le distanze, e, quando un malcapitato le capitava a tiro, non sbagliava
il colpo, anzi il morso. La Prima era la più tranquilla, era un po‟ più tarchiata e aveva
il manto grigio chiaro tutto chiazzato di macchioline bianche. La Fulvia assomigliava
alla Olga ma con il manto più scuro ed era la più irrequieta, con più norbin, ma non
aveva l‟abitudine di morsicare o scalciare. Forse era più esuberante delle compagne
solo perché più giovane. A completare il tutto c‟era un asino, dal manto color
nocciola, di nome Roseto. Questi era di taglia medio - piccola e per desiderio della
baronessa era usato raramente e solo per piccoli trasporti. Era tenuto sempre ben
curato e riceveva spesso visita dalla baronessa, che arrivava con un immancabile
cartoccio di zollette di zucchero da fargli gustare tra una carezza e l‟altra.
Naturalmente quando appariva all‟orizzonte la bicicletta della baronessa Federica,
accompagnata dall‟inseparabile Wolf, un bel cane lupo, io e Gioanin non potevamo
non essere nei paraggi cosicché i primi due quadrettini di zucchero erano riservati a
noi. In quei frangenti il mio inseparabile amichetto, pur contento di succhiare le due
zollette non mancava di mormorare, a denti stretti: - a noantri do quadreti, a Roseto
tuto el scartosso! .
Le fortune di Roseto durarono finché visse
la baronessa poi venne anch‟egli
utilizzato per ogni tipo di trasporto e per lui, la vita divenne dura. Sì, perché la gente
comune non capisce che un musso è sempre un musso, e che non gli si può chiedere di
girare a destra, se lui ha in mente di girare a sinistra, oppure di andar di fretta, se lui in
quel momento vuole andare piano! E allora giù botte, senza alcun risultato. A Roseto
andava bene quando, di tanto in tanto, si andava al palazzo per prendere la biada e le
carrube. In quell‟occasione era attaccato a un piccolo carretto che mio padre mi
lasciava condurre, si fa per dire, poiché il percorso e l‟andatura li decideva Roseto. Un
pomeriggio, durante il ritorno da questo periodico viaggio, il nostro eroe, mentre
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trotterellava tranquillo, drizzò e irrigidì le gambe provocando una frenata incredibile.
Per poco non fui sbalzato in avanti fuori dal carretto. Fatto questo arretrò di un paio di
metri e si mise ad annusare con cura il terreno, poi alzò in aria il testone arricciando le
labbra all‟insù mostrando dentoni e gengive. Ripeté la cosa alcune volte, lentamente.
Per terra aveva sentito l‟odore di urina di una cavalla in estro. Mio padre un po‟
spazientito lo rimbrottò dicendoli: - dài Roseto, moeghea (smettila) che se fa note! - E
il musso riprese il cammino. Questo vizio delle frenate improvvise costò la vita a
Roseto che nel frattempo era diventato vecchio, vicino alla trentina d‟anni. Infatti, mi
hanno riferito che dopo la mia partenza dal “Baronbianchi”, il nostro eroe, mentre
andava spedito trainando un carretto, all‟improvviso attuò la solita brusca frenata per
annusare una traccia di urina sparsa per terra, sennonché, come succede con le
autovetture vecchie che non hanno più la frenata equilibrata, sbandò e finì
accartocciato a terra. Il carico gli franò sopra mentre una stanga del carretto si spezzò.
Il moncone della stanga lo trafisse ferendolo seriamente tanto che furono costretti ad
abbatterlo. Non so se in quell‟occasione il Barone Pieradolfo fece eseguire la volontà
della madre che aveva espresso il desiderio che Roseto non fosse portato al macello
ma sepolto per terra come un comune mortale.
Mio padre amava i cavalli, un amore nato forse quando era bambino e suo padre mio nonno Lorenzo - possedeva in casa una cavallina che usava esclusivamente per
trainare il calessino con cui si spostava per le sue incombenze di capo famiglia di una
“truppa” composta da quaranta persone. Un po‟ di questo amore l‟ha trasmesso a me.
Non ho mai mangiato e mai mangerò carne equina; ho passato troppi momenti con
quei bei puledrini nati dalla Olga e dalla Prima e poi, nella mia infanzia, ho incontrato
e percorso un periodo importante con Franco, uno dei due cavalli medio - piccoli già
nominati. Franco era il mio cavallo, il mio amico, il mio fraterno amico. Era con il
manto grigio chiaro tutto a macchioline. Io lo andavo spesso a trovare, lo accarezzavo,
lo spazzolavo con una spazzola morbida, gli portavo qualche manciata di biada o
qualche carruba e lui, con un particolare brontolio e pendolio del capo, mi dimostrava
la sua gratitudine. Per anni la nostra amicizia continuò serena. Poi cambiò la
situazione e il numero dei cavalli necessari all‟Azienda diminuì. Un mattino mio
padre partì con Franco e Fiore a traino di un carretto e si recò al traghetto di San
Giuliano con destinazione punta S. Giobbe di Venezia, dove c‟era il macello. Ritornò
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verso sera con una grossa borsa di paglia con dentro uno zoccolo anteriore di ciascuno
dei due cavalli. Spiegò che la baronessa aveva ordinato di voler vedere la prova che i
due cavalli non venissero destinati a qualcosa di peggiore, tipo lo sfruttamento in
lavori massacranti. Così, tragicamente finì la mia storia con Franco.
Adesso dopo tanti anni quando passo per via Bianchi, davanti “ ai cavai” mi si stringe
il cuore. Il luogo è abbandonato, il tetto del grande porticato che univa le abitazioni
alla stalla è parzialmente crollato. Forse la mia abitazione è ancora in buone
condizioni perché era stata costruita molto dopo di quelle che le stavano attorno. Dalla
strada s‟intravvede ancora la grande scala di legno che portava al pianerottolo
d‟ingresso. Da quel ballatoio che costituiva una specie di stanzetta aggiuntiva per la
nostra abitazione, ho seguito, come da un pulpito, tanti avvenimenti legati alla vita
quotidiana che si snodava intorno ai cavalli. Ricordo i giorni in cui arrivava il
maniscalco Angelo Zanato col suo aiutante Callegari; ricordo la sua destrezza nel
sagomare i roventi ferri, il puzzo di unghie bruciate e l‟orgoglio che provavo quando
mi era concesso di girare il manico della ventola della forgia per attivare il fuoco. Ero
talmente piccolo che per arrivare al manico dovevo stare in punta di piedi.
Da quel ballatoio ho assistito al censimento dei cavalli fatto dall‟esercito in tempo di
guerra. Quel giorno arrivarono dei soldati portando dei libroni, delle aste graduate e
non so cos‟altro. Mio padre sistemò nel porticato una sedia e un tavolino su cui i
militari poggiarono i libroni, poi, a uno a uno, tutti i cavalli furono fatti uscire, fu
controllata l‟altezza, la dentatura e l‟aspetto. Tutto fu regolarmente registrato sui
libroni. Io seguivo con curiosità, ma al tempo stesso con apprensione, perché avevo
paura che alla fine si portassero via il mio Franco.
Tornando alla scala di legno che dava accesso alla mia abitazione, sono sicuro che
ancora oggi se la si và a vedere da vicino, si notano le centinaia di chiodi che da
piccino ho piantato nei primi due gradini. A quei tempi capitava che qualche volta mia
madre si dovesse assentare da casa e che quindi mio padre, che lavorava nei paraggi,
fosse costretto a tenermi a bada. Cosa c‟era di meglio se non consegnarmi un pugnetto
di chiodini, quelli con la testa larga detti broche e un piccolo martello da caegher ? Il
risultato era che io non mi allontanavo fino al rientro della mamma e la scala piano
piano si arricchiva di chiodini. Del resto avevano provato a mettermi all‟asilo, ma la
cosa non aveva funzionato per più di una settimana. Infatti, mia madre che aveva
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escogitato un sistema per convincermi, mi metteva nella tasca del grembiulino delle
caramelline da consumare durante la permanenza in asilo. Sennonché un compagno di
classe, un certo Camillo, più grande e grosso di me e, come se non bastasse, figlio del
Maresciallo dei carabinieri, una volta accortosi che avevo quella invitante scorta,
incominciò a requisirla per sé ogni volta che arrivavo in aula. Ho riferito il tutto alla
mamma e al papà. La cosa arrivò anche alle suore, ma che ci si poteva fare? Camillo
era figlio del Maresciallo dei carabinieri! Così andò a finire che mi accontentarono
lasciandomi a casa a piantare chiodini sulla scala.
Mio padre diventò capo “dei cavai” occupando il posto di Ernesto Zago quando
questi andò in pensione. Aveva un aiutante fisso, Virginio Vecchiato (Caldo) da
Zerman che aveva sposato una Santagà (Fuméto). Il buon Virginio era il mio santoeo
di battesimo, per questo motivo, come si usava a quel tempo, il mio secondo nome di
battesimo è appunto Virginio. Il mio amichetto Gioanin lo chiamava in tono
canzonatorio “vecio pùa “ poiché Virginio era sempre ben curato nell‟aspetto, e
arrivava al lavoro sempre ben vestito, come se si recasse a lavorare in ufficio, poi si
cambiava con le vesti da lavoro e a fine giornata si lavava e lisciava con cura. In
questi casi si diceva che uno si manteneva come una pùa, impeccabile. Ai vezzi di
Gioanin il buon Virginio rispondeva rincorrendolo con finte minacce e canzonandolo
a sua volta con l‟epiteto “Nane scittapane” e il tutto finiva lì.
Mio padre era come lo sceriffo del posto; in effetti, anche il luogo aveva un certo
aspetto da Far West con quelle staccionate da “ Corral”. Forse per questo una volta,
appena finita la guerra due soldati di lingua inglese, si presentarono chiedendo dello
“sheriff”. Avevano bisogno di una “balla” di paglia. L‟autorità di mio padre non è mai
stata messa in discussione se non una volta e la cosa ebbe un seguito che determinò un
episodio proprio da Far West, episodio che mi è rimasto impresso per tutta la vita,
anche se allora avrò avuto sì e no quattro - cinque anni. Non avevo mai visto, e quella
fu la prima e l‟ultima volta, mio padre menar le mani. La cosa si svolse così: Luigi
Simionato (Gigio Sopeti) venne “ dai cavai “ perché doveva fare un viaggio a Dese
per un trasporto con un grande carro. Si apprestò a prendere le due cavalle Olga e
Prima senza prima chiedere ad Angeo Scarpazza, sceriffo del posto, il permesso. Non
l‟avesse mai fatto! Mio padre gli contestò la cosa affermando che decideva lui quali
erano i cavalli da prendere. L‟altro rispose che lui voleva la Olga, la Prima e basta!
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Una parola tirò l‟altra, poi arrivarono gli spintoni, alla fine si arrivò alle brassae per
terra, una specie di lotta“ greco–nostrana” nel polveroso cortile dei cavai, il tutto
sotto gli occhi spaventati delle rispettive consorti Este e Maria e dei rispettivi
pargoletti, il sottoscritto e Gioanin. Alla fine mio padre, più alto e robusto, ebbe il
sopravvento e immobilizzò Gigio con le spalle a terra. A quel punto, se ci fosse stato
l‟arbitro avrebbe decretato la vittoria di mio padre per manifesta inferiorità. Non fu
così, mio padre allentò la presa per rialzarsi e finire la cosa lì, ma Gigio , scornato e
umiliato, addentò un dito della mano di mio padre e quasi lo tranciò, con notevole
spargimento di sangue. A quel punto intervennero le due donne, i due contendenti si
separarono e la Este, con la sua solita perizia, aiutata dalla dispiaciuta Maria, iniziò la
medicazione a base di aceto e bende ricavate dalle “fasce” usate al tempo dei neonati.
Forse sarebbe stato opportuno ricorrere alle cure del dottor Sinicco per l‟applicazione
di qualche punto di sutura perché mio padre si portò le tracce di quella ferita per molti
anni. Al giorno d‟oggi un fatto simile andrebbe a finire in tribunale con tanto di
avvocati, quella volta il giudice fu la Baronessa che scambiò le abitazioni tra la
famiglia Simionato e la famiglia Marcato, e confermò a mio padre il compito di
gestire i “cavai”. Il mio amico Gioanin, seppur piccolo, per diverso tempo conservò
come un senso di vergogna nei miei confronti per il gesto commesso dal padre.
DAI “BÒ”
A circa duecento metri dai cavai, andando verso Zerman, si trovava il complesso dai
bò, chiamato così perché vi si trovava la stalla dei buoi maremmani, quei grandi docili
animali, con il manto bianco e le lunghe corna a manubrio. Erano usati per l‟aratura
dei campi e per i trasporti pesanti. Adesso il fabbricato della stalla è stato ristrutturato
ricavando due abitazioni di proprietà di Franceschini e Tonin Ferraro. Al tempo
concernente la mia narrazione, il fabbricato era composto, partendo da ovest, da due
alloggi sovrapposti. A livello del cortile risiedeva la famiglia di Giulio Candelù,
conduttore della stalla dei buoi, al piano superiore la famiglia Michielin cui e poi
subentrata la famiglia di Giovanni Bortoletto addetto alla stalla delle mucche. La stalla
dei buoi si trovava sul lato est del fabbricato. Al centro un ampio porticato univa i due
fabbricati. In esso, da un lato si trovava l‟entrata delle abitazioni, dall‟altro quella
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della stalla. Sotto il porticato, appesi al muro, vi erano degli enormi doi (gioghi) usati
per sottomettere i buoi all‟aratro o ai pesanti carri.
La stalla conteneva una decina di bovini suddivisi in buoi da man cioè destrorsi e
buoi da fora ovvero sinistrorsi. Era compito dell‟esperto Giulio Candelù formare le
coppie che dovevano essere ben equilibrate per ottenere una buona resa. Era uno
spettacolo vedere all‟opera quei lenti ma possenti animali. Ho nella mia memoria il
ricordo di qualche mattina, al sorgere del sole, mentre ero a letto con le finestre
socchiuse e sentivo arrivare da lontano, nel silenzio totale di quei tempi, la voce del
conduttore che incitava i buoi addetti all‟aratura: volta fora…volta man…aooh!
Il
tempo ha cambiato le cose, le prime macchine Landini, i primi trattori Ferguson hanno
decretato la fine dell‟utilizzo dei buoi maremmani. La stalla fu chiusa e ristrutturata
per ricavarvi un‟abitazione dove si trasferì il guardiano Milio Marton con la sua
famiglia e l‟immancabile bassotto “Pronto”.
LA VIA BIANCHI
La via Bianchi ha subìto, come altre strade del territorio, un visibile cambiamento
sia per quanto riguarda l‟aspetto sia per quanto concerne l‟utilizzo. L‟attuazione del
nuovo ponte sullo Zero all‟altezza delle case dei Pistolato e l‟attuazione dello sbocco
in via Vanzo, per permettere la realizzazione della via Cavalleggeri, hanno
determinato il cambiamento radicale del traffico nel tratto iniziale di via Bianchi che
va dal Terraglio alla villa Lingueri. Un cambiamento opposto si è invece concretato
nel tratto successivo della strada che, da quel punto e fino alla casa che fu dei Favaro,
del ramo soprannominato Fuga, è diventata strada a uso dei soli abitanti giacché non è
possibile andare oltre se non a piedi o in bicicletta. La strada si riapre verso la fine in
prossimità della vecchia abitazione che fu dei Favaro del ramo soprannominato
Scarpazza, la casa dei miei nonni. Dopo quella casa si oltrepassa il canale “Pianton”,
si entra nel territorio di Zerman detto “Alture” e la strada termina innestandosi in via
della Croce. Fino agli anni cinquanta - sessanta la via era percorsa, oltre che da tutti i
carri usati per le varie attività dell‟Azienda Bianchi, anche dagli abitanti di Zerman e
dintorni per recarsi a Treviso o Mestre - Venezia con la filovia, che allora era molto
usata per gli spostamenti, perché la motorizzazione di massa era ancora di là da
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venire. Per quanto riguarda l‟aspetto, un cambiamento radicale, nel tratto iniziale,
avvenne quando furono abbattuti i grandi alberi che costeggiavano la strada fino
all'osteria Bonotto. Si trattava di vecchi e massicci alberi della famiglia dei pioppi
chiamati nel linguaggio comune talpone o albare. Avevano foglie più grandi di quelle
delle classiche altissime pioppe che si vedevano, qua e là, a indicare confini o
riferimenti vari. Avevano inoltre la caratteristica di essere terreno ideale per la
formazione di vere e proprie nidiate di piopparelli, quei gustosi e profumati funghi
che, assieme ai chiodini, hanno fornito da sempre un prelibato alimento alle nostre
genti. Nella tarda estate o in autunno si vedeva la processione di gente che, munita di
lunghe scale, saliva su quelle piante a raccogliere il prelibato frutto. Ricordo che
facevo coppia con mio fratello Orfeo, appena tornato dalla guerra. In due si andava
meglio a portare la lunga scala che poi io tenevo ferma mentre egli saliva sull‟albero.
Ricordo anche le raccomandazioni di mia madre, sempre apprensiva : - State attenti a
non raccoglierli se ci sono chiodi o ferro arrugginito! - Questa credenza di ritenere
velenosi i funghi cresciuti vicino a materiale ferroso era diffusa, come l‟usanza di
farne mangiare al gatto un po‟ prima di consumarli, per assicurarsi che non fossero
velenosi. A questo proposito ricordo un fatto avvenuto nella mia famiglia. Avevamo
una gattina bianco-nera ormai molto vecchia; in occasione di un‟abbondante raccolta
di funghi mia madre, come di consueto, cucinò i prelibati piopparelli e ne diede subito
un‟abbondante porzione alla vecchia gattina. La sera mangiammo con gusto la
pietanza accompagnata all‟immancabile polenta. Il giorno dopo qualcuno della
famiglia si accorse che mancava la gattina. Allora cerca di qua cerca di là, finché mio
padre la trovò, morta, tra il fieno, nella tèsa posta sopra la stalla dei cavalli. Apriti
cielo! La gattina aveva mangiato funghi, ecco perché era morta! Da quel momento
mia madre e le mie sorelle, chi più chi meno, incominciarono a star male, a vomitare.
Mio padre, seppur poco convinto, si recò dal dottor Sinicco che con sicurezza
diagnosticò che la gattina era morta di vecchiaia e disse che, in occasione di una futura
raccolta di funghi così abbondante, avrebbe gradito fare egli stesso da cavia. Da quel
fatto mi sono reso conto cosa può provocare la suggestione!
Tornando all‟aspetto della strada di quei tempi, lungo tutto il tratto fiancheggiato dai
grossi alberi, appena descritti, c‟era un fossato al margine del quale si snodava una
fitta siepe di platani tagliati appena sopra il terreno in modo da favorire una fitta
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produzione di rami. Nel tratto di strada in corrispondenza del terreno in affitto alla
famiglia Polon la siepe di platani era sostituita da un filare di stropari, quella specie di
salici adatti alla produzione di rametti flessibili, detti strupiei, usati per legare i cai
delle viti durante la potatura.
Percorrendo la strada si trovavano, di tanto in tanto, delle passae, accessi a degli
stradoni di campagna, detti caresoni, che si differenziavano dai tròsi perché erano più
larghi e consentivano il transito dei carri. Spesso questi stradoni erano affiancati da
filari di gelsi, i famosi moreri, presenti un po‟ dappertutto poiché fornivano l‟unico
alimento per i bachi
da seta, il cui allevamento era diffusissimo. Partendo dal
Terraglio il primo careson che s‟incontrava, era sul lato destro della strada, di fronte al
vecchio ippodromo della villa Bianchi e portava alla casa dei Biasetto e Berton.
Quella vecchia casa, che comprendeva due alloggi e una stalla che poteva contenere
una trentina di mucche, ora è stata ristrutturata e trasformata in un complesso edilizio
e si trova nei pressi della proprietà Boldini. Un successivo stradone, simile al
precedente, si trovava proprio di fronte all‟accesso ai cavai e aveva, ai lati
dell‟ingresso, due monumentali pioppe.
La campagna intorno alla strada aveva un aspetto diverso dell‟attuale poiché i terreni
erano suddivisi in campi e non in distese livellate, dette piane, come ora. Oggi alcune
abitazioni che si trovavano lungo la via sono state abbattute, altre sono state
ristrutturate e alcune nuove costruzioni sono state erette.
Proviamo a fare un ipotetico viaggio lungo la via nel periodo dell‟immediato
dopoguerra. La strada ha inizio nel Terraglio alla “rampa” dove s‟incontra, a sinistra,
la cancellata d‟ingresso al vialone che porta alla villa Bianchi. Proprio di fronte alla
rampa, dall‟altra parte del Terraglio, si trovava la casa dei Pezzato, che fu colpita da
una bomba sganciata da “Pippo”, l‟aereo, così battezzato dalla gente, che era solito
fare incursioni a tarda sera durante la guerra. La casa fu sostituita da una prefabbricata
di legno, che per anni rimase come unica dimora della famiglia. In seguito in quella
zona fu eretta la fabbrica Nigi.
Percorrendo la strada a destra s‟incontrava lo stradone che portava dai Biasetto e
Berton, a sinistra si vedeva il vecchio ippodromo con sullo sfondo il grande bosco
della villa. Più avanti si arrivava ai maroneri con il viale d‟ingresso
all‟Amministrazione e, di fronte, l‟ingresso dello stradone che portava alla casa dei
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Boldini. All‟inizio dello stradone si trovava la casa dei Polon, affittuari di Carlo
Boldini. Proseguendo per la via s‟incontrava a sinistra la casa dei Sartori e quindi il
complesso dei cavai. Più avanti, sempre a sinistra, si arrivava dai bò con l‟ingresso
caratterizzato dalla presenza di due alte pioppe. Proseguendo si trovava, a destra,
appena prima della strada ora denominata Cavalleggeri, la vecchia casa dei Reato,
affittuari di Boldini. Ora la vecchia casa è stata rifatta ottenendovi due alloggi.
Passata la casa dei Reato aveva inizio la via Bonotto divenuta via Cavalleggeri nel
tratto rettilineo che porta allo sbocco diretto in via Vanzo. Una volta, prima della
costruzione del nuovo ponte sul fiume Zero, verso la fine la strada girava a sinistra,
dove ora si trova il piazzale del consorzio agrario dei Pistolato, per immettersi nel
vecchio ponte tuttora esistente e proseguire per via Vanzo percorrendo la via Bovio.
Era la strada che facevo quando da ragazzo andavo al catechismo. Ricordo che si
passava davanti alla casetta di un vecchietto che teneva una decina di cani, per questo
era chiamato “el vecio dei cani “ ed era proprio uno spettacolo vederlo quando portava
a spasso gli animali lungo l‟argine dello Zero. Tornando all‟inizio della via Bonotto
subito dopo villa Lingueri, s‟ incontrava la casa di Nino Ceolin detto Gancio, poi la
casa di Virginio Gobbo che viveva col figlio Nino (Cuco). Più avanti, nell‟angolo con
la diramazione della strada che ha mantenuto il nome iniziale, si trovava la vecchia
casa di un‟altra famiglia Gobbo, quella di Altinio, padre di Prima, di Secondo, di
Virginio, fondatore del panificio omonimo, di Linda, Ester, Oreste e Gino. Poco più
avanti dell‟incrocio, a destra, aveva inizio un viottolo che portava a una casetta (poi
abbattuta) abitata da Carlo Tozzato (Carleto Cocio). Proseguendo per via Bonotto,
sulla destra s‟incontrava la casa degli Zoggia, e quindi in fondo la grande casa dei
Pistolato. Tornando all‟incrocio all‟altezza di casa Gobbo e puntando verso Est si
notavano le case dei Bonotto (dei quali ricordo Berto el scarpèr e la centenaria Nina),
di Vanin, di Pettenò, poi più avanti sulla destra s‟incontrava l‟imbocco dello stradone
che portava alla vecchia casa dei Brugnaro (del nonno Alessandro), più avanti - sulla
sinistra - dove la stradina gira a destra c‟era la vecchia casa di Toi Carniato che vi
risiedeva con la figlia sposata con Silvano Dotto (Poeta). Proseguendo, la stradina si
divideva in due: a sinistra si andava verso via Zermanese divenuta San Michele dopo i
lavori di rettifica della vecchia via. In questo tratto di stradina s‟incontravano le case
dei Cestaro (Secato). Tornando alla diramazione e proseguendo a Sud, verso lo Zero,
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s‟incontrava, a destra, l‟altro accesso alla casa dei miei nonni, quindi l‟abitazione di
altre famiglie Carniato. Più avanti la strada finiva sull‟argine del fiume sul quale c‟era
un viottolo che consentiva il transito a piedi o in bicicletta per arrivare al ponte di villa
Antonini e andare quindi in via Vanzo: era la strada che mia madre faceva per arrivare
in paese fino a quando si è sposata. Ora è stato costruito un ponte, spostato un poco a
est, che consente il transito anche ai mezzi motorizzati.
Tornando all‟inizio di via Cavalleggeri, che allora si chiamava Bonotto, nell‟angolo
opposto ai Reato, si trova la villa Lingueri. Un tempo questa villa aveva un giardino
con una folta vegetazione che ne impediva la vista dalla strada. A seguire si trova un
caseggiato con due alloggi in cui abitavano le famiglie Volpago e Pietrobon. Subito a
ridosso si trova l‟osteria Bonotto. Dalla parte opposta della strada si trovava la casa
dei Maccatrozzo, in seguito ristrutturata per ottenere moderni alloggi a schiera. A
seguire si trova la stradina che prosegue fino all‟incrocio con via Croce che assume,
nella parte conclusiva, l‟aspetto di un vero e proprio careson.
Nel dopoguerra questa stradina aveva ancora, all‟imbocco, due grossi pilastri in
pietra, mentre non aveva alcuna abitazione fino a dopo il ponte sul “Pianton” dove
s‟incontrava la vecchia e grande casa dei Ferraro. Più avanti s‟incontravano le case
delle Manteine, di Ancillotto, di Tronchin, di Volpago, di De Stefani, di Longo, di
Faggian, per finire con quella dei Collodo e Vecchiato proprio in prossimità
dell‟innesto con via Croce. Sul lato destro di via Bianchi, subito dopo l‟osteria
Bonotto si trovava la casa e la botegheta di mia zia Erminia costruita nell‟angolo della
campagna del nonno Alessandro Brugnaro. Dopo la casa della zia si trovava solo
campagna, appunto i terreni di mio nonno. In seguito, dopo la spartizione della
proprietà del nonno, mio zio Guido, il fratello più giovane della mia mamma, si
costruì la casa di fronte a quella dei Tronchin e i terreni accanto furono lottizzati
dando luogo alle costruzioni che si vedono ora. Tra le prime case vi fu quella di
Agostino Testa, padre del ciclista Franco, campione olimpionico a Roma nel 1960. I
Testa arrivarono dalla provincia di Padova e aprirono un forno che fu poi di Virginio
Gobbo, che diede così origine all‟omonimo panificio tuttora attivo vicino alla chiesa
S. Carlo. Proseguendo per la via, sulla sinistra s‟incontrava la vecchia casa colonica
dei Tronchin. Più avanti, sulla destra, dove la strada fa una leggera curva a “esse”, si
trovava la vecchia casa colonica di Napoi Bonotto con visibile sulla strada il classico
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camino alla vaesana. Ora questa casa è di Ciano Sottana un tempo trattorista da
Bianchi. Proseguendo sulla via s‟incontrava, sulla destra, la casa dei Boschiero, ora
abbattuta. Più avanti, sulla sinistra si trovava la casa della Cea Fuga (Antonia Favaro)
una donna di piccola statura di cui ricordo il modo di camminare molto spedito. La
casa fu in seguito acquistata da una donna detta “la triestina”, forse profuga istriana,
che vi si trasferì con una nipote divenuta in seguito moglie di Gardin, erede della
ferramenta Koflach. La casa ora è in totale abbandono e invasa dalla vegetazione.
Poco più avanti adesso s‟incontra una sbarra che, come ho detto in precedenza,
permette il solo transito a piedi o in bici. Più avanti la strada compie una curva ad
angolo retto a sinistra. Lì una volta c‟era l‟ingresso a un vasto territorio chiamato “la
vigna”, tutto recintato da un‟alta rete e filo spinato. Proseguendo il cammino, un
centinaio di metri più avanti, a sinistra, s‟incontrava un careson che portava alla casa
degli Zanin di cui ora non rimane traccia. Unico riferimento rimasto è una pioppa sul
lato destro di via Bianchi, che allora si trovava in direzione dell‟ingresso degli Zanin.
Proseguendo sulla via si trova una curva a destra e quindi, a circa trecento metri a
sinistra, si trova l‟ultima abitazione della via, la vecchia casa dei Favaro del ramo
Scarpazza, che fu dei miei bisnonni e nonni, e dove, nel 1898 nacque mio padre.
Prima di arrivare alla casa oggi s‟incontra la sbarra che chiude il traffico ai mezzi
motorizzati. Nel dopoguerra la casa era abitata dalla famiglia di Annibale, cugino di
mio padre e dai Ceolin detti Insandrin. Quando andarono via gli ultimi della famiglia
Favaro, per trasferirsi in Piemonte, arrivò la famiglia dei Miatto da Zerman, detti
Sponcion. Dopo questa casa, come già detto, si sorpassa il “Pianton” e si arriva
all‟innesto con via della Croce, in località Alture di Zerman.
LE ATTIVITÀ DELL’AZIENDA BIANCHI
IL SETTORE AGRICOLO
L‟azienda Bianchi è nata come azienda agricola, per cui, anche se nel tempo il
marchio Bianchi de Kunkler ha ricavato prestigio soprattutto per i prodotti caseari e
vinicoli, non si può non considerare come attività principale quella agricola. Abbiamo
già visto che le proprietà terriere dell‟azienda erano estese e dislocate in varie località.
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Una grande estensione di terreno era situata a Dese, dove era presente un vero e
proprio distaccamento dell‟azienda con una sede in cui erano raggruppati depositi di
materiali, attrezzature varie, macchinari e, al tempo dei buoi, un‟adeguata stalla con
tali animali da lavoro. Un‟altra grande estensione di terreni si trovava tra Bonisiolo,
Casale sul Sile e Quarto d‟Altino ( S.Miciel ), in un sito che era chiamato Isoea. Un
terzo grande territorio era situato a nord di Marcon ed era conosciuto come Altobello.
Passando oggigiorno per questi territori si vede ancora quel che resta delle vecchie
case occupate dalle famiglie che coltivavano la terra in condizioni di vita al limite
della sopravvivenza, con contratti a mezzadria o peggio ancora “al terzo”. Il territorio
agricolo aveva un aspetto totalmente diverso dall‟attuale, era tutto frazionato in campi
con tanti stradoni per l‟accesso, tanti fossati per lo scolo delle acque, con tante siepi,
tanti filari di gelsi. Tutto questo comportava l‟impiego di molta manodopera e la
perdita di una consistente parte di terreno da coltivare. Ora la campagna è un
susseguirsi di terreni spianati, intervallati da qualche scoìna (canaletto) per la raccolta
delle acque piovane. In questo caso una sola persona con una grossa macchina può, in
poco tempo, arare una grande distesa di terreno. In seguito la stessa persona con altro
macchinario esegue la preparazione e la messa in opera della semina. A fine stagione
con un‟altra grossa macchina può procedere alla raccolta del prodotto compiendo per
esempio, in caso di coltivazione a frumento, la contemporanea trebbiatura ed
imballaggio della paglia direttamente sul campo.
Per dare un‟ idea di questa trasformazione avvenuta prendiamo ad esempio un
appezzamento di terreno facilmente individuabile percorrendo il tratto iniziale di via
Bianchi. Si tratta dei terreni posti di fronte al vecchio sito dei cavai che, ovviamente,
conoscevo e conosco bene. Ho detto in precedenza che qui iniziava un lungo stradone
di campagna, un careson lungo circa seicento metri che divideva in due un terreno
largo circa duecento metri. L‟appezzamento era suddiviso in sei campi nel senso della
lunghezza e quattro campi nel senso della larghezza, questo perché il campo
trevigiano è lungo cento metri e largo cinquanta. In totale vi si trovavano ventiquattro
campi. Ogni campo aveva al centro il suo colmo e, tra un campo e l‟altro, dei canaletti
detti caini, che confluivano le acque in fossati posti lungo il limite esterno
dell‟appezzamento. Il careson centrale aveva ai lati una fascia di terreno non coltivato
che lo separava da dei filari di gelsi in modo che i rami di questi, che dovevano essere
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bassi per facilitare la raccolta delle preziose foglie (unico alimento dei bachi da seta),
non intralciassero il passaggio dei carri. I due fossati laterali avevano, ai margini, delle
siepi di platano e avevano anch‟essi una fascia di terreno non coltivata che li separava
da un filare di gelsi posto ai margini del terreno lavorato. Da quanto detto si può
immaginare che circa un dieci per cento del terreno non era coltivato, anche se
bisogna dire che le siepi fornivano legname, che i gelsi a quel tempo erano
indispensabili e che le fasce di terreno non coltivabili fornivano erba che nasceva
spontanea. Sì, ma a quale prezzo in termini di manodopera?
Ricordo bene nel periodo del dopoguerra quanto tempo occorreva per svolgere tutti i
lavori necessari in quel pezzo di terreno. In quel periodo tutta l‟area era seminata a
erba medica (spagna). Il taglio dell‟erba era eseguito con una falciatrice trainata da
cavalli. In seguito, quando l‟erba era un po‟ essiccata, passava un‟altra macchina
trainata da cavalli, un “resteon”, che accumulava l‟erba in righe trasversali. A questo
punto interveniva una squadra di operai che con rastrelli a mano e forche accumulava
ulteriormente l‟erba creando dei grumi, di forma tronco-conica, i cosiddetti “mari”
che impedivano all‟umidità che scende alla notte, il cosiddetto “aguasso”, di bagnare
l‟erba appena essiccata. Spesse volte, alla sera, interveniva nel campo un altro gruppo
di persone, ma non si trattava di operai bensì di ragazzi, qualcuno direbbe di
“monelli”, che trovava irresistibile il gioco del salto dei mari de fen. Vi assicuro che
era un gioco veramente piacevole, tra quel profumo di erba appena tagliata, con la
“suspense” creata dal terrore che da un momento o l‟altro potesse comparire il temuto
fattor generale Vittorio Spizzotin o il guardiano Emilio Marton.
Il mattino seguente il gruppo di operai ritornava sul campo e ristendeva l‟erba in
modo che continuasse l‟essicazione, verso sera venivano rifatti i cumuli e così via
fino a che il fieno era sufficiente essiccato e pronto per il definitivo accumulo. Allora
passavano i carri per la raccolta e il trasporto del prodotto negli appositi fienili, le
grandi tèse che si trovavano sopra le stalle. In mezzo a tutte queste operazioni il
gruppo di operai doveva trovare il tempo per eseguire il taglio dell‟erba che si trovava
nei margini posti ai lati del careson centrale e lungo i margini esterni fino ai fossati. In
questo terreno, detto rivàl, l‟operazione di taglio era effettuata a mano con le
caratteristiche false (falci), strumento simbolo del contadino. Il ciclo di lavoro
descritto si ripeteva ogni volta che l‟erba era pronta per il taglio.
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A maggio ( mese dei bachi da seta ) c‟era “ l‟assalto” ai filari di gelsi per la raccolta
delle foglie. Quest‟operazione era fatta in due modi: finché i bachi erano piccoli, si
asportava solo la foglia, che era sminuzzata prima di essere “servita” ai cavalieri, in
seguito si asportavano dal gelso i rami interi che erano utilizzati direttamente senza
bisogno di staccare la foglia. Naturalmente si trattava di ramoscelli di piccole
dimensioni perché la pianta, a fine stagione, era sempre potata in modo radicale. I
lavori sull‟appezzamento preso in considerazione terminavano nel periodo di fine
inverno quando erano potate in modo radicale le siepi di platano che facevano da
contorno al territorio. Quest‟operazione era chiamata far scièsa e consentiva di
ricavare rami di piccola taglia che erano legati mediante strope in modo da formare
delle fascine di legna da bruciare, e rami più grossi detti atoe, che erano utilizzati per
varie necessità per esempio come tutori per piante, per vitigni, per la costruzione di
palizzate, ecc.
A quel tempo quando si passava per via Bianchi, era facile vedere gente intenta a
lavorare nel posto che ho descritto. Ora si vede solo una grande distesa di terreno.
Sono sparite le due grandi pioppe poste all‟ingresso dello stradone centrale, sono
spariti i filari di gelsi, le fitte siepi che contornavano il terreno, i fossati. E non si vede
più nessuno intento a lavorare se non in quei pochi giorni impiegati nelle operazioni
con le grosse macchine. E magari neanche quello si vede se per caso la lavorazione
avviene durante la notte. Sì, perché quelle grosse macchine, avendo un alto costo di
ammortamento, sono usate a ciclo continuo. Allora può capitare che passi alla sera e
vedi un terreno incolto, ripassi il mattino dopo e trovi il terreno già arato.
Abbiamo visto com‟è cambiato nel tempo l‟aspetto del territorio agricolo; vediamo
ora come sono cambiati il tipo di conduzione dei fondi agricoli e il tipo di colture
praticate. Come in altre grosse aziende agricole del territorio della bassa trevigiana
anche nell‟azienda Bianchi fino al primo dopoguerra gran parte delle proprietà erano
coltivate da grosse famiglie di coloni che risiedevano nelle tipiche case insediate nei
vari poderi. Solo una parte dei terreni, quelli più vicini alla sede dell‟azienda, erano
coltivati da operai agricoli dipendenti dall‟Amministrazione. Col tempo le varie
famiglie si sono disgregate abbandonando progressivamente i poderi e la condizione
di mezzadria. Alcuni per qualche tempo sono rimasti ad abitare le vecchie case
diventando salariati agricoli dell‟azienda. Un po‟ alla volta tutto il territorio è passato
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alla conduzione diretta da parte dell‟Azienda. Fino a qualche anno dopo la fine della
guerra attorno alla via Bianchi erano rimaste nella condizione di lavorare al “terzo”
solo la famiglia Biasetto, a ridosso del Terraglio e la famiglia di Napoleone ( Napoi )
Bonotto, poco più avanti dell‟osteria Bonotto.
Per quanto riguarda le colture praticate occorre ricordare che il territorio agricolo di
Mogliano aveva acquistato fama per la coltivazione delle pesche. Ricordo che quando
frequentavo le elementari sui libri scolastici era scritto che Mogliano forniva le pesche
alla casa Reale. Dalla stazione ferroviaria partivano molti treni stipati di questi frutti
con destinazioni varie sia in Italia sia in Germania. Dove ora ha sede la cooperativa
ortofrutticola c‟era un grande deposito per la scelta e il confezionamento delle cassette
di pesche da spedire. Inoltre un‟ala del complesso era destinata a una fabbrica di
marmellate fatte con la frutta non di prima scelta. Ricordo bene quella marmellata
molto densa, solida, che era confezionata a quadrettini in scatolette di legno sottile.
Anche l‟azienda Bianchi aveva le sue coltivazioni a pesche. Nell‟area di fronte “ai
cavai” questo frutto fu coltivato fino al periodo della guerra. Nell‟area denominata
“vigna” una buona parte del terreno era coltivato a pesche fino a circa il 1955. Il
restante terreno della “vigna” era coltivato a uve pregiate da tavola. Un altro sito, con
uve pregiate da tavola, si trovava in una parte del terreno a ridosso del Terraglio tra
via Bianchi e via 1° Maggio. Questo terreno era coltivato dai Biasetto e vi si trovava
dell‟uva da tavola veramente di pregio come la ovi de gaeo o altre uve di colore né
bianco né rosso, che ora non si trovano più. Quest‟appezzamento di terreno aveva la
caratteristica di essere sabbioso tant‟è che in un angolo del terreno era stata ricavata
una cava di sabbia. Per questa sua caratteristica su questo terreno dopo l‟uva da tavola
furono coltivati per molti anni degli ottimi asparagi.
Col tempo la coltivazione di frutta fu abbandonata. Ho fatto comunque in tempo a
vedere personalmente un paio di campi coltivati ad arachidi, cosa non usuale dalle
nostre parti. Ho visto campi coltivati a ricino che dà dei frutti strani, con un baccello
oleoso all‟interno e una scorza con pungiglioni all‟esterno che si apre quando il frutto
è maturo, come le castagne. Ho visto campi di girasoli che attiravano l‟attenzione dei
ragazzi per la loro bellezza e perché girano seguendo la posizione del sole. E campi di
colza detta raisson, dal fiore giallo caratteristico. E, naturalmente campi di frumento
(formento), così belli da vedere a giugno col loro colore dorato, di granoturco (sorgo o
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suturco), di granoturco nano (sinquantin), di orzo, di barbabietole. Ho visto quanto
lavoro era necessario con i mezzi di una volta per arrivare ad avere il raccolto. Ho
avuto modo di osservare il taglio e la raccolta del frumento, la mietitura, la trebbiatura
e l‟essicazione del grano.
La trebbiatura era uno spettacolo che i ragazzini non potevano perdere. In
Amministrazione Bianchi avveniva nelle adiacenze della grande stalla delle mucche in
modo da formare in loco, senza successivi trasporti, le grandi cataste di paglia, i
famosi pajeri sempre presenti nelle adiacenze delle vecchie case coloniche. Le
operazioni di trebbiatura, dette bàtar formento avevano inizio con il piazzamento
accurato della trebbiatrice e del grande trattore al quale era accoppiata tramite una
lunga e larga cinghia di trasmissione di cuoio, che era inserita in maniera incrociata,
forse per evitare che uscisse dalle pulegge. Poi ognuno occupava il suo posto nel ciclo
operativo e via! Incominciava l‟incessante immissione dei fasci di frumento nella
vorace bocca della macchina che restituiva sacchi di grano e cumuli di paglia. I sacchi
di grano erano posti nei carri e trasportati nel sèese per l‟essicazione, mentre la paglia
era accatastata per formare i pajeri (pagliai). Quest‟operazione in apparenza banale
era affidata a mani esperte poiché solo un cumulo fatto a regola d‟arte poteva
sicuramente restare in piedi nel tempo. Ricordo un incidente accaduto una volta
durante la trebbiatura. Il tubo di scappamento del trattore, un vecchio e glorioso
Landini a testa calda, innescò un incendio nella paglia. Il fuoco si propagò
rapidamente tanto che fu necessario l‟intervento dei pompieri che arrivarono
rapidamente attivando subito i getti d‟acqua prelevata dal loro carro-botte. Nel
frattempo due pompieri cominciarono a srotolare dei lunghissimi tubi chiedendo dove
si trovava il punto più favorevole per prelevare acqua. Io e il mio inseparabile Gioanin
li portammo nella vicina gorghea (gorgo) del “Pianton”, di fronte all‟issiera, dove
poterono immergere la loro “pigna” di aspirazione che permise di completare l‟opera
di spegnimento dell‟incendio. Quella volta noi ragazzi pensammo, con orgoglio, di
aver restituito alla baronessa quanto ci aveva dato da piccoli regalandoci le zollette di
zucchero. L‟incendio aveva colpito anche un grande platano di quelli che si trovavano
ai lati del viale che portava nella villa Bianchi. Per anni il vecchio albero restò
deturpato e rimase come traccia del fatto accaduto.
Nel parlare di coltivazioni non si può non rilevare il ruolo che ha avuto il granoturco
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nell‟alimentazione delle generazioni venete fino al dopoguerra. La “poenta” non
poteva non essere presente in tutte le tavole dei nostri conterranei, anzi alle volte era il
solo alimento disponibile! Si può allora immaginare quanta cura fosse dedicata alla
coltivazione di questa coltura. Ricordo quante volte i contadini passavano e
ripassavano tra le piante per asportare erbe infestanti, per dar tera, per tagliare i
pennacchi e infine per spanociar, cioè per raccogliere a mano, una a una le preziose
pannocchie. Infine si doveva sgramoear, cioè estrarre i grani dallo sciotoeo (tutolo).
Quest‟operazione in Amministrazione Bianchi era eseguita con delle gramoe azionate
da motore elettrico che permettevano di trattare grosse quantità di pannocchie, ma
c‟era lo stesso tanto lavoro da svolgere. Nel periodo estivo c‟era un gran numero di
persone attorno al sèese intente ad azionare gramoe, burati, grossi setacci azionati da
motore elettrico, oppure a spalare grano con le grosse pale di legno dette pae da
graner.
Altra coltivazione importante nel nostro territorio è sempre stata quella della vite.
Nel tempo sono cambiati i tipi di vitigno coltivati, sono cambiate le tecniche di
coltura, ma la vite occupa sempre rilevanti porzioni del territorio agricolo. Fino a
qualche tempo dopo la guerra, il vitigno più diffuso era il Clinton che in seguito fu
messo al bando e poi, quasi sparì dalla circolazione. Si disse che fu perché contiene
troppo tannino e che comunque è dannoso alla salute. Qualche malizioso sostenne che
era soltanto una questione di convenienza di chi vendeva prodotti chimici perché il
Clinton, essendo un vitigno selvatico, non ha bisogno di tutti quei trattamenti che
invece sono indispensabili per gli altri tipi di piante. Non so da quale parte sia la
ragione, la prima tesi dovrebbe avere qualche fondamento accertato, la seconda forse è
solo frutto di malelingue, ma qualche volta, si sa, a parlar male si azzecca. I nostri
vecchi si rivolteranno nelle tombe sapendo che fine ha fatto quello che era considerato
il vero vin da omeni. In ogni casa colonica la maggior parte di viti messe a dimora
erano appunto di Clinton, poi c‟era qualche piantarea ( filare di viti ) di uva Bacò che
dava un vinello poco corposo, ma che aveva il pregio di maturare in anticipo rispetto a
qualsiasi altra specie di uva. Questo, in certe annate, era un vero toccasana, perché a
volte il vino normale finiva prima dell‟arrivo di quello nuovo. Allora bisognava
ricorrere al vin terno o vin picoeo che si otteneva aggiungendo acqua in un careteo in
cui erano conservate delle sarpe (vinacce) della vendemmia precedente. Si otteneva
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una bevanda che aveva un certo sapore di vinello o forse di acetello. Per gli uomini
era dura adattarsi a simile bevanda, le donne invece dovevano adattarsi anche quando
c‟era ancora vino, ma si presumeva che non fosse sufficiente fino all‟arrivo di quello
nuovo.
Un terzo tipo di uva sempre presente nelle case coloniche, anche se in quantità
modesta, era l‟uva fragola, che forniva un vino di sapore gradevole, ma scarsamente
alcolico, che era di norma riservato alle donne “ in stato interessante “ ( incinte ) o
“de parte “ cioè nei quaranta giorni successivi al parto. Se si considera che di norma le
famiglie contadine erano composte dal “patriarca” e da diversi figli maschi sposati e
che le donne mettevano al mondo fino a una decina di figli, si capisce che di vino
fragoin c‟era bisogno con una certa frequenza.
L‟ultimo tipo di coltivazione entrato prepotentemente tra quelle in atto nell‟azienda
Bianchi è quella del tabacco. Era intorno al 1950 quando, insieme all‟inseparabile
Gioanin, stavo giocando sopra il muretto che faceva da parapetto al ponte d‟ingresso
all‟Amministrazione quando arrivò un grande e lungo camion, da trasporti
eccezionali. Era carico di lunghissimi tronchi d‟albero, probabilmente abeti o pini che
furono scaricati e accatastati nel grande piazzale antistante alla falegnameria. Non
avevo mai visto tronchi così lunghi e affusolati. Solo anni più tardi ne ho visti molti in
Cadore, per esempio nel bosco di Tai. A quel primo camion ne seguirono altri, fino a
formare un enorme deposito. Per giorni e giorni una squadra di boscaioli con delle
particolari mannaie lavorò alacremente per squadrare e preparare i tronchi al loro
utilizzo. In seguito iniziarono i lavori per la costruzione dei capannoni, alti come quei
tronchi, che sarebbero serviti per l‟essicazione del tabacco. Mi sembra che ne furono
eretti cinque, sistemati a debita distanza dietro la centrale del latte. Nel frattempo era
arrivato dal Friuli, precisamente da Fagagna, un esperto della coltivazione del tabacco.
Si chiamava Renato Lizzi e andò ad abitare con la famiglia in una casa costruita subito
dopo il complesso “dei cavai”. Nella stessa casa si trasferì, al piano superiore,
Pasquale Casagrande con la sua famiglia.
Ebbe così inizio la coltivazione del tabacco. Furono assunte molte ragazze che agli
ordini del tabachin iniziarono il primo ciclo di lavorazione. S‟incominciava a
trapiantare le piccole piantine una a una manualmente. Si doveva poi, per qualche
giorno annaffiare, quindi si doveva tenere il terreno smosso periodicamente e liberato
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da erbacce infestanti. Quando la pianta era “matura”, s‟incominciava a raccogliere le
foglie più grandi, nella parte bassa della pianta, che venivano appese, infilzate in
appositi spaghi, a essiccare negli alti capannoni ben aerati. Qualche tempo dopo si
ripassava a raccogliere altre foglie nel frattempo maturate. E cosi avanti finché, a fine
stagione, della pianta di tabacco rimaneva solo lo stelo. Finita la stagione della
raccolta ed essicazione, si passava al lavoro all‟interno del grande magazzino. Qui le
foglie del tabacco erano selezionate e impachettate per essere spedite alle varie
destinazioni. Come si vede era un ciclo di lavorazione che richiedeva molta
manodopera e ampi spazi disponibili. Il lavoro era svolto da donne, in maggioranza
giovani, che nel periodo estivo raggiungevano il numero di circa trenta unità.
Per finire il capitolo dedicato all‟attività agricola, voglio ricordare alcuni
“personaggi” che hanno svolto attività in questo settore. Per primo ricordo Vittorio
Spizzotin non perché sia in cima ai miei ricordi più cari. Era il fattore generale,
secondo solo ad Armando Sartori nella gerarchia aziendale. Era temuto da tutti, anche
da noi ragazzini perché ci ringhiava contro, anche se si raccoglieva un frutto caduto da
una pianta. Non gli andava mai bene niente. Si spostava sempre con una bicicletta in
cui era stata applicata una sella maggiorata, con due grandi molle ad attutire gli effetti
delle strade sconnesse di quei tempi. Mentre transitava per la strada, usava fischiettare
di continuo con un tono basso, profondo, che lo distingueva. Ricordo i suoi baffi un
po‟ arricciati che usava lisciarsi tutte le volte che usciva dal portone della cantina dove
andava spesso a controllare lo stato di conservazione del vino. Ricordo che una volta
mio padre mi prese in disparte per dirmi che il sior Vittorio si era lamentato perché
non lo salutavo. A quel tempo frequentavo da poco le scuole a Treviso e avrò avuto sì
e no dodici/tredici anni. Risposi a mio padre che io salutavo tutte le persone che
rispondevano al saluto, magari con un cenno, ma che non esiste al mondo nessuna
persona da ossequiare se non si degna di un cenno di ricambio. Allora mio padre disse
che in caso di nuove lamentele avrebbe saputo cosa rispondere. Il sior Vittorio morì
d‟infarto mentre attraversava in bicicletta la “vigna” che ho descritto in precedenza. Il
posto di fattore generale fu preso da un foresto considerato dalla gente molto
competente e più umano rispetto al predecessore. Si chiamava Aldo Fornasier di cui
ricordo una singolare avventura capitata poco dopo il suo arrivo. Un giorno un torello,
che era allevato nella vecchia stalla dei cavalli, riuscì a liberarsi dai legacci e scappò
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nel cortile; due o tre persone lo stavano rincorrendo inutilmente quando arrivò il sior
Aldo che, senza pensarci un attimo, si mise a rincorrere il torello finché riuscì ad
affiancarlo prendendolo per le corna. Proprio come si vede fare nei film di cow-boy
quando si procede alla marchiatura dei vitelli. Ma in questo caso si trattava di un
torello abbastanza grosso, che non voleva fermarsi e che continuava a correre tentando
di scrollarsi di dosso l‟improvvisato cow boy. Nella corsa l‟animale abbatté la rete di
recinzione dell‟orto coltivato da mio padre finché crollò a terra con il sior Aldo,
ancora saldamente attaccato alle corna. Arrivarono prontamente altre persone che
misero la musarioea (museruola) all‟animale e lo ricondussero alla ragione. Aldo
Fornasiero andò ad abitare nella casa che fu della famiglia Sartori. Nell‟occasione la
casa fu abbattuta e rifatta con criteri moderni.
Altra persona che non posso dimenticare è Giovanni Michielin (Nane Micèin),
abitante a Zerman, che svolgeva il ruolo di castaldo (o gastaldo), curando soprattutto i
territori lontano dall‟Amministrazione. Questi era un omone con fisico da corazziere
che usava spostarsi a cavallo di una bicicletta attrezzata di una sella simile a quella di
Vittorio Spizzotin. Evidentemente il bravo Pagoìn, valente meccanico, non voleva
fare differenze e ritenne opportuno rinforzare anche il “porta natiche” del Nane
corazziere. Il buon Giovanni era chiamato quando, su prescrizione del veterinario
dottor Spilimbergo, altra figura storica del nostro territorio, si doveva praticare
qualche iniezione ai cavalli. Proprio quest‟attitudine a far iniezioni è la causa per cui
non ho mai potuto dimenticare quel caro omone. Sono passati sessant‟anni e più ma
ho sempre in mente la figura di quel gigante che entrava con un siringone in mano
nella camera dove mi trovavo a letto, con una febbre da cavallo. Forse sembrerà
assurdo ma a me sembrava proprio una siringa usata per i cavalli. Era successo che
durante un inverno in cui la neve era caduta tanto abbondante da raggiungere, in
qualche posto, un‟altezza superiore alla mia statura, mi capitò addosso una
broncopolmonite che preoccupò non poco il dottor Sinicco. Mi furono prescritte delle
iniezioni di penicillina che a quel tempo non era ancora disponibile nelle farmacie
locali. Credo che in quell‟occasione la cosa sia stata risolta direttamente dalla
baronessa Federica che reperì il medicinale o dal comando militare inglese, ancora
presente nell‟Italia appena liberata, o comunque dove era disponibile. In tutti i casi
grazie baronessa Federica e grazie buon Nane!
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Altra persona che ricordo volentieri è Fioravante Merlotto che arrivava al lavoro in
bicicletta dalla località Ghetto. Non c‟è niente di particolare su questa persona: è
soltanto uno dei primi operai agricoli che ho incontrato. Quando l‟ho conosciuto, era
già anziano, prossimo alla pensione ed era completamente peoco, cioè calvo. Arrivava
ogni giorno calzando i suoi moeoti, una sorta di ciabatte di curame (cuoio) e la sua
sporta (borsa) de scartossi (cartocci delle pannocchie di granoturco) intrecciati, con
dentro il mangiare per mezzogiorno e l‟immancabile bossa de crinto (bottiglia di vino
Clinton), tappata rigorosamente con uno sciotoeo (tutolo) de panocia che faceva
buona mostra di sé emergendo dalla borsa. Consegnava il tutto alla Emilia Scattolin,
moglie di Costante Marcato, che provvedeva a riscaldare il rancio per mezzogiorno.
Per pranzare il buon Fioravante aveva un posto in un angolo della grande tavola dei
Marcato. A fine rancio, durante i caldi mesi estivi, l‟anziano operaio era solito
schiacciare un pisolino appoggiando semplicemente il capo sul tavolo. Quando
lavorava, ero ammirato per la perizia e la naturalezza con cui falciava l‟erba senza
apparente sforzo. Ogni tanto doveva dare una ripassatina alla lama della falce con la
piera da ugar (pietra per affilare) che estraeva da un corno, contenente un po‟
d‟acqua, che teneva sempre appeso alla cintura. A me ragazzino sembrava una magia
vedere la mano passare così rapidamente su e giù vicino a quella lama, tagliente come
un rasoio, senza rimetterci un dito. Quando poi doveva bàtar a falsa per rifare il filo,
sembrava di assistere a un rito. Allora tirava fuori la pianta, che fungeva da incudine,
e il martello, cercando un fossato per potersi sedere a gambe in giù, per stare un po‟
più comodo. A questo punto iniziava l‟operazione di battitura, avanti e indietro sul
tagliente della lama, ogni tanto provando col dito pollice a testare il “filo”. Alla fine,
soddisfatto del risultato, riprendeva il taglio momentaneamente interrotto.
Un‟altra persona che ha lasciato sicuramente una traccia indelebile nella memoria di
chi ha vissuto al Baronbianchi è Graziosa Spizzotin, la Ciòsa, che ha lavorato una vita
intera nell‟azienda. La Ciòsa era una donna di piccola statura, un po‟ tarchiata,
dall‟aspetto per niente corrispondente al nome che i genitori gli avevano scelto. Ha
lavorato molto nel sèese ai tempi di Eti Maccatrozzo, ha lavorato spesso con forca e
rastrello al seguito di chi tagliava l‟erba, alla fine anche nella coltivazione del tabacco,
nei lavori più faticosi, insomma una lavoratrice che non si tirava mai indietro.
Ricordo Carlo Ceolin (Insandrin) specialista negli incalmi (innesti) , attività
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importante nel periodo in cui era molto praticata la coltura di piante da frutto, uve
speciali, ecc. Era molto cordiale con i ragazzini, a differenza di tanti che li
consideravano un intralcio per lo svolgimento del lavoro. Carlo è morto abbastanza
giovane per una nefrite. Della stessa famiglia era Altinio, detto “sergente”, che lavorò
da Bianchi solo per qualche anno appena finita la guerra, per poi emigrare in
Piemonte. Un altro Ceolin, sempre della stessa famiglia che era andata ad abitare in
una parte dalla casa che fu di mio nonno Lorenzo, si chiamava Bepi ( detto Bepeti per
via dalla sua corporatura esile ). Egli lavorò sempre da Bianchi nel settore agricolo
fino al pensionamento. Rimase postoto cioè non si sposò mai.
Un‟altra famiglia, fino a un certo tempo con contratto “ al terzo “ e che diede diversi
operai al settore agricolo, fu quella dei Biasetto. Tra di essi ricordo Vittorio (Toche),
Gino (Broca), Ferruccio (Ciucia), Bolda di cui non ricordo il vero nome e poi
Giovanni, conosciuto come Orbo. Quest‟ultimo, alto e allampanato, aveva un qualche
difetto alla vista per cui si vedeva che non camminava sicuro e spedito. L‟uso di
indicare la gente con dei soprannomi era molto frequente. Bastava che uno fosse un
po‟ signaeco, ossia straocio, cioè strabico e subito veniva etichettato con quel
soprannome. Era molto in uso anche il soprannome di casato che distingueva spesso i
vari rami delle famiglie. Così per esempio le varie famiglie Moino sparse tra Zerman e
Bonisiolo, erano definite Ciòro, Ciòreto, Ciòrin e Ciòrea. Non di rado alcune persone
erano chiamate per tutta la vita con un nome diverso da quello di battesimo. Non tanto
tempo fa sono stato, con mio fratello, al funerale di un nostro parente, un cugino di
secondo grado, da sempre conosciuto con il nome di Amedeo Favaro (Scarpazza).
Ebbene, arrivati alla chiesa, ci siamo trovati al funerale di Luigi Favaro; così era stato
battezzato e iscritto all‟anagrafe il nostro Amedeo.
Per tornare alle persone che hanno lavorato nel settore agricolo ricordo Gino e Primo
Bonotto: il primo restò solo qualche anno dopo la cessazione del contratto “ al terzo “
della famiglia, il secondo detto “Savata” per via che portava sempre le ciabatte,
rimase fino al pensionamento e andò ad abitare in una casa costruita di seguito a
quella che fu di Casagrande e Lizzi. Verso la fine del periodo lavorativo ebbe la
soddisfazione di diventare capo squadra. Altro personaggio fra quelli presenti fin dal
primo dopoguerra fu Ermenegildo Vecchiato (Tita Caldo) che in seguito andò ad
abitare al Cason e a occuparsi dell‟allevamento dei vitelli. Ricordo anche Cenedese un
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piccolino con i baffetti. Tra i lavoratori del settore agricolo più tardi arrivò, andando
ad abitare nella casa che fu di Costante Marcato, Ettore Sottana che aveva tra i figli
Ciano (Luciano), che fu trattorista per molti anni nell‟azienda. Poco dopo arrivò,
andando ad abitare nell‟alloggio a ovest del complesso abitativo dei cavai, Angelo
Moro ( Santèa ) con la moglie Palmira, simpatici genitori di Umberto che io, per non
smentire l‟usanza dei nomignoli, chiamavo Toni e col quale ho trascorso bei momenti
giocando a pallone e ascoltando musica dal suo giradischi.
IL SETTORE LATTEO-CASEARIO
Il marchio “latte Bianchi” è stato per decenni sinonimo di qualità andando a
conquistare prestigio ben al di fuori del logico mercato locale. Infatti, le piazze di
Venezia, Treviso, Padova e Mestre hanno assorbito senza indugio la notevole
produzione di latte, burro e altri prodotti caseari usciti dalla Centrale del latte di
Mogliano. Lo smercio è avvenuto anche tramite dei propri negozi situati nei centri
storici sopra menzionati. Io stesso ho lavorato in uno di quei negozi, situato a Mestre
nella via che dal centro della piazza Ferretto conduce al palazzo Coin. Era il 1954 nel
periodo delle vacanze scolastiche. A quel tempo il latte era venduto sfuso, come pure
il burro, che era venduto a fette. Tutte le mattine c‟era una vera e propria processione
di donne che venivano a prendere il latte fresco portandosi appresso il caratteristico
recipiente di alluminio. Incominciava anche ad apparire lo jogurt, disponibile solo in
versione naturale, che era venduto esclusivamente in vasetti di vetro chiusi da un
coperchio di stagnola. In un angolo del negozio c‟era un piccolo tavolo per la
consumazione in loco dello jogurt che era servito con dello zucchero. Non c‟era un
grande smercio di questo prodotto, era ancora un alimento d‟élite. Ricordo un
vecchietto molto distinto, incartapecorito dall‟età, che immancabilmente passava alla
mattina presto a consumarsi con gusto il suo vasetto di prelibato alimento. Il gestore
del negozio era Mario Michielin, che abitava poco lontano da casa mia, nell‟alloggio
sopra la famiglia Candelù, “dai bò”. Ho un bel ricordo di quei tre mesi passati a
vendere latte e affini, anche se per me significava rinuncia alle vacanze scolastiche. In
compenso guadagnavo bene e questo compensava i sacrifici fatti da mio padre per
farmi studiare. Inoltre avevo instaurato un bel rapporto con i clienti e con Mario, che
aveva subito apprezzato il mio lavoro lasciandomi tranquillamente da solo quando
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aveva bisogno di assentarsi.
Tornando alla Centrale del latte occorre dire che il buon nome che si era costruito era
frutto di un lavoro serio, meticoloso, pignolo, richiesto dalla direzione. Non c‟era
riutilizzo di latte rimasto invenduto. Il grosso allevamento di maiali esistente nelle
vicinanze della latteria utilizzava gli scarti di produzione. Il burro era di qualità
rinomata ed era prodotto esclusivamente con il metodo della centrifugazione, da
macchinari all‟avanguardia. Non venivano prodotti tanti tipi di formaggi, ma tutti
erano di sicura qualità. Mio padre mi diceva che già nel periodo successivo alla prima
guerra mondiale l‟allora casaro Pasquale Casagrande produceva dell‟ottimo
Quartirolo. La Centrale lavorava giornalmente una grossa quantità di latte ricavata
nella grande stalla presente all‟interno dell‟Amministrazione e da altra raccolta da un
certo numero di latarioi dipendenti dell‟azienda che, giornalmente, passavano in
“rassegna” tutto il territorio limitrofo. Inoltre un certo numero di latarioi esterni
raccoglieva latte da produttori privati e lo recapitava in Centrale. A integrare questa
già massiccia raccolta ogni giorno un camion dell‟azienda si recava a Brescia e
tornava anch‟esso con un grosso carico di latte di giornata.
Delle persone che hanno lavorato nella latteria nel periodo della mia residenza al
Baronbianchi, ricordo il direttore sig. Bigliardi, un uomo che ha lasciato un buon
ricordo di sé sia per quanto riguarda la capacità lavorativa sia per quanto riguarda
l‟aspetto umano. Ha abitato nell‟alloggio ricavato sopra il mezà fino alla sua partenza
avvenuta per andare a fare il direttore della latteria di Cison di Valmarino. Il suo posto
fu preso da una persona di cui non ricordo assolutamente nulla e che in seguito si
trasferì nella latteria di Carpenedo senza provocare eccessivi rimpianti tra il personale.
Il posto di capo Centrale del latte venne in seguito assegnato a Pasquale Casagrande
che si stava approssimando al pensionamento. Un‟altra persona che ha lavorato in
latteria per tutto l‟arco della sua vita lavorativa è Silvio Maccatrozzo, come la sorella
Inda che ho già menzionato in precedenza. Lo stesso si può dire di Adele Candelù
sposatasi non più giovane con Guido Cappellesso di Zerman, che in seguito ha trovato
anch‟esso occupazione in latteria. Anche di Pietro Vecchiato ho già accennato in
precedenza parlando della caldaia della Centrale. Voglio aggiungere che il buon Piero
Caldo aveva sposato Olga Pasquali (Merlotto) da Zerman, che aveva ereditato dal
padre l‟arte di giustaossi. Evidentemente la Olga qualche volta praticava la sua arte
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alla presenza del marito che così aveva appreso qualche rudimento del mestiere. Fatto
sta che a noi ragazzini quando capitava qualche storta o piccola slogatura (e non era
raro) si andava nel locale caldaie, da Piero Caldo, che, prontamente interveniva
“tirando” il dito o l‟arto incalcà (slogato). Se la cosa era più seria del previsto, ci
mandava dalla moglie Olga, “titolare” della professione.
Per ultimo voglio parlare di Alessandro Pieretto, mio santoeo (padrino) di Cresima.
Anche lui ha sempre lavorato in latteria ed è stato il primo a farmi assaggiare lo
jogurt. Ricordo che quando passavo nella stradina posta tra la cantina e il lato est della
latteria mi chiamava dentro il locale, dove stava confezionando i vasetti di jogurt e me
ne regalava uno. La prima volta non ho trovato granché buono quel prodotto, ma in
seguito ci ho preso gusto. Allora, quando potevo, ripassavo alla stessa ora e il mio
caro santoeo era ben felice di rinnovare il dono al suo fiosso (figlioccio).
Quante volte ho salutato il buon Alessandro chiamandolo santoeo sentendomi
richiamare con piacere fiosso. Si usava così, com‟era consuetudine, per buona
educazione, chiamare allo stesso modo anche i padrini dei fratelli. E così, poiché mio
padre ha lavorato per cinquantacinque anni nell‟azienda Bianchi e ha cercato sempre i
padrini dei propri figli tra i compagni di lavoro, immaginate quante volte al giorno mi
capitava di usare la parola santoeo! In azienda oltre ai miei due padrini lavoravano i
santoi Alfonso Secco, Antonio Candelù, Amelia Dal Ben, Costante Calzavara.
LA RACCOLTA DEL LATTE : I LATARIOI
Ho già accennato in precedenza come avveniva la raccolta latte nei territori in cui
c‟era la presenza di fondi di proprietà dell‟azienda. In pratica esisteva una squadra di
operai che giornalmente doveva effettuare cinque percorsi diversi per coprire tutto il
territorio. Ogni carioto (conduttore di carri) aveva a disposizione il suo carro simile a
quello delle carovane dei pionieri del Far West, quindi munito di una copertura ad
arco che consentiva il lavoro in qualsiasi condizione di tempo. Di solito il cavallo o
mulo utilizzato da un conducente era sempre lo stesso, ma questo lo decideva mio
padre che era il responsabile della gestione del servizio. Il conducente, una volta
attrezzato il carro, passava alla Centrale del latte a ritirare i grossi bidoni di alluminio
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idonei alla raccolta e trasporto del latte. Portava con sé un registro per annotare i dati
della raccolta e una specie di tromba per segnalare l‟arrivo ai vari coloni. Mio padre
doveva garantire l‟effettuazione di tutti i percorsi predisponendo mezzi e animali e
provvedendo a trovare un sostituto idoneo in caso di mancanza di un conducente.
La partenza e l‟arrivo dei carri avvenivano dalla sede dei cavai per cui, dal
pianerottolo che costituiva l‟ingresso della mia abitazione, ho assistito per anni al
rientro dei vari carri dal “giro del latte”. Attiravano la mia curiosità di bambino le
operazioni di parcheggio dei carri, del liberare i cavalli dal carro, dai finimenti, la loro
abbeverata prima del ricovero in stalla. Pur essendo bambino, avevo la percezione che
qualche volta il carro rientrasse in sede solo perché il cavallo conosceva a memoria il
percorso. A volte il rientro assomigliava a scene di guerra che ho visto tante volte al
cinema quando sono diventato più grande. Le scene di cui parlo riguardano il rientro
degli aerei sulle portaerei dopo un‟azione di guerra. In quel caso i piloti, dopo
un‟estenuante battaglia e, forse feriti, a malapena riuscivano a centrare il ponte di
atterraggio venendo subito soccorsi dalla Croce Rossa. Nel caso dei latarioi
le
“ferite” erano causate dalle troppe squèe de crinto (scodelle di clinton) profuse con
troppa generosità da qualche parona de casa. In questo caso la Croce Rossa si
materializzava con le sembianze di mio padre o del santoeo Virginio che
provvedevano alle operazioni di soccorso “svestendo” il cavallo e recuperando, per
tenerlo per qualche tempo in osservazione, il conducente sbarossà. Dopo un
ragionevole tempo di osservazione passato in posizione distesa su un mucchio di
fieno, al conducente era dato il segnale di “pista libera” per il rientro a casa.
Li ricordo benissimo quei personaggi. Ricordo il loro viso, il loro vestire, la loro
mimica. Hanno recitato, a loro insaputa, un film che io mi rivedo come se fosse
attuale. Com‟è cambiata la vita rispetto ad allora! Chi non l‟ha vissuta non può
immaginarla neanche se legge mille descrizioni! Ma torniamo a quei personaggi
incominciando a ricordare Innocente Gracci detto Nocente Faareto. Abitava a Zerman
in via Croce, località “Alture”, in una casa molto vicina in linea d‟aria alla casa dei
miei nonni paterni. Per questo egli conosceva bene la famiglia di mio nonno ed era in
grado di raccontarmi cose che io non conoscevo. Era il padre di quel Mario Gracci che
ha un negozio di scarpe in piazza Pio X° a Mogliano. Gli somigliava molto: stessa
statura, stesso modo di parlare. Era taciturno, ma qualche volta, se mi avvicinavo per
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osservare le sue operazioni attorno al carro del latte, mi parlava. Una volta mi disse
che ero il nipote del riccone Scarpazza. Io non avevo idea di cosa stesse dicendo, ma
lui continuò a parlarmi di un fatto cui aveva assistito agli inizi del Novecento. Quella
volta mio nonno Lorenzo transitava per Zerman con il suo immancabile calessino
trainato dalla cavallina bianca. Era giorno di festa e la gente stava uscendo da messa e
s‟incamminava verso casa. Mio nonno si fermò davanti al capitello detto dei Cussiol,
posto all‟incrocio tra via Preganziol e la strada che proviene dalla chiesa (il capitello
con affresco del Veronese, per intenderci). All‟arrivo dei ragazzini usciti dalla messa,
tra i quali c‟era appunto Innocente, il nonno estrasse dalla tasca una manciata di
monetine che lanciò per aria, come si usa fare con i confetti in occasione dei
matrimoni. Salvati cielo! Il fatto ebbe risonanza e da quella volta il ramo degli
Scarpazza di mio nonno fu definito “del riccone”. Tale nomignolo rimase fino alla
morte del nonno, poi si perse nel nulla. Di tale episodio, ormai perso nella notte dei
tempi ho avuto conferma da mio zio Alessandro Biadene (detto Giulio Ivio) anch‟egli
di Zerman e nato sul finire dell‟Ottocento. Tante volte mi sono chiesto il perché di
quel gesto: un atto di generosità, una sbruffonata oppure mio nonno stava rientrando a
casa dopo aver intascato gli ultimi soldi dalla vendita di proprietà possedute in
passato? Non lo saprò mai.
Un‟altra cosa che ho appreso da Innocente riguardava mia nonna. Mi disse che era
chiamata “Tempesta” perché era impetuosa e attiva come un vulcano in eruzione. Si
chiamava Luigia De Marchi, ed era una bella donna, mora, formosa, che sapeva
mettere in riga tutta la famiglia degli Scarpazza, composta di quaranta persone.
Innocente mi disse anche che era rinomata come cuoca, infatti, era chiamata a dirigere
la “truppa” di cucina in occasione di matrimoni celebrati nei dintorni. Nessuno come
lei sapeva fare il risotto “alla sbiraglia”, con dentro i pezzetti di pollo, comprese le
zampe con le ossa spezzate, per rilasciare il sapore del midollo. Non ho conosciuto i
miei due nonni descritti da Innocente, ma diversa gente che ha conosciuto la
“Tempesta” mi ha detto che assomigliava molto a mia figlia Paola, così mi consolo
potendola immaginare. Magari le assomigliava anche di carattere: sempre par sòra
come l‟oio!
Anche Innocente incappava di tanto in tanto in qualche “squea” di troppo. Ricordo
che un giorno rientrò dal “giro” in condizioni spaventose. Il cavallo si fermò da solo al
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solito posto di arrivo ma Innocente rimase seduto al suo posto di guida senza
nemmeno tentare di scendere dal carro. Aveva lo sguardo allucinato, un‟espressione
terrificante, oggi si direbbe da coma etilico. Andai a chiamare mio padre che in
qualche modo riuscì a farlo scendere e a trascinarlo in un mucchio di fieno. Poi lo
coprì con una coperta e lo lasciò a sbronzarsi. Ma quella volta le cose andarono per le
lunghe. All‟imbrunire non era ancora cambiato niente. Arrivò la moglie in bicicletta,
impensierita dal ritardo del marito. Mia madre badò a preparare un buon caffè caldo
(si fa per dire “buon caffè”, ma riferito ai tempi ci può stare), ma l‟effetto sortito non
fu un granché. Allora mio padre, con la solita pazienza, allestì un carro di soccorso,
una specie di ambulanza del tempo, caricò bicicletta e ciclista e, seguito dalla moglie
in bici, riportò a casa il buon Innocente.
Un altro personaggio particolare tra i conducenti era il santoeo Alfonso Secco detto
Pèe. Quest‟appellativo era attribuito per dire che uno era birbante, furbo come una
volpe, scaltro, propenso a far scherzi di qualsiasi tipo. Così era proprio Alfonso, padre
di quel Giovanin Cordèa conosciuto per aver fatto una vita da commesso nel negozio
di mercerie di Marton. Una volta il buon Alfonso stava rientrando dal giro della
raccolta latte mentre io ero intento a cacciare passeri (sèeghe) con una rudimentale
fionda costruitami da mio padre. Dovevo essere molto piccolo, alle prime armi.
Quando mi vide, il “briccone” fermò il carro e, col suo solito sorriso da “birbante”, mi
chiese di prestargli la fionda, perché aveva visto un uccello posato su un ramo. Mi
chiese anche di nascondermi dietro un muro per non spaventare la preda. In realtà
questa richiesta nasceva dall‟esigenza di non farmi vedere del tutto il prodigioso tiro.
Fatto questo prese con cura la mira e tirò un colpo di fionda per poi esultare
platealmente per aver fatto centro. Non potete immaginare la mia ammirazione per il
santoeo che aveva fatto centro al primo colpo. Il provetto cacciatore m‟indicò un
albero, un morer lontano una cinquantina di metri, dicendomi di andare lì a
raccogliere la preda di caccia. In effetti, sotto l‟albero c‟era una sèega (passero) con le
gambe all‟aria, stecchita. Tutto eccitato presi l‟uccellino e andai di corsa in casa a
mostrarlo a mia madre. Appena presa in mano la preda mia madre mi chiese se per
caso non fosse opera del santoeo Pèe. -Si, le dissi, - ma come fai a saperlo? - E lei di
rimando: - e chi altro se non il santoeo Pèe può escogitare simili asenae (bricconate) ?
L‟uccellino doveva essere morto da qualche giorno perché aveva già i vermetti, ma io
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ero molto piccolo ed eccitato e non me ne ero accorto. Immagino le sganasciate che si
sarà fatto nell‟occasione quella birba di Alfonso: avrà fatto anche le lacrime com‟era
solito fare quando rideva a crepapelle per aver fatto una delle sue usuali birbantae…
Altro personaggio del gruppo era Adolfo Brandolese, originario di Este, un uomo
piccolo come Charlot al quale s‟ispirava nel portare i pantaloni. Infatti, non l‟ho mai
visto in vita mia se non con un paio di pantaloni larghi da non credere. Portava sempre
un berretto di quelli con frontino che si affloscia sul capo. Aveva un nasone ricurvo
ed era sempre con la cicca in bocca, anche se non l‟ho mai visto accendere una
sigaretta nuova. Infatti, girava sempre con un cartoccio di cicche in tasca. Quando
aveva voglia di fumare si metteva in un angolo, tirava fuori il suo cartoccio di cicche,
ne srotolava alcune, prendeva una cartina e via! Con consumata maestria in un attimo
confezionava la sua sigaretta che accendeva subito con evidente soddisfazione. Adolfo
aveva un fratello che recitava nelle commedie di teatrini paesani, e anche lui aveva
una naturale predisposizione per assumere atteggiamenti burleschi. Lo faceva qualche
volta alla presenza di noi ragazzini per divertirci. Ma la cosa incredibile in questo
piccolo uomo era che quando c‟era bisogno di qualche intervento nell‟impianto
elettrico si ricorreva a lui. Allora lo si vedeva armeggiare con maestria in mezzo a fili
spellati, a far giunzioni, a inserire un nuovo portalampada, ecc. Mio padre ricorreva a
lui anche per sostituire una lampada perché non ha mai smesso di guardare i fili
elettrici con una certa diffidenza. Adolfo si compiaceva di spiegare a noi ragazzini i
misteri dell‟elettricità. Ricordo che mi chiamava vicino e mi spiegava cosa stava
facendo. Prendeva in mano un conduttore elettrico spellato per farmi vedere che se sei
isolato da terra e lo tocchi non succede niente. Ma mi diceva anche di non
sottovalutare mai i pericoli della corrente elettrica perché se ti distrai mentre lavori, ti
può costar caro, anche la vita. Insomma in questo campo è stato il mio primo maestro
e per chi lo conosceva solo per il suo modo di essere di tutti i giorni, sembrerà
inverosimile.
Nel gruppo dei “ carioti “ raccoglitori di latte c‟era anche il santoeo Costante
Calzavara da Campocroce. Era soprannominato Cotta per via di una deturpazione su
una guancia, causata da una scottatura. Era un uomo alto, dalla voce cavernosa, dal
comportamento senza sbavature. Era sempre ben curato nella persona e nel vestire, un
po‟ in contrasto con il resto del gruppo. Non ho ricordi che sia incappato in qualche
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disavventura di natura enologica. Era in sostanza una persona sobria, misurata.
Ultimo componente del gruppo era il vecchio Luigi Pieretto, padre del mio santoeo,
uomo taciturno, ormai prossimo alla pensione. Arrivava al lavoro sempre a piedi,
forse perché non sapeva andare in bici o perché non si fidava più. Era soprannominato
Borse, non saprei dire perché. Una volta, in occasione di un‟eccezionale brentana
(alluvione) finì con carro e mulo in un fossato mentre si dirigeva verso la casa dei
Donà (S-cièvano). Fu tratto in salvo, non così il mulo che morì annegato.
Come ho detto in precedenza a integrare il gruppo di raccolta latte per conto
dell‟azienda c‟erano alcuni “indipendenti”. Tra questi ricordo Gigio Pezzato che
abitava dove ora c‟è il complesso ex Nigi, poi Aurelio Codato (Spagnoin) da Zerman
e infine l‟orbo Ciòro (Moino) da Bonisiolo. Questi tre personaggi erano in ottimi
rapporti con mio padre che provvedeva, in orari fuori lavoro, a sistemare i finimenti
dei loro cavalli. In cambio riceveva qualche mezza forma di formaggio dal buon Gigio
Pezzato e qualche “fiaschetta “ di vin de casada dagli altri due.
IL TRASPORTO CON CAMION
Del latte raccolto nel bresciano, ho già fatto cenno. Il trasporto avveniva tramite un
grosso camion che faceva la spola, giornalmente, tra Brescia e Mogliano. Ricordo il
grande camion con una vistosa scritta sopra la cabina del conduttore. Vi era scritto :
Dio ci salvi, ma la preghiera non fu evidentemente raccolta. Infatti, una serie di eventi
sfortunati si accanì contro coloro che hanno occupato quel posto di guida. Il primo
capitò ad Alfredo Zanadel, originario da Falzè di Piave ma poi espatriato in Libia
prima di fare ritorno a causa della guerra. Alfredo a un certo punto si dimise da autista
presso l‟Azienda Bianchi per mettersi in proprio con un camion. Qualche tempo dopo,
in un incidente, probabilmente causato da stanchezza per eccessivo lavoro, perse la
vita. In seguito arrivò Tranquillo Requale da Zero Branco. Questi trovò la morte in un
incidente stradale mentre era in servizio lasciando la moglie giovane con due
figlioletti, dei quali il più grande si chiamava Tanito. I due bambini crebbero e fecero
fortuna diventando i titolari della ferramenta Requale di Zero Branco. Dopo questo
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fatto arrivò un altro autista di nome Antonio (Toni) Vanzo. Un giorno questi, al ritorno
da un viaggio a Brescia non fece nemmeno in tempo a scendere dal camion che
stramazzò a terra fulminato da un infarto. In seguito il posto fu preso da Piero Marcato
che per fortuna, mentre scrivo, è ancora vivo e vegeto e s‟ incammina, essendo del
‟19, verso i novant‟anni.
IL SETTORE VINICOLO
La produzione di vino e grappa è andata via via assumendo un continuo incremento
sia in quantità sia in qualità arrivando a un livello di prestigio soprattutto con la
grappa, anche se c‟è da dire che, nel 1965, l‟azienda ha avuto un significativo
riconoscimento andando a vincere un “Bacchino d‟oro”, premio a risonanza nazionale,
con un vino Merlot di propria produzione. Anche qui, come nel latte, il prestigio
raggiunto è sicuramente dovuto all‟impegno profuso nella cura dei minimi particolari
in ogni fase del ciclo lavorativo, a cominciare dalla scelta dei vitigni per finire alla
stagionatura e conservazione del prodotto finito.
Nella produzione della grappa prima di passare alla lavorazione le sarpe (vinacce)
erano scrupolosamente controllate scartando eventuali partite non ritenute idonee. Ho
sentito dire da qualche addetto ai lavori che in altre distillerie ciò era impensabile
poiché si riteneva che tutto “faccia brodo” ossia graspa, ma alla fine la differenza si
sente.
Ricordo le interminabili carovane di carri che transitavano per via Bianchi
trasportando le grandi tine colme di uva da portare in cantina per la spremitura. In
quelle occasioni io e Gioanin aspettavamo con pazienza che la carovana avesse
qualche intervallo, qualche spazio tra carro e carro per salire furtivamente dal retro del
carro di coda e prenderci un grappolo di uva da gustare. Alle volte si trovava qualche
tipo di uva buona, dolce, alle volte s‟incappava in qualche carico di uva Clinton dal
sapore non proprio gradevole, che spellava la lingua. Una volta arrivati in
Amministrazione i carri passavano per la “pesa” per poi accodarsi dove era sistemata
la macchina per la spremitura. Finito il momento della spremitura, iniziava il periodo
dei travasi, altra operazione delicata che, se fatta a regola d‟arte portava ad aver un
buon vino. Alla fine il vino veniva conservato in enormi botti di legno, in genere di
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rovere. Qui bisognava tener sempre d‟occhio il livello ed effettuare frequenti
rabbocchi per ridurre al minimo il contatto con l‟aria. Di tutte queste operazioni era
responsabile Carlo Tozzato (Carleto Cocio) un uomo di piccola statura da sempre
titolare del ruolo di canever (cantiniere). Le grandi botti di legno avevano una
porticina di accesso, un “passo d‟uomo”, che permetteva a fine stagione di entrarci per
l‟ispezione e l‟asporto del deposito calcareo ( gripoea). Per questo lavoro, vista la
dimensione della porticina di ingresso, veniva utilizzato (meglio sarebbe dire
sfruttato) qualche ragazzo. Il mio caro amico Gioanin, finite le scuole elementari, ha
fatto per qualche anno questo lavoro. Mi ha raccontato che qualche volta è stato tirato
fuori dalla botte in condizioni di semincoscienza per la mancanza di ossigeno e la
presenza di esalazioni solforose. Anche mio fratello Orfeo è stato utilizzato per questo
lavoro nel periodo in cui, da ragazzo, lavorava da Bianchi come garzone di officina.
Immagino l‟apprensione di mia madre quanto si verificava questo evento.
Tra una stagione e l‟altra era anche necessario fare interventi di manutenzione su
botti, tine, caretei e secchi di legno. Occorreva cambiare qualche doga, riparare
qualche portina d‟ispezione, sostituire qualche sercion (cerchio), ecc. A tutto questo
provvedeva Demetrio Casarin, esperto bottèr, con i figli Ilario, Italo e Giorgio.
Demetrio era un omone corpulento paragonabile al mitico Obelix, compagno di
Asterix nei fumetti di Goscinny e Uderzo. Arrivava in Amministrazione portandosi
sempre un secchio di legno con dentro gli attrezzi del mestiere. Prima di iniziare la
giornata di lavoro si faceva riempire il secchio di vino buono: quella era la sua razione
giornaliera!
Il vino Bianchi aveva conquistato una buona fetta di mercato in Germania, dove
erano inviate parecchie spedizioni di bottiglie confezionate direttamente nella cantina
con l‟ausilio di apposito macchinario e un discreto numero di persone addette.
Una volta la settimana avveniva la vendita di vino direttamente in cantina. In
quell‟occasione una processione di gente, dipendenti che ritiravano la quota parte
spettante per contratto e altra gente esterna, passava per il mezà a fare la bolletta per
poi andare dal buon Carletto a riempire i recipienti o a ritirare la bossa de graspa.
Tante volte da bambino seguivo mio padre che andava a compiere questa incombenza.
Ricordo che Carletto non mancava mai di far assaggiare a mio padre il prodotto
venduto. Naturalmente questo non serviva per decidere per l‟acquisto, tanto quello era
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il vino disponibile, e non c‟era verso di poterlo andare a prendere dalla cantina
seminterrata: quello era per Spizzotin, Sartori, il parroco di Zerman ecc. Tuttavia devo
dire che ogni tanto arrivava a casa qualche “fiaschetta” di quello buono.
Evidentemente anche una volta le buone relazioni portavano qualche vantaggio.
Quando sono diventato più grandicello andavo spesso da solo a prendere il vino,
giacché mio padre, troppo occupato, doveva rinunciare all‟assaggio. Io facevo il pieno
senza verificare la qualità, preferivo bere latte. In quelle occasioni mio padre mi
caricava sulla carriola la fiasca dell‟oio, una damigiana recuperata al “palazzo” tra
quelle buttate dopo aver utilizzato il contenuto, appunto dell‟olio di oliva. Infatti, in
villa usavano dell‟olio che arrivava direttamente dal produttore in damigiane da dieci
chili. Una volta recuperata la fiaschetta di vetro mio padre l‟aveva inserita in un
cestello contenitore di quelli per le damigiane da dieci litri. In realtà dieci chili di olio
corrispondono a dodici litri e mezzo, non a dieci. Quando passavo per prendere il vino
il buon Carletto mi chiedeva con un sorriso compiacente: - dieci litri vero?- E mi
strizzava l‟occhio riempiendo il contenitore. Caro Carleto, facevi un‟opera buona, un
po‟ alla Robin Hood, quando riempivi la fiaschetta dell‟oio per dieci litri, e tu padre,
sono sicuro che non avrai dovuto rendere conto al Giudice Supremo di quelle piccole
“astuzie” che ti dovevi inventare per tirare avanti la pesante carretta!
Tra le persone che hanno lavorato parecchi anni in cantina ricordo, oltre al già citato
Carletto, Elena Tronchin (Nene Cicara) rimasta vedova molto giovane di Ugo Dal
Ben, morto di tetano prima della nascita dell‟unico figlio, cui fu imposto il nome del
padre. Per diverso tempo ha lavorato in cantina anche Gino Biasetto detto Broca, la
Giannina Vecchiato (Giani Caldo) e il mio inseparabile amico Gioanin Simionato che
vi ha lavorato per una decina di anni. Ricordo inoltre la Enrichetta Marton, la
Giovanna Prete da Zerman che ha poi sposato Ciano Sottana, la Lidia Toniolo da
Zerman, sorella di mio cognato Sergio, la Gina Rosina che poi sposò il mio amico e
compare Gioanin.
Tra coloro che hanno lavorato nei mesi invernali in distilleria ricordo Gino
Vecchiato (Caldo) col quale ho trascorso dei piacevoli momenti di svago quando si
andava a giocare a bocce all‟osteria Bonotto. Era leggermente balbuziente, ma sapeva
usare il suo lieve handicap per accrescere l‟effetto della sua sottile ironia.
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“ EL MEZÀ “
L‟attività amministrativa e gestionale era svolta in quello che era il cuore
dell‟azienda, nel mezà appunto. Ho già descritto in precedenza l‟aspetto del luogo. In
esso “troneggiava” la figura di Armando Sartori che aveva un ruolo aziendale
preminente, sottoposto solo alla baronessa Federica, ma con una notevole autonomia
di scelte d‟indirizzi aziendali. Era un uomo di notevole corporatura, molto grosso.
Quando passava per la strada durante il tragitto casa-lavoro, vedevi arrivare per primo
l‟incredibile pancione con sopra un “sottogola” a tre strati. Alle sue dipendenze c‟era
la figlia Egle che ha lavorato in quell‟ufficio fino al pensionamento, alternandosi allo
sportello per il pubblico con Bruna, ”la triestina”. Altro addetto all‟ufficio era Ernesto
Peschiuta che dopo la morte di Sartori ottenne il ruolo di capoufficio, ma con meno
poteri rispetto al predecessore. Altri addetti furono Gino Ronchin, Gino Michielin e
Lino Bellio. Per ultima arrivò a fare servizio di sportello, attività che svolse per molti
anni, Valeria Vanin, che in seguito sposò Giorgio Rizzo.
L’ALLEVAMENTO BOVINO
L‟enorme stalla che ho già ricordato conteneva non meno di cento mucche e due
grossi tori da monta. Le mucche davano alla luce dei vitellini, per poi produrre latte
per un certo periodo fino a una nuova maternità e così via. I vitellini erano svezzati
per un certo periodo in loco per essere in seguito spostati al Cason. La mungitura era
fatta a mano da diversi addetti. I due tori servivano per la monta delle mucche del
posto e anche di tutte quelle sparse nelle varie stalle delle proprietà dell‟azienda. I due
tori avevano un anello conficcato nel naso, come usano adesso i ragazzi alla moda.
Quando dovevano essere spostati, erano agganciati per l‟anello da un apposito
manganello che aveva a una estremità un gancio a scatto. In questo modo il toro per
evitare di sentire un dolore atroce era obbligato a seguire il manganello. Ricordo che
quando passavo davanti alla postazione dei tori non avevo il coraggio di guardarli
negli occhi. Mi sembrava che avessero sempre lo sguardo torvo, da incazzati, come se
volessero dirti: se ti prendo! Eppure erano ben legati da una grossa catena!
Il capo di questo complesso era Antonio Candelù, coadiuvato da una squadra di cui
hanno fatto parte Mario e Nicola Berton (Fasioeo), Gino (Brocca) e Ferruccio
(Ciucia) Biasetto e Giovanni Bortoletto.
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L’ALLEVAMENTO SUINO
Dietro la cantina, nel lato ovest, c‟erano due lunghi e bassi capannoni adibiti ad
allevamento dei maiali che consumavano, tra le altre cose, lo scarto di lavorazione
della latteria. L‟addetto a quest‟allevamento era Costante (vecio) Marcato, che di
solito, per lavorare, indossava una strana “vestaglia”, simile a quella che usano i
contadini del sud Tirolo. Tra le cose che erano usate per alimentare i maiali ricordo le
ghiande raccolte dalle grandi querce del bosco della villa e le patate. Le ghiande erano
raccolte da ragazzi e donne che si recavano nel bosco con carriole, secchi e sacchi di
juta che riempivano e consegnavano a Eti Maccatrozzo che aveva il compito di
pesarle e farle accatastare in un angolo del porticato del sèese. Eti rilasciava un buono
con scritto il peso rilevato. Con quello si passava allo sportello della Egle Sartori che
provvedeva a liquidare il compenso. Non credo si trattasse di un grosso compenso, ma
a quei tempi faceva sicuramente comodo ed io e mia sorella Maria, a volte
accompagnati dalla mamma, eravamo sempre della compagnia. Altro discorso è
quello delle patate. Sono passati più di sessant‟anni, ma a pensarci mi viene ancora
l‟acquolina in bocca. Quella delle patate a quel tempo era una tra le colture praticate
dall‟Azienda Bianchi. Il raccolto era selezionato per diversificarne l‟utilizzo. Le patate
di prima scelta, più grosse, erano immesse sul mercato, le altre, di taglia medio
piccola, erano usate per integrare l‟alimentazione dei maiali. Ogni mattina il vecio
Marcato preparava un grosso recipiente pieno di patate montato su un apposito
carrettino e lo piazzava all‟esterno del locale caldaia dove fuorusciva un tubo che,
all‟occorrenza, scaricava del vapore. Il tubo veniva immerso nel calieron contenente
le patate con un po‟ di acqua. Prima di mezzogiorno le patate erano pronte, cotte a
puntino, a vapore. Allora, prima che Costante passasse a prendere il fumante
carrettino, io e Gioanin facevamo una capatina da quelle parti per gustarci il delizioso
antipasto. Una vera delizia! Ancora oggi una patata appena lessa, non troppo grossa e
da pelare, costituisce per me un richiamo irresistibile. Ai quei tempi il buon vecio
Marcato si guardava bene dal farci un qualsiasi rimbrotto, sapeva bene che in
occasione di qualche accidentale apertura del recinto dei maialini, con conseguente
fuga degli stessi, poteva contare sul nostro aiuto, sulle nostre gambe leste per
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ricondurre i dispersi nel ricovero.
L’OFFICINA MECCANICA
L‟officina meccanica è stata per anni il “regno” di quel valido meccanico che
rispondeva al nome di Paolo Rizzo, el sior Pagoìn, che era stato reclutato direttamente
da Ferdinando de Kunkler da un‟officina di Este. In quel locale attrezzato e spazioso
Pagoìn ha esercitato con competenza la sua professione di meccanico, motorista,
idraulico, ecc. Alle sue dipendenze, con l‟incarico di garzone e apprendista ha
lavorato anche mio fratello Orfeo dalla fine delle scuole elementari e fino alla sua
partenza per le scuole della marina. In officina ha anche lavorato per un certo periodo
Luigi (Gigeto) Candelù, Ugo Dal Ben (Cicara) e infine Giorgio Rizzo, figlio di
Pagoìn, che avrebbe poi lasciato l‟azienda per andare a lavorare in ferrovia.
LA FALEGNAMERIA
La falegnameria è rimasta attiva fino ai primi anni Cinquanta. In seguito il locale è
stato adibito a refettorio per soddisfare le esigenze delle addette alla lavorazione del
tabacco. Con l‟incarico di falegname si sono succeduti nel tempo Amedeo
Maccatrozzo, figlio di Eti, Cesare Simionato figlio di Gigio e il “rosso” Rosina, da
Zerman.
LA SQUADRA EDILE
Una squadra edile più o meno numerosa è stata sempre presente alle dipendenze
dell‟azienda. Tra le persone con questo ruolo ricordo Scagno da Campocroce, mio
cugino Guido Favaro e Secondo Brescancin che faceva coppia con Olindo Bonotto. Di
Olindo mi viene in mente quel giorno che ci siamo trovati, da coscritti, alla visita
militare di leva. Alla fine era felice e orgoglioso, perché, tra un gruppetto di
conoscenti, solo noi due eravamo stati ritenuti abili e arruolati. E pensare che c‟era
gente che avrebbe fatto carte false per essere “scartato”!
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IL GUARDIANO
Un servizio di guardiania era effettuato all‟interno del recinto dell‟Amministrazione
nell‟orario al di fuori di quello del lavoro, quindi nell‟intervallo di pranzo e dalla sera
al mattino. A tale compito per molti anni ha provveduto Emilio Marton con l‟ausilio
del cane bassotto Pronto. Ricordo quando il vecchio Milio passava davanti a casa
nostra, per prendere servizio, sempre intabarrato col suo mantello a ruota e la vecchia
doppietta in spalla. Il cane trotterellava sempre una decina di metri avanti il padrone.
Pronto era molto brutto e noi ragazzi lo consideravamo anche stupido. Era lungo e
grosso, con il pelo corto di color bianco sporco, con grandi chiazze irregolari di color
beige chiaro. Ricordo quando di giorno veniva nel cortile dei cavai perché c‟era la
cagnetta dei Marcato, la Lea, in calore. Egli si accontentava, quando la Lea era in giro
con i morosi, di accovacciarsi nella cuccia della cagnetta, un cesto con della paglia, e
schiacciare qualche pisolo, sdraiandosi al contrario di come dormiva la Lea. Vedendo
il cane che dormiva da quel verso la gente, diceva: - guarda che stupido è Pronto, che
razza di guardiano è se, invece di guardare verso il cortile, volge la testa verso il
muro. Riflettendoci ora mi viene da pensare che il vecchio cane, in quella posizione, si
facesse dei fantastici sogni annusando il profumo lasciato dalla Lea. Per lui era il
massimo, la cagnetta aveva ben altri pretendenti.
Per concludere sul servizio di guardiania ricordo che in occasione di assenze del
guardiano titolare, per malattia o ferie, era mio padre che effettuava la sostituzione.
Svolgeva ugualmente il suo compito diurno e alla sera andava a ritirare la vecchia
doppietta per passare la notte a guardia dell‟Amministrazione. Tutto si poteva dire di
mio padre, non certo che fosse come quelli di Montebelluna, cioè con un brasso
longo e uno corto.
I PUNTI DI AGGREGAZIONE DEL BARONBIANCHI
L’OSTERIA BONOTTO
L‟Osteria Bonotto era nata prima della grande guerra assumendo la caratteristica di
piccolo bàcaro dove si mescevano ombre e “quartini” di vino , qualche biciarin de
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graspa o prugna e poco altro. Si trovava nella vecchia casa dei Bonotto nell‟omonima
via che a quel tempo era un semplice stradone di campagna, un careson. Durante i
mesi invernali raggiungere quel posto, a causa del fango, non era impresa facile. Per
questo, appena possibile, fu costruito un nuovo fabbricato dove si poteva allestire una
vera osteria, in via Bianchi, cioè in una strada transitabile. Pietro Bonotto, il fondatore
dell‟esercizio, che aveva sposato Pasqua Berton, morì senza lasciare eredi. Allora la
Pasquetta si portò in casa la nipote Gemma chiamata Delia, figlia di sua sorella Maria
e di Sante Badin. Alla morte di Pasquetta (1950) l‟osteria rimase alla Delia che in
seguito si sposò con Alfredo Favaro, originario di Peseggia, da cui ebbe una figlia. Per
anni la Delia ha gestito l‟osteria per poi affittarla per alcuni anni ad Antonio Pin che
ha condotto con la moglie Eugenia l‟attività del locale.
Nel periodo che va dal dopoguerra e fino a poco dopo gli anni sessanta, l‟osteria
Bonotto ha rappresentato un punto d‟incontro e di aggregazione per gli abitanti del
Baronbianchi, che non hanno mai avuto uno spazio, una piazza, una sede di quartiere
come si usa oggigiorno. Allora, quando, a metà Quaresima, c‟era da brusar a vecia
dopo aver letto “ „a sentensa ”, oppure quando c‟era da trovarsi nel periodo di
carnevale per ballare al suono della fisarmonica di Angelo Faggian o Gelmo Marcato
o, più tardi, per vedere tutti insieme le prime trasmissioni di “lascia o raddoppia” del
buon Mike, ecco la gente della contrada riversarsi dalla Delia, che aveva il suo gran
d‟affare a servire gazzose e quant‟altro si usava consumare allora.
A quel tempo sul retro dell‟osteria c‟era un campo da borea e tre campi da bocce,
naturalmente tutti all‟aperto. Durante la buona stagione non c‟era serata che i campi
non fossero frequentati da un buon numero di persone anche provenienti da luoghi
limitrofi. Fino a qualche anno dopo il cinquanta il gioco della borea era il più seguito,
era considerato il vero gioco da omeni e si consumavano memorabili dispute con
appassionati che venivano anche da fuori. Il gioco consisteva nell‟abbattere il maggior
numero di birilli, detti soni, lanciando una grossa palla di legno da una distanza
ragguardevole. Alla fine del recinto di gioco un casotto in legno serviva da riparo per
chi fungeva da sior, con il compito di rilanciare le palle ai contendenti. Per questo suo
“servigio” aveva il diritto di ordinare qualcosa da consumare assieme ai giocatori. Pur
non essendo appassionato di questo gioco, da ragazzo sono stato coinvolto dal tifo per
qualche giocatore di casa e ho seguito delle agguerrite competizioni. Tra i giocatori
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ricordo Mario Tronchin ( Graziadio ), un omone con un braccio possente che
raccoglieva le sfide di qualsiasi foresto.
A poco a poco questo gioco ha perso praticanti mentre quello delle bocce diventava
sempre più frequentato. A un certo punto sono stati rifatti completamente i campi da
gioco in modo da avere tre campi da bocce effettivamente praticabili, mentre prima il
solo campo centrale era di fatto usato. Da quel momento le serate e i fine settimana
hanno cominciato a essere dedicate in massa a questo passatempo, al tempo stesso
distensivo e salutare, perché svolto all‟aperto. Si sono formate delle simpatiche
compagnie formate da giovani e meno giovani del luogo, frammiste a qualche foresto.
Di quel tempo ricordo la compagnia dei meno giovani formata da caratteristici
personaggi come Pasquale Casagrande con la sua proverbiale flemma, da Silvano
Dotto che giocava sempre con le ciabatte ai piedi, da Carlo Tozzato, basso di statura,
che si torceva per seguire l‟andamento della boccia appena giocata, da Luigi De
Stefani, orbo come una talpa per cui era costretto a portare delle lenti spesse come el
fondo de un goto, da Mario Berton mancino specialista del gioco sotoman, da Cirillo
Pietrobon, piccolo e mingherlino, dal già citato Mario Tronchin che giocava con bocce
tanto grosse da sembrare le stesse usate nel gioco della borea, da Sero Carniato più
giovane dei precedenti nominati, accanito e assiduo praticante che si contendeva con
Bruno el furlan il ruolo del “mejo”. Questi due giocatori non mancavano mai e
arrivavano da casa con la personale valigetta porta bocce, usando lo straccetto per
tenere sempre pulite le bocce, come dei professionisti. Lo stesso facevano due usuali
giocatori “esterni” come Angelo Bianco e Ciro Carniato. Costui, più giovane e più
minuto del fratello Sero, era un simpatico sbruffone che usava girovagare dove
c‟erano dei campi da bocce per sfidare i giocatori del posto. Arrivava di corsa con le
sue bocce e la bicicletta e prima ancora di scendere dal mezzo lanciava, quasi urlando,
l‟usuale sfida: - ghe ne xè de boni stasera?- . Ho giocato contro di lui due sole volte e
in entrambe le sfide ci ha rimesso le penne, ingloriosamente. Era l‟anno 1961, ed ero
tornato da militare a marzo incominciando subito a frequentare, con assiduità, i campi
di bocce, soprattutto quelli del dopolavoro della S.A.D.E. a Marghera. A Giugno a
sorpresa avevo vinto il torneo individuale di società per poi andare a vincere un torneo
a terne a Maerne e un torneo a coppie a Mira, sempre con un certo Ercole Baldan di
Oriago, un giocatore incallito abituato a gareggiare tutte le domeniche nei vari tornei
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della provincia e oltre. Questo Baldan faceva normalmente coppia con un “puntista”
che incominciava a perdere efficienza per l‟età e problemi di vista. Per questo motivo,
avendomi visto gareggiare e vincere il torneo individuale, voleva a tutti i costi
convincermi a fargli da compagno di coppia. Per un po‟ ho aderito alla sua richiesta,
con risultati incredibili, ma per continuare bisognava allenarsi e allenarsi e le
domeniche passarle in giro sui campi di bocce. Alla fine ho capito che era molto
meglio giocare per passatempo con i miei amici di sempre, i miei inseparabili Gioanin
e Primo, senza dover pensare ad allenarmi. Piano piano ho perso lo standard di gioco
acquisito con gli allenamenti, ma per tutto l‟anno ho giocato a buoni livelli. E‟
appunto di quel periodo il primo scontro con Ciro Carniato. Passavo poche sere ai
campi di gioco dell‟osteria Bonotto, ma una sera, mentre guardavo un incontro tra i
vecchiotti del posto, arrivò il simpatico Ciro con i suoi soliti proclami di sfida. Non
c‟era tanta gente quella sera e, per giunta, mancavano i “mejo” per cui nessuno
raccolse la sfida. Allora mi feci avanti proponendomi come avversario. Lui mi guardò
stupito dicendomi: - ma tu giochi a bocce? Ed io di rimando: - ci provo, qualche volta
-. E così ebbe inizio la sfida. Lanciò il pallino per primo non prima di avermi sfottuto
dicendomi: - è meglio se vai al banco a pagare il conto senza nemmeno giocare! - . Ed
io di rimando: - forse hai ragione, ma i morti si contano alla fine della battaglia -. Al
primo giro Ciro fece due punti, raccolse il pallino e, mostrandomelo, disse
ironicamente: - lo vedi? Non lo prenderai mai! - Al secondo giro fece un punto, anche
se avevo giocato bene. A terzo giro il punto lo feci io. A quel punto sapevo che Ciro
soffriva un pochino il gioco lungo, mentre io lo prediligevo. Allora incominciai a
lanciare il pallino il più lontano possibile e a piazzare una serie incredibile di bocce
vicino al pallino. Ciro incominciò a sbagliare qualche bocciata e a innervosirsi mentre
io continuavo imperterrito a piazzare bocce sempre più vicine al pallino. Faceva un
tale chiasso, tra imprecazioni e sbuffate, che tutta la gente presente si raccolse attorno
al campo da gioco. Ciro fece un unico altro punto per cui non arrivò nemmeno alla
metà del mio punteggio. Scornato e inviperito pagò la birra per tutti i presenti,
com‟era pattuito, e se ne andò velocemente non prima di aver lanciato la sfida per una
rivincita futura. Ma per un bel po‟ di tempo non si fece più vedere. Da quella sera e
fino alla fine stagione ho ricominciato a frequentare i campi dell‟osteria Bonotto
dando luogo a molte sfide, testa a testa con Rinaldo Tronchin, che, pur essendo ancora
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giovane, giocava molto bene. Abbiamo poi incominciato a giocare in coppia
integrandoci a meraviglia lui da tiratore, ma all‟occorrenza anche buon puntista ed io
da puntista ma all‟occorrenza anche tiratore, soprattutto in caso di tiri complicati. E fu
così che una sera arrivò di nuovo il buon Ciro portandosi dietro un compagno, bravo
puntista. Lanciò la sua solita sfida, questa volta per un confronto tra coppie, con in
palio una intera cassa di birre. Con Rinaldo ci scambiammo un‟occhiata d‟intesa e
raccogliemmo la sfida senza esitazione. Prima di iniziare la contesa Ciro mi passò
vicino sussurrandomi: - guarda che la sagra capita una sola volta l‟anno! -. Non ci feci
caso, pensavo solo a piazzare le bocce vicino al pallino, soprattutto quando il gioco
era molto lungo, in modo da mettere in crisi Ciro. Al resto ci pensava Rinaldo. Il
compagno di Ciro era veramente un buon puntista, ma io non ero da meno,
costringendo Ciro a qualche errore. Rinaldo continuava a non sbagliare le sue bordate
a fondo campo, per cui alla fine, sotto gli occhi del numeroso pubblico, vincemmo la
sfida lasciando gli avversari a metà punteggio, “come i garzoni”. Alla fine Ciro,
furibondo e stralunato, pagò la sua cassa di birra e non si fece più vedere per un tempo
ben più lungo del precedente.
Dopo quella sera, fino a fine stagione ho sempre fatto coppia con Rinaldo senza
perdere una partita. Ogni tanto facevamo qualche sfida testa a testa alternando vittorie
e sconfitte sempre per un soffio. Dopo quell‟anno sono ritornato a giocare meno,
prevalentemente il sabato sera e la domenica pomeriggio, ma erano momenti
veramente piacevoli, in pieno relax, senza agonismo, passati in compagnia degli amici
Primo, Gioanin, Gino Caldo, Ciano Sottana e altri.
Tanti sono coloro che hanno frequentato con più o meno assiduità i campi da bocce
dell‟osteria del Baronbianchi, alcuni senza eccessivo impegno agonistico, altri con
puntiglio e determinazione. In precedenza ho citato le persone più anziane, ma il
gruppo dei giovani o “meno vecchi”era molto nutrito e vario. Tra questi ricordo Gino
Gobbo, ottimo giocatore; Ferruccio Pettenò di buon livello; Ugo Zanin, pacato e di
sicuro rendimento; Giorgio De Stefani, buon giocatore e sempre calmo e controllato;
Rinaldo Tronchin, giovane ma completo giocatore; suo fratello Olindo, caratteristico
per le sue barzellette e la proverbiale risata gutturale che teneva allegra la compagnia;
i cugini Gianni e Giancarlo Bonotto; Marcello Gobbo; Vittorio Pietrobon; Giorgio,
Bruno e Vittorio ( Ciak ) Brugnaro; Giorgio e Ilario Casarin con le sue frequenti
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espressioni comiche; infine voglio ricordare Renato Bonotto, molto giovane e timido,
ma già valido giocatore, cui il destino aveva riservato una fine precoce per una rara
malattia.
LA BOTEGHETA
La botegheta della zia Miceina è stata per circa sessant‟anni un punto caratteristico
della via Bianchi.
La zia Erminia Brugnaro, era nata nel 1901, due anni dopo mia madre. Aveva
sposato Vittorio Michielin, più anziano di un anno, e fratello di Giovanni, castaldo
dell‟Azienda Bianchi. Dopo le nozze si erano stabiliti a Zerman in località Alture. Nel
1928 Vittorio, mentre era diretto a Padova su un‟autovettura da corsa guidata da un
Antonini della famiglia proprietaria dell‟antica e nota villa di Mogliano fu coinvolto in
un incidente. Per le ferite riportate il povero Vittorio perse la vita e lasciò mia zia
sola, a ventisette anni, con il figlioletto Emilio e in attesa di un altro figlio. Il nonno
Alessandro, di animo buono, la accolse nella sua casa, dove diede alla luce una
bambina cui impose il nome di Vittoria, in memoria del padre, perito così
tragicamente. In un secondo tempo mio nonno vendette alla zia Erminia un lotto di
terreno in un angolo della sua proprietà, al confine con il lotto dove era costruita
l‟osteria Bonotto. Così la zia, con il denaro ricevuto come indennizzo per l‟incidente,
poté fabbricarsi una casa sufficiente per abitarvi e affittarne una parte per poter
contare su un reddito sicuro. Nella parte di casa a sua disposizione ricavò un piccolo
locale da utilizzare come negozio per iniziare un‟attività di vendita di alcuni generi
alimentari. Piano piano, rimboccandosi le maniche, la dinamica e intraprendente
Erminia diede origine a un negozietto che poteva definirsi drogheria, ma anche
merceria, poiché vi si poteva acquistare generi alimentari, ma anche aghi, filo, bottoni
e tante altre cose. Quella botegheta era diventata un‟istituzione, la gente del posto vi si
recava tutti i giorni per comprare poche cose: allora non esistevano i carrelli da
riempire, come adesso, non esistevano problemi di diete. L‟obesità e il colesterolo non
si sapeva cosa fossero. Si andava a fare le compere con il libretto su cui la zia
annotava l‟ammontare della spesa. Alla fine del mese, in genere, si saldava il debito.
Alle volte si andava a fare qualche piccola spesa pagando con merce di scambio, ad
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esempio, si portavano delle uova per ricevere in cambio dei generi di pari valore. Da
ragazzo andavo volentieri a fare qualche piccola spesa dalla zia Erminia perché non
tornavo mai senza aver ricevuto in regalo qualche caramellina al sapore di frutta o
qualche sidea di orzo che secondo lei doveva far bene per la gola.
La zia Miceina era anche conosciuta per l‟abilità di “ far capponi ”. Ricordo quando
mia madre mi mandava, da ragazzo, con un paio di pollastri da “sistemare”, introdotti,
con le zampe legate, in una di quelle borse di paglia che si usavano allora. Quando
arrivavo, la zia lasciava l‟incombenza del negozio alla figlia Vittoria per allestire,
solitamente nel cortile di casa, la “sala operatoria”. Preparava uno sgabello per
sedersi, una forbice da cucina che fungeva da bisturi, del filo da sarta con il relativo
ago per le cuciture, della cenere estratta dalla cucina economica per la disinfezione e
cicatrizzazione e infine una “ tecieta ” ( teglia ) per raccogliere gli “scarti”
dell‟”intervento chirurgico”. In quelle occasioni io fungevo da “aiuto chirurgo”
seguendo attentamente le operazioni e porgendo alla zia quanto mi chiedeva.
L‟operazione iniziava facendo un taglio nel basso ventre, sufficiente da permettere
l‟introduzione di tre dita della mano, con le quali afferrava i due testicoli del
“paziente” per poterli estrarre. Seguiva la resezione, la cucitura, la spolverata di
abbondante cenere e quindi si passava al taglio della cresta che era prontamente
cicatrizzata con la cenere. L‟intervento di solito andava a buon fine, ma in qualche
caso i polli più sfortunati ci rimettevano le “penne” e andavano a finire direttamente in
qualche intingolo. La maggior parte di pollastri, più fortunati, aveva la possibilità di
ingrassare per finire sulle tavole di Natale. Vuoi mettere la differenza? Alla fine delle
operazioni la zia raccoglieva la tecieta contenente “ovetti “ e creste, ci metteva un po‟
di cipolla, burro, sale e aromi e cucinava il tutto ottenendo un piatto in armonia con le
pietanze del tempo.
La cara zia Erminia morì nel 1974. Per una decina d‟anni il negozio continuò
l‟attività per opera della figlia Vittoria, sposata con Macedonio (Gianni) Trevisanato,
poi chiuse i battenti. Era arrivato il tempo dei supermercati. Ma vuoi mettere a
confronto l‟andare a fare le compere al supermercato con la spesa fatta nella botegheta
della zia Miceina?
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GENTE DEL BARONBIANCHI
Intorno agli anni „50 Mogliano era un grosso paese con circa diecimila abitanti,
comprese le frazioni di Campocroce, Zerman e Bonisiolo. In paese c‟era la sola chiesa
parrocchiale che, con le tre delle frazioni, formava un totale di quattro chiese per tutto
il territorio comunale. Il nucleo centrale del paese occupava un‟area molto ridotta
rispetto all‟attuale: a sud si estendeva fino in via Barbiero (viale dei tigli), a est fino in
via Verdi (strada dea mussa) a nord non andava oltre l‟oratorio don Bosco e il collegio
Astori, mentre a ovest andava poco oltre la stazione ferroviaria. Il resto del paese era
formato da nuclei abitativi sparsi, attorniati da campagna. Alcuni di questi
insediamenti avevano preso il nome da una vecchia strada, come per esempio stradea
bassa (via Casoni) oppure da una villa del luogo come “ il Torni ” che deriva da villa
Torni. La località “Baronbianchi” ha ovviamente preso il nome dal personaggio
storico che ha dato il nome all‟azienda situata nella borgata e comprende tutta la via
Bianchi e le zone limitrofe comprese la parte iniziale di via Bonotto. Negli anni del
dopoguerra il luogo era anche noto come contrada delle “belle tose” giacché vi abitava
un consistente numero di ragazze oggetto di ammirazione da parte dei giovanotti del
tempo. Di certo e inconfutabile è che le ragazze del luogo erano quasi il doppio dei
coetanei maschi. In netta controtendenza c‟era solo la famiglia Rizzo che aveva una
sola figlia, la Lucia, e ben cinque maschi. La buona signora Carmela, moglie del noto
sior Pagoìn, aveva pensato bene di fornire tosati (ragazzi) al benemerito corpo degli
alpini! Due o tre anni fa ho incontrato la simpatica signora Carmela, già novantenne, a
un raduno degli alpini. Dopo averla salutata, gli ho chiesto, ingenuamente, cosa ci
facesse in mezzo a tutta quella gente con la penna sul cappello, e lei, serafica e col
solito sorriso sulle labbra e negli occhi mi rispose: - e chi dovrebbe esserci se non io
che ho dato cinque figli al corpo degli alpini?
A portare nettamente in attivo il conto delle femmine ci avevano pensato altre
famiglie come quella di Silvio Maccatrozzo con sei femmine e un solo maschio,
quella di Alfredo Zanadel con quattro femmine e nessun maschio, quella di Luigi
Simionato con sei femmine e due maschi, e tante altre famiglie con prevalenza di
femmine.
Per quanto riguarda il discorso delle belle tose si sa che la bellezza di una donna è un
qualcosa di opinabile: quello che sembra più bello a me per altri lo può essere meno.
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Posso però affermare che era opinione di molti che al “Barombianchi “ tra le ragazze
della mia generazione e di quella precedente ce ne fossero alcune veramente carine, e
che la media fosse di qualità elevata. Evidentemente non posso dire chi a mio giudizio
poteva essere considerata più o meno bella, posso dire che tra quelle ragazze si
trovavano delle bionde, delle more, delle rosse, delle castane scure e delle castano
chiare. Ogni tipo di colore di capelli era degnamente rappresentato. A memoria
ricordo con i capelli neri Lucia Rizzo, le sorelle Spizzotin, Giuliana Tozzato, le mie
sorelle Elvira e Maria, le sorelle Pietrobon, Vittoria Michielin e la Elsa Ferraro. Tra le
bionde ricordo Elda Maccatrozzo, Rossana Peschiuta, Emma Casagrande, Annamaria
Simionato, Rosetta Longo e le sorelle Ancillotto. Tra le rosse ricordo Renata Sottana e
Danila Bortoletto senza dimenticare che mia sorella Rina, pur non potendosi
classificare tra le rosse, aveva, tra i capelli castani, dei riflessi color rame, il colore dei
capelli della nostra nonna materna. Tra le ragazze con capelli castani, più o meno
chiari o scuri, ricordo le sorelle Felicina, Adriana e Laura Zanadel, le sorelle Lidia e
Adriana Berton, Graziella ed Esterina Polon, le sorelle Prima, Teresa e Antonietta
Simionato, Enrichetta Marton e le gemelle Maccatrozzo.
Non mi sembra giusto parlare della gente del ”Baronbianchi” senza dedicare un
adeguato spazio alla famiglia che ha dato il nome alla contrada. Non ho conosciuto
personalmente Ferdinando de Kunkler, marito della baronessa Federica, poiché è
morto, dopo un certo periodo trascorso da semi-paralizzato, qualche tempo dopo la
mia nascita. Dicono fosse un uomo dedito con passione alla cura e allo sviluppo della
sua azienda e con spiccate doti di umanità verso i dipendenti. A suffragio di questo
voglio raccontare un fatto narratomi da mio fratello Orfeo che, come ho accennato in
precedenza, da ragazzo ha lavorato nell‟azienda Bianchi de Kunkler in qualità di
apprendista nell‟officina meccanica. Un giorno Ferdinando de Kunkler incontrando
mio fratello gli chiese se era contento del lavoro che svolgeva. Orfeo rispose di sì,
perché era un lavoro che gli piaceva e gli dava la possibilità di imparare cose nuove.
Allora il de Kunkler gli chiese se era contento anche della retribuzione ottenendo per
risposta che di quella lo era un po‟ meno. A quel punto il titolare dell‟azienda chiese: Ma quanto prendi di paga? - . - Otto lire -, rispose Orfeo. L‟altro di rimando, e un po‟
seccato disse: - Come otto lire, se ho disposto di dartene dieci!- Dopo quel fatto mio
fratello si trovò in busta paga le dieci lire, ma ben presto fu aggredito verbalmente dal
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fattore generale Vittorio Spizzotin che lo minacciò di licenziamento se si fosse
azzardato ad andare ancora a lamentarsi dal padrone. Mio fratello ribatté affermando
con vigore che era stato il padrone a fargli delle domande e che lui aveva risposto
dichiarando solo la verità.
Della baronessa Federica ho molti ricordi, anche se sono passati tanti anni dalla sua
scomparsa. Ho in memoria il suo viso che a volte, non so perché, associo a quello
dell‟attrice Tina Pica, con gli occhi chiari di un color grigio-verde. Era di corporatura
snella un po‟ più alta della media, con portamento signorile, ma per niente snob. La
ricordo a passeggio per il bosco in compagnia del cane lupo, oppure in bicicletta
quando doveva compiere tragitti più lunghi. Ricordo quando andavamo da bambini al
palazzo a fare gli auguri del primo dell‟anno per prendere la bonaman (mancia),
ricevendo in regalo delle monete. In quell‟occasione la baronessa aspettava che si
radunassero alcuni bambini davanti al portone d‟ingresso per poi uscire a distribuire le
monetine. Era usanza di quei tempi fare il giro delle case dei dintorni per fare gli
auguri di buon anno e raggranellare qualche soldino. Naturalmente la mèta più ambita
era il palazzo padronale perché la ricompensa era più cospicua.
In quelle occasioni la baronessa Federica mi riconosceva tra il mugolo di bambini e
non mancava di farmi una carezza e un benevolo sorriso. Varie volte ho avuto la
sensazione che nutrisse una particolare simpatia nei miei riguardi, forse si ricordava di
quando passava per casa nostra e s‟intratteneva a conversare con mia madre
soffermandosi ad accarezzarmi i capelli. A quel tempo io ero ancora in fasce o
comunque molto piccolo. Forse in quel periodo la baronessa sentiva la nostalgia per
non aver avuto più di un figlio, o forse, in un certo senso, invidiava mia madre, senza
palazzi e ricchezze, ma con una bella famigliola.
Ancora oggi quando parlo con gente anziana che ha conosciuto la baronessa,
m‟incuriosisce sapere cosa pensano di lei: se la consideravano una persona dura e
insensibile oppure dotata di una certa umanità. Di recente ho posto questo quesito a
una persona anziana che ha vissuto nella condizione di mezzadria in terreni
dell‟azienda Bianchi. Ebbene quest‟anziano mi ha raccontato che da ragazzo è stato
ricoverato in ospedale per un lungo tempo e che la baronessa Federica è andata a
trovarlo durante la degenza per incoraggiarlo e per portargli in regalo una confezione
di giocattoli contenente delle costruzioni in legno. Questo avveniva prima della
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guerra, intorno all‟anno 1935.
Altre persone invece ritengono che la baronessa fosse una donna dal cuore duro.
Comunque sia, io ho ancora la foto scattata nel giorno della mia prima comunione. Ho
addosso un bel vestito in lino bianco che mi è stato regalato dalla baronessa Federica.
Quel giorno ho potuto sentirmi fiero in mezzo ai coetanei figli di gente benestante.
Secondo il pensiero sindacal-politico, oggi in auge, quel dono non era altro che
un‟espressione di paternalismo. Sarà anche vero, ma quanto ero felice quel giorno!
Un altro ricordo nitido riguarda quelle due volte che la baronessa ha sorpreso me e
Gioanin, ancora giovani e inesperti “cacciatori”, all‟interno del bosco della villa.
Eravamo con la fionda e una tasca colma di sassi, accuratamente scelti, quando in
lontananza abbiamo intravisto la baronessa con l‟immancabile cane lupo. In un attimo
abbiamo nascosto la fionda in tasca introducendo, per quanto possibile, anche le mani
e iniziando a fischiettare con finta noncuranza. A quel punto arrivò il grosso cane lupo
che iniziò a “perquisirci” con insistenza con il suo fiuto. Non so come si sentisse il
mio amichetto, ma io tremavo come una foglia! Hanno un bel dire che in quei casi
bisogna fare gli indifferenti, altrimenti il cane capisce che hai paura. Ma io in quel
momento pensavo: e se il riconoscimento non dà buon esito, come va a finire? Per
fortuna la baronessa non si fece aspettare e con tono tra il burbero e il canzonatorio
chiese: - cosa avete là in tasca? -. A quel punto io e Gioanin ci siamo guardati e
indicando la tasca più gonfia, con un filo di voce, abbiamo detto: -….dei….sassolini!-.
- Bene!- Ribattè la baronessa: - vuotate i sassolini nel vialetto!-. Una volta completata
l‟operazione, la baronessa chiese: - E nell‟altra tasca, cosa avete? E noi, dopo uno
sguardo d‟intesa: - n..n..niente!-. Allora la baronessa infilò due dita nelle tasche dei
nostri pantaloni estraendo le rispettive fionde, mostrandocele e chiedendo: - E queste,
cosa sono queste?-. A quel punto non si poteva negare l‟evidenza, le due fionde
furono requisite e ci dovemmo sorbire, in mesto silenzio, un lungo sermone del tipo: non si tirano i sassolini agli uccellini, che devono poter volare liberi e tranquilli per
poter cantare, giocare, ecc. ecc.-. Alla fine della predica dovemmo dire : - Si, signora
baronessa, ha ragione, non lo faremo più. Inutile dire che dopo un‟ora avevamo già
confezionato due nuove fionde, ma per un certo tempo, per evitare guai peggiori,
dovemmo cambiare il terreno di caccia.
Un altro episodio che mi fa ricordare la baronessa è dell‟anno 1954 quando avevo
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diciassette anni. In quell‟anno a Giugno avevo terminato la scuola a Treviso e avevo
conseguito il diploma di scuola Tecnica. Non sapevo se avrei proseguito facendo i due
anni d‟istituto tecnico per periti o se dovevo rassegnarmi a cercare un lavoro. In realtà
dentro di me sapevo già che non potevo chiedere a mio padre ulteriori sacrifici e che
alla fine avrei dovuto cercarmi un lavoro. D‟altra parte avevo già in tasca qualcosa che
mi consentiva di trovare un lavoro dignitoso. Inoltre, anche se avrei preferito farlo
subito, avrei potuto riprendere gli studi appena la situazione famigliare lo consentisse.
E così, infatti, andò a finire. Non avevo ancora terminato l‟ultima settimana di scuola
quando mio padre arrivò a casa dicendo che l‟azienda Bianchi mi proponeva di andare
a lavorare nel negozio “latteria” di Mestre per un periodo di tre mesi, alla fine dei
quali si sarebbe deciso per il futuro. Così andò a finire che terminata la scuola, senza
nemmeno un giorno di vacanza, incominciai a lavorare a Mestre. Mi trovai subito
bene, ero ben pagato e questo non stonava perché potevo ripagare la famiglia dei
sacrifici fatti. Verso la fine dei tre mesi mi mandò a chiamare il direttore della scuola
che avevo appena terminato, per chiedermi se intendevo continuare con gli studi in
scuole superiori, o se cercavo lavoro, nel qual caso aveva una proposta da farmi, un
lavoro da disegnatore tecnico, alle dipendenze di quel Toni Benetton che in seguito
sarebbe diventato uno scultore di fama mondiale. Gli dissi che cercavo lavoro e che
dopo dieci giorni sarei stato libero. Proprio in quei giorni un mio collega di lavoro
della catena dei negozi dell‟azienda Bianchi mi aveva confidato che il direttore aveva
intenzione di “ farmi le scarpe” per potermi sostituire con un suo parente. La cosa non
mi aveva colpito più di tanto se non per il fatto che il direttore davanti mi faceva un
sacco di “salamelecchi” e complimenti per come svolgevo il lavoro e dietro stava
complottando per silurarmi. Presi la palla al balzo e chiesi un colloquio con il direttore
stesso comunicando che dopo otto giorni, alla fine dei tre mesi pattuiti, avrei lasciato il
lavoro perché ne avevo trovato uno adatto al mio titolo di studio. Detto questo, mi
alzai e non lasciai il tempo alla controparte di replicare con finti convenevoli.
Dopo un paio di giorni, al ritorno a casa, mia madre mi disse che dal mezà era
arrivato un biglietto con l‟avviso che per la domenica successiva, alle ore undici, ero
convocato dalla baronessa Federica nel palazzo padronale. All‟ora stabilita mi
presentai al portone d‟ingresso della villa. Mi venne ad aprire la Gide che, dopo
avermi salutato, mi disse: - Lino, cosa hai combinato?-. Ed io di rimando: - perche?-.
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Allora la Gide m‟indicò la scala dicendomi: - la baronessa ti aspetta sopra, nel suo
studio -. E così salii le scale e mi recai nella stanza indicata. Ero tranquillo perché non
avevo niente da rimproverarmi. La salutai al solito modo: - buongiorno signora
baronessa, sono qui -. Non avevo l‟abitudine, quando la incontravo, di fare un inchino
togliendomi il copricapo e dicendo con tono ossequioso: - servo suo baronessa! come vedevo fare da tutti i dipendenti. Di questo però non posso vantarmi più di tanto
perché ho avuto la fortuna di non nascere nel periodo in cui imperava la pellagra.
Quel giorno mi sono reso conto, immediatamente, che la baronessa era inviperita,
alterata dall‟ira, e che spruzzava veleno da tutti i pori. Penso che tutto quello che mi
ha detto in un soliloquio durato diversi minuti sarebbe stato ancora più realistico se mi
avesse parlato in tedesco, la sua prima lingua, la più dura che esista, la lingua usata
per addestrare i cani, per ottenere rispetto e obbedienza. Io ascoltavo impassibile,
senza mostrare alcuna alterazione, e questo, sicuramente, provocò ulteriore collera
nella baronessa. Io lo facevo naturalmente, senza pensarci: è una mia caratteristica,
che è rimasta inalterata nel tempo. Ho capito subito che per la baronessa era
inconcepibile che un dipendente, oltretutto un ragazzo di diciassette anni, potesse dare
le dimissioni e scegliere di lasciare un lavoro ambito per andare a lavorare altrove. A
quel tempo era impensabile, poiché i padroni erano abituati a licenziare loro i
dipendenti e non viceversa. Figuriamoci una baronessa! Nella sua arringa venne fuori
che mi considerava un ingrato, perché lei puntava su di me, aveva in mente di
affidarmi compiti sempre più importanti mentre io ero evidentemente come mio padre,
che definì un gran lavoratore, ottimo dal punto di vista professionale, ma di carattere
ribelle. Parlò anche di mia madre cui dedicò ammirati elogi, ma a cui evidentemente
non somigliavo. Alla fine incominciai a parlare io, dissi che la ringraziavo e che non
dubitavo della sua sincerità quando mi aveva detto che pensava di affidarmi, in futuro,
compiti importanti. Le dissi però che avevo sentito che qualcuno stava complottando
per sostituirmi, ma che non era questo il motivo delle mie dimissioni, bensì il fatto che
mio padre aveva sopportato dei grossi sacrifici per farmi studiare e che avevo avuto
una proposta di lavoro che soddisfaceva le mie aspirazioni. Parlai per un bel po‟e
notai che più andavo avanti con il mio discorso l‟espressione del volto della baronessa
si distendeva. Già alla fine del suo discorso mi era parsa meno in collera rispetto
all‟inizio, forse il fatto di avere scaricato tutto quanto aveva dentro l‟aveva fatta un
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po‟ sbollire. Io le dissi che la ringraziavo molto per l‟opportunità che mi aveva dato,
che ero più che contento del compenso ricevuto in quando mi era stato dato in
sovrappiù, rispetto al pattuito, anche il rimborso delle spese di viaggio e la prima
colazione; che mi ero trovato più che bene, ma che avevo anche svolto con il massimo
impegno il compito che mi era stato affidato, rispettando i tempi che erano stati
pattuiti. Dissi anche che il periodo di grosso impegno di lavoro era terminato, per via
della fine della stagione estiva, e che non sarebbe stato difficile trovare un sostituto
giacché era già pronto. - Chieda conferma al direttore, - conclusi con un po‟ d‟ironia.
Lei allora mi disse che sarei potuto andare a parlarne con lei stessa. Alla fine c‟era
un‟atmosfera distesa. Durante il mio lungo discorso, la baronessa alternava momenti
in cui mi fissava intensamente ad altri momenti in cui fissava lontano: chissà, forse il
pensiero andava a quando ero bambino. Fatto sta che il suo volto si andava
progressivamente rasserenando e alla fine non fu più teso. Finite le parole, dopo un
attimo di silenzio, le chiesi se potevo andare e al suo cenno affermativo mi alzai, la
salutai e m‟incamminai verso l‟uscita. Arrivato alla porta, mi sentii chiamare per
nome, allora mi fermai girandomi indietro mentre lei, fissandomi, dopo un attimo di
silenzio, mi disse: - buona fortuna, Lino! -. Sono passati più di quarant‟anni ma
ricordo quei momenti come fosse adesso: vivessi cent‟anni non potrò mai
dimenticarli!
L‟unico figlio della baronessa Federica si chiamava Pieradolfo ed era un omone di
non meno di un metro e novanta con i capelli biondi, di un biondo tipico dei tedeschi.
Era laureato in agraria ed era d‟indole buona. Non ho sentito mai nessuno dire che non
fosse un bonaccione. Della sua infanzia e gioventù mi ha parlato molto mio fratello
Orfeo perché da ragazzi erano stati buoni amici. Infatti, Pieradolfo era nato lo stesso
anno di mio fratello, il 1921, e non c‟erano altri maschietti della stessa età nelle
vicinanze della villa. E‟ noto che tra i bambini non esistono barriere di classi sociali,
non ci sono pregiudizi, per cui non ci sono ostacoli per fraternizzare. Pieradolfo fin da
piccolo era appassionato di sport, seguiva con assiduità gli avvenimenti sportivi
leggendo ogni giorno la “Gazzetta dello sport” e aveva praticato per anni i campi da
tennis arrivando addirittura a conquistare il titolo di campione triveneto. Quando ho
letto questa notizia sul giornale sportivo di maggior tiratura nazionale, sono rimasto
piacevolmente sorpreso. Si sapeva che giocava in vari tornei, per anni aveva
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partecipato al prestigioso torneo del Lido, ma egli non aveva mai parlato della cosa.
Allora il tennis era uno sport d‟élite, non era praticato dalla gente comune. L‟ho visto
giocare a Jesolo, quando era sui trentacinque anni, nei campi dell‟albergo Aurora.
Aveva un gran servizio, grazie alla sua statura, e anche un notevole rovescio. Era un
pochino carente negli spostamenti, per via della sua mole.
Altro sport assiduamente praticato da Pieradolfo era lo sci. Nei mesi invernali lo si
vedeva partire spesso con gli sci sopra la macchina. Passava dei lunghi periodi a
Cortina, dove aveva modo di sciare e di praticare la vita mondana.
Da giovane era solito andare alle partite di calcio a Venezia e Padova portandosi
sempre mio fratello Orfeo come compagno. Nel 1936 restò per un lungo periodo
presso dei parenti in Ungheria. In quell‟occasione chiese a mio fratello di comprarli
ogni giorno la “Gazzetta dello sport” e di consegnarla al “ Mezà “ perché gli fosse
recapitata per posta.
Ogni volta che m‟incontrava, mi chiedeva notizie di Orfeo e si raccomandava di
salutarlo per suo conto. Una volta m‟incontrò ai margini del bosco vicino alla villa.
Avrò avuto tra i sedici e i diciotto anni e stavo cacciando con la mia carabina ad aria
compressa. Me lo trovai all‟improvviso accanto e rabbrividii aspettandomi un
rimbrotto, poiché mi trovavo nel suo giardino e con un fucile in mano. Invece si limitò
a chiedermi se la carabina tirava bene e volle provare per due volte a sparare. Mi disse
che pur essendo un fucile piccolo, soprattutto in mano sua, era preciso nel tiro. Poi mi
chiese di Orfeo, mi disse di salutarlo e quindi s‟incamminò verso casa. Ed io rimasi là,
sollevato, pensando che era proprio vero che el paronsin era un buon uomo.
Delle altre persone che abitavano nel palazzo, ho già detto qualcosa. Il
“maggiordomo” Santo Tasinato m‟incuteva rispetto e soggezione anche se non aveva
l‟espressione da burbero; la moglie Gide era sempre molto gentile e affabile e la
ricordo con piacere. Era arrivata al palazzo molto giovane, per fare la cameriera, poi
ha sposato Santo ed è rimasta nel palazzo fino all‟arrivo dell‟attuale padrone. Dopo la
morte della baronessa ha assunto un ruolo sempre più importante nella gestione di
tutte le attività della villa padronale. Santo e la Gide hanno avuto una femmina di
nome Daniela e tre maschi, di cui uno, di nome Francesco, morto poco più che
trentenne. La Daniela ha sposato Umberto Moro, un ragazzone alto e biondo che era
venuto ad abitare dai cavai ed era quindi diventato un mio simpatico amico e
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compagno di giochi.
La famiglia Rizzo, come ho già accennato, aveva cinque figli maschi e una femmina
di nome Lucia. Il più anziano dei maschi aveva studiato in seminario, ma poi cambiò
idea e divenne avvocato. Lucia, che ha ereditato dalla mamma Carmela
un‟espressione sempre sorridente, ha lavorato per anni in un negozio “latteria”
Bianchi a Venezia. Ricordo che spesse volte ci incontravamo nei filobus durante il
tragitto casa-lavoro. In seguito si è sposata con Piero Giusto (Paja) che aveva
condiviso con me un anno di scuola alle elementari. Sono rimasti entrambi due cari
amici. La famiglia di Piero Schiesaro, l‟ortolano, aveva tre figli: l‟Assunta, che era la
più anziana, Adolfo, che aveva quattro - cinque anni più di me e Teresa che era
pressappoco della mia età. La famiglia di Antonio Candelù aveva un solo figlio di
nome Luigi che si sposò con una Vecchiato della grande famiglia che abitava
all‟incrocio tra via Croce e la stradina che porta all‟ex discarica di Zerman. Al buon
Gigetto il destino riservò una morte precoce per infarto. I suoi genitori nel frattempo si
erano trasferiti dal palazzo alla casetta che era stata costruita all‟ingresso del viale che
dalla “rampa” sul Terraglio porta alla villa.
Nel territorio adiacente alla villa abitava, come abbiamo visto in precedenza, la
famiglia di Bepi Faggian. Costui era rimasto vedovo, la primogenita Anna si era
sposata ed egli viveva con gli altri due figli maschi, Amedeo e Angelo. Sposò quindi
in seconde nozze una donna di nome Olga, più giovane di lui, esuberante, vulcanica,
ed espansiva. La Olga era molto simpatica e passava qualche volta per casa nostra per
fare due chiacchiere con mia madre, ma era sempre di corsa, arrivava rapida con la
sua bici e ripartiva altrettanto di corsa. Una volta fu protagonista di un episodio
esilarante che è ancora ben vivo nella mia memoria. Quel giorno Olga arrivò ancora
più rapida del solito, ma non si diresse verso il porticato di casa nostra, bensì verso il
retro della casa. Passando di corsa per il cortile e intravvedendo mia madre le lanciò
un rapido messaggio: - Este, passo dopo a trovarve! -. Il seguito nessuno lo vide ma lo
raccontò lei stessa più tardi. Dovete sapere che dietro alla casa e alla stalla dei cavalli
c‟era un gabinetto. Un locale in pietra, addossato a un muro e con all‟interno una
semplice “turca”. Di solito, ma non sempre, all‟interno del gabinetto c‟era della carta,
appesa a un chiodo, che fungeva da carta igienica, ma che altro non era se non della
carta di giornale. Per questo motivo, certe volte bisognava provvedere con ciò che
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forniva la natura in quel momento della stagione. Di volta in volta potevano venir
buone delle foglie di gelso, oppure di zucca, di lengua de vaca, e così via. Dovete
anche sapere che per andare al gabinetto descritto, arrivando dalla parte da cui
proveniva la Olga, si passava dietro la stalla, tra la stessa e il letamaio. Questo
consisteva in una grande vasca di cemento, poco profonda e con due enormi cumuli di
letame a forma di parallelepipedo. Tra questi due cumuli, per una larghezza di circa
due metri, si trovava una vasca più profonda che serviva da raccolta del liquame,
sopra il quale di solito si formava un leggero strato di paglia che nascondeva il nero
liquido. La nostra eroina arrivò di corsa, evidentemente con un bisogno impellente,
fino all‟altezza del letamaio, e fu pervasa da un dubbio: che ci sia o che non ci sia la
carta? Con la coda dell‟occhio guardò oltre i due cumuli di letame e vide un‟invitante
pianta di zucca piena di morbide foglie. Non esitò un istante: meglio provvedere
subito, onde evitare di dover tornare indietro! E così, sempre di corsa, si lanciò tra i
due cumuli di letame e….patapunfete! Il resto si può immaginare. Mi ricordo bene il
momento che la Olga riapparve imprecando, sputando liquame, inzuppata dalla testa
ai piedi di quel puzzolente liquido nero. Io mi trovavo nel cortile di casa e mia madre
sotto il porticato e intervenne subito in soccorso, accompagnando subito la malcapitata
nella stanzetta usata da mio padre nei suoi lavori di sellaio. Provvide con celerità a
portare dei secchi di acqua calda e fredda da versare nel grande mastello da issia usato
come tinozza per il bagno. Fui subito invitato ad accostarmi alla porta della stanza. La
malcapitata mi pregò di correre subito da Bepi, al Cason, per farmi consegnare dei
vestiti, raccomandandomi di dire che era caduta in un fosso pieno d‟acqua e non in un
letamaio. Partii a razzo, in bici, e appena arrivato feci la richiesta al sorpreso Bepi che
non riusciva a concepire l‟accaduto e continuava a lanciare imprecazioni alla
sprovveduta moglie, a chiedere come, dove, quando. Alla fine dissi di far presto
perché la moglie era tutta bagnata. E lui ancora a chiedere: - Ma dove xe sucesso? Sul
Pianton?-. Ed io: - No Bepi, dentro un fosso pieno d‟acqua! -. E lui, di rimando, dopo
un attimo di riflessione: - Ma dove sarà andata a trovare un fosso pieno d‟acqua se è
da un mese che non piove! -. Persi la pazienza e gli ripetei che la moglie aspettava,
tutta inzuppata. Allora lui incominciò a chiedere che veste serviva. Ed io di rimando: serve tutto, proprio tutto, mutande, maglie, gonna, camicia, tutto! -. Finalmente egli si
decise a mettersi all‟opera per cercare l‟occorrente. Io cercavo di dare una mano ma
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era un‟impresa ardua: il malcapitato non sapeva dove cercare. Buttò a gambe all‟aria
tutta la stanza da letto finché riuscì nell‟impresa di consegnarmi qualcosa che poteva
servire. Allora io ripartii come un razzo verso casa. Ma il buon Bepi era rimasto con i
suoi dubbi, inforcò la bicicletta e mi seguì. Io naturalmente arrivai molto prima, tanto
che al suo arrivo la moglie era già vestita. Quando la vide Bepi la investì d‟improperi
chiedendole dove avesse la testa e dove avesse trovato quel fosso pieno di acqua. Al
ché lei rispose con livore: - Va in mona, tì Bepi e el to fosso. Varda qua che vestiti te
me ga mandà -. E, così dicendo, indicò la gonna e la camicetta, evidentemente non di
suo gradimento. Poi ringraziò ancora mia madre e partì velocemente, com‟era arrivata.
La Olga dette in seguito a Bepi una figlia. I due figli maschi, Amedeo, un pezzo di
ragazzone e Angelo, un apprezzato suonatore di fisarmonica, emigrarono in
Argentina. Qualche anno dopo il povero Amedeo, che nel frattempo si era sposato e
aveva avuto due bambine, incontrò la morte per mano di uno squilibrato che lo
accoltellò. Il fratello Angelo, che aveva sposato Luciana Zanin della famiglia
residente verso la fine di via Bianchi, ritornò a vivere a Mogliano, nel quartiere Ovest.
Nel territorio dell‟Amministrazione abitavano, appena finita la guerra, le famiglie
Spizzotin, Peschiuta, Marton e Simionato.
Luigi Simionato, meglio conosciuto come Gigio Sopeti aveva sposato Giuditta Liotto
da tutti conosciuta come Maria Sopeti. Hanno avuto nove figli, tre maschi di cui uno è
morto piccino e sei femmine. La primogenita di nome Regina ha sposato Aldo
Semenzato, che per vari anni ha lavorato nei negozi “latteria Bianchi” di Venezia. In
seguito la famiglia si è trasferita in quel di Varese. Il secondogenito si chiamava
Cesare, era un po‟ balbuziente e dopo aver lavorato come falegname da Bianchi, si è
trasferito in Argentina nei pressi dei Faggian, già nominati. In Argentina ha sposato
una spagnola ed è poi ritornato a Mogliano con due figli maschi, di cui uno, di nome
Louis, è stato per anni valido giocatore di rugby. Il terzogenito era un maschietto
chiamato Giovanni e morì piccino. Poi arrivò la Giovannina che sposò il fratello del
cognato Aldo e si trasferì nella Francia del Sud, dove il marito andò a lavorare in
miniera. Seguì la Prima, nata nel 1934, una piccolina tutta pepe, sposatasi con uno di
Campocroce. Della simpatica e sfortunata Prima ricordo vari momenti. Fra tutti mi
viene in mente che un giorno, mentre ero ancora piccolo e stavo scivolando dentro il
“Pianton” in piena, la Prima se ne accorse e riuscì ad afferrarmi portandomi in salvo.
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Evidentemente così era scritto nel destino, altrimenti non sarei qui a ricordare. Dopo
la Prima arrivò un altro maschio cui fu imposto il nome del fratellino scomparso,
Giovanni: il mio inseparabile Gioanin, che venne al mondo due mesi e due giorni
dopo di me. Con lui ho trascorso infanzia e gioventù a braccetto formando un duo
affiatato. Dall‟età di dodici - tredici anni il duo si è trasformato in terzetto per
l‟inserimento di Primo Ferraro che ha dato luogo a un sodalizio inossidabile. Di
questo parlerò più avanti, con nostalgia, anche per i recenti tragici avvenimenti che mi
hanno lasciato unico superstite del terzetto.
Dopo Gioanin è nata Annamaria che ha avuto una vita coniugale tribolata. Separatasi
dal marito, con due figlie, ha trovato un nuovo compagno con cui si è trasferita a
Messina, in Sicilia. Segue la Teresina che una volta sposatasi, si è trasferita a Varese
nelle vicinanze della sorella Regina. Per ultima, nel ruolo di scoagnaro, è arrivata
l‟Antonietta sposata a Marcon.
Del padre di Gioanin, addetto ai trasporti con cavalli, ricordo momenti piacevoli ma
anche dei comportamenti da dimenticare. Di bello da ricordare ci sono tutte le battute
di pesca lungo il “Pianton”. Per noi ragazzini era proprio un‟occasione eccitante.
Questo accadeva abbastanza di frequente in quanto ai quei tempi la polenta era l‟unico
alimento che non scarseggiava, ma per il companatico bisognava “ingegnarci”,
inventare qualcosa. E Gigio aveva trovato nella pesca, allora discretamente redditizia
anche nei vari fossati dei d‟intorni, la quadratura del cerchio. Allora, di tanto in tanto,
si “armava” di stivali, della negorsa, un tipico attrezzo da pesca, quindi del suco, un
cesto di vimini a forma di anfora per riporre il pesce e di un lungo bastone, un‟atoea
che era usata, all‟occorrenza, dagli aiutanti, per assestare dei colpi in acqua allo scopo
di spaventare il pesce e farlo andare nella negorsa. Inutile aggiungere che, di norma,
gli aiutanti del caso eravamo io e Gioanin, mentre qualche volta, nei giorni festivi, si
aggiungeva il buon Aldo, marito di Regina. La battuta di pesca iniziava dal ponte del
“Pianton” situato all‟ingresso dell‟Amministrazione. In quel punto il pescatore entrava
in acqua e vi restava fino a fine battuta percorrendo il canale, controcorrente, spesso
fino al ponte della strada che dal Terraglio porta a Campocroce, nei pressi dell‟osteria
“da Miro”. Alle volte, quando s‟iniziava la battuta di pesca, si sentiva Jolanda, figlia
del fattore Spizzotin, brontolare ad alta voce, perché l‟acqua del canale s‟intorbidiva e
così lei non poteva sciacquare i panni appena lavati. In quelle occasioni Gigio non si
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scomponeva replicando che el Pianton el xe de tuti. Io avevo il compito di rimanere
sempre al disopra della riva e andare in avanscoperta per segnalare la presenza di
pesci, indicando possibilmente il tipo e la quantità. Il pescatore, molto esperto, sapeva
che ogni tipo di pesce ha un suo comportamento e si regolava, di conseguenza, per
catturarlo. Gioanin aveva il compito di andare, all‟occorrenza, giù per la riva per
battere con il bastone in acqua. Divenuto più grandicello, egli stesso entrava in acqua
ed io rimanevo da solo a provvedere all‟avvistamento e a battere con il bastone in
acqua. A fine battuta la pesca fruttava un numero più o meno consistente di pesci tra i
quali c‟erano delle tinche, dei lucci, delle anguille (bisati), delle scardole, delle carpe,
dei pesci persico. Male che andasse la polenta della Maria trovava sempre qualcosa
per farsi compagnia. Alle volte la pesca era proprio abbondante e allora la Maria era
ben felice di prepararmi un cartoccio di pesce fresco da portare alla Este, mia madre.
Le cose poco edificanti che riguardano Gigio sono il comportamento di quella volta
che ingaggiò una lotta con mio padre, fatto che ho già descritto, e l‟odiosa abitudine di
frustare con la cinghia dei pantaloni i suoi figli quando questi avevano commesso
delle marachelle. Tutti i suoi figli hanno subito la loro razione di scudisciate, in
particolare Cesare, Gioanin e l‟Annamaria, forse perché più vivaci e ribelli. Ricordo,
come fosse ora, l‟umiliazione del mio piccolo amichetto
quando subiva questa
crudele punizione in mia presenza. Soffrivo anch‟io, imbarazzato e confuso, anche
perché, spesso e volentieri, avevo partecipato io stesso al malefatto e poi, mio padre,
al contrario di Gigio, non mi aveva mai sfiorato neanche con un dito. Alla fine della
punizione, che di solito si consumava a fine giornata quando il capofamiglia tornava a
casa dal lavoro dopo aver sentito delle lamentele di qualcuno verso un figlio, il
malcapitato doveva
andarsene a letto senza poter partecipare alla cena. Per sua
fortuna Gioanin dormiva nel pianerottolo dove veniva conservato il sacco del pane per
cui bastava portarsi su un po‟ d‟acqua e la frugale cena era garantita!
La povera Maria doveva assistere senza poter intervenire. Aveva passato venti anni
della sua vita ad allattare figli. La ricordo nella grande cucina di casa a mescolare la
polenta nella capiente caliera de rame appesa a una catena posta sopra il fogher.
Ricordo che il lunedì, giorno di mercato, non mancava di andare a comprare pesce, di
quello a buon mercato, come i gò, i marsioni, le anguelle, le schie, le masenete e,
qualche volta, le prelibate moeche che erano più comuni e molto, ma molto meno
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costose di oggigiorno. Per fare un esempio di come cambiano le cose nel tempo, basti
pensare che in quegli anni il baccalà era considerato pesce per i poveri. Oggigiorno,
col prezzo che ha raggiunto, è diventato un cibo ricercato. Tra questi il pesce più
comune, il pesce dei poveri era rappresentato dalle schie. Ricordo che qualche volta,
se per caso mi trovavo verso sera ancora in compagnia di Gioanin, la Maria
m‟invitava a rimanere ancora per un po‟ perché stava friggendo le schie e cuocendo la
polenta. Io accettavo ben volentieri perché a casa mia si cenava più tardi e pensavo al
prelibato piatto che stava per arrivare. Appena finita la cottura del pesce, la tavola si
riempiva di commensali ed io trovavo posto in un angolino, vicino al mio amichetto e
col mio piatto di fumante polenta e pesce. Quando poi ritornavo a casa, era ora di cena
ed io mi guardavo bene dal dire che avevo già mangiato. A quell‟età un bis, ogni
tanto, non guastava.
Un altro ricordo della simpatica Maria riguarda gli anni della guerra. In quel periodo
le famiglie dei dipendenti dell‟azienda Bianchi ricevevano una certa quantità di grano
di frumento e di granturco. Ognuno ovviamente si doveva arrangiare per macinarlo.
Ricordo che Maria partiva da casa con la sua carriola e il suo sacco di grano per
recarsi al molino di Campocroce, che si trovava dove ora si trova il ristorante al vecio
Moìn. Nell‟occasione si portava appresso il figlioletto Giovanni e, naturalmente, il
sottoscritto. Dovevamo essere piccini perché ogni tanto, per qualche tratto,
alternativamente, la Maria caricava sulla carriola, assieme al sacco, anche uno dei due
“mocciosi”.
La famiglia Peschiuta al contrario della precedente era composta di solo quattro
persone. Il capofamiglia, Ernesto, era un uomo di bassa statura ed era fanatico della
caccia. Ha sempre avuto dei cani da caccia di razza pregiata e almeno un paio di fucili.
Spesse volte, se qualche stormo di passeri o storni si metteva a pascolare vicino alle
abitazioni, non esitava di sparare anche in prossimità delle case. La primogenita,
Rossana, da piccola sembrava una bambola ed era sempre vestita e pettinata con cura
dalla madre Itala, che a quel tempo, non aveva ancora rilevato la bottega di cappelli
dalla famiglia di Giuseppe Berto, il noto scrittore, suo parente. Anche da adulta la
Rossana è rimasta molto minuta, ha fatto la stilista e creatrice di moda ed è diventata
una grande appassionata di cavalli, andando ad abitare in una vecchia casa colonica di
Bonisiolo. L‟altro figlio, Roberto, da piccolo era molto vivace e irrequieto. Ricordo
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che da ragazzo aveva una carabina ad aria compressa con la quale sparava a tutto. Un
vero pericolo! Ricordo che una volta uccise una tacchina di Maria Sopeti, convinto di
sparare a uno struzzo selvatico. Il povero animale finì anzitempo e suo malgrado in
tegame e perse l‟opportunità di fare bella figura sopra il tavolo Natalizio.
La famiglia Spizzotin aveva quattro figli. Il primogenito Pierantonio andò in
seminario, prese i voti di sacerdote e arrivò a fare il parroco di Martellago, ma poi
lasciò l‟abito sacerdotale per mettere su famiglia andando a vivere a Milano, dove
ebbe modo di ottenere consensi nel mondo culturale. La secondogenita, Iolanda, ha
sempre badato a tutte le faccende domestiche, mentre le sorelle minori, Vittoria e
Gabriella si sono diplomate alle magistrali. Vittoria ha poi insegnato per tutta la vita,
la sorella minore ha trovato impiego nel settore telefonico. Queste ultime due sono
rimaste nubili, mentre Iolanda, in età matura, ha sposato un uomo vedovo.
La famiglia Marton era composta dal capofamiglia Emilio, dalla moglie Elvira, dalle
figlie Olga, Laura, Elsa ed Enrichetta e dai figli Sergio, Ferdinando e Gino.
Quest‟ultimo morì poco più che ventenne in un tragico incidente d‟auto. La Elsa e la
Enrichetta non si sono mai sposate. Sergio ha avuto una gioventù tribolata. Ha passato
anni di prigionia in Germania assieme al povero Bepi Candelù, che non ha più fatto
ritorno a casa. Sergio si è poi sposato con una Faggian. Ferdinando ha invece sposato
Gabriella Pietrobon, figlia di Cirillo.
Il ricordo delle persone di quel periodo continua ripercorrendo la via Bianchi, in
direzione Zerman. La famiglia Polon era formata da tre fratelli, sposati e con vari figli,
di cui due maschi, Sergio e Giulio poco più anziani di me e un numero imprecisato di
altri maschi e femmine tra le quali ricordo Graziella, Esterina, Giovannina e la Resi.
I Polon erano arrivati in via Bianchi prima della guerra, nel 1938, provenienti da
Monastier. Erano di statura alta e di corporatura snella, coltivavano i terreni dei
Boldini tra i quali spiccavano dei vigneti di uva Merlot tenuti in maniera perfetta e
innovativa. Ricordo che lasciavano l‟uva sul vigneto fino a tarda stagione per ottenere
una migliore maturazione. Per qualche anno hanno esposto la frasca in strada per
vendere direttamente il vino sfuso. Mettere la frasca significava esporre in strada, a
mo‟ d‟insegna, una cima di ramoscello (una frasca, appunto, nel linguaggio comune),
a indicare che in quella casa si vendeva vino sciolto. Producevano anche dell‟ottimo
miele di acacia e allevavano molti animali da cortile. Avevano sempre un gran numero
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di tacchini ed io ricordo che da ragazzo, quando tornavo da scuola, mi divertivo a fare
un fischio per ottenere dal gruppo di tacchini, un “glu…glu…glu “ caratteristico, di
risposta. A quei tempi bastava poco per divertirsi!
La famiglia Sartori era composta dal capofamiglia Armando, dalla moglie
Genoveffa Lorigiola, dal figlio Sandro e dalle figlie Maria, Rina ed Egle. Il figlio
maschio l‟ho conosciuto solo di sfuggita perché dopo gli studi si era sposato
stabilendosi in quel di Padova. Le tre figlie non si sono mai sposate. Egle, come
accennato in precedenza, ha lavorato per tutta il periodo lavorativo nel mezà
dell‟Amministrazione. Maria ha sempre provveduto alle faccende di casa e ha fatto
molta attività di sostegno per la parrocchia. Nel mese di Maggio, per molti anni, ha
radunato i ragazzi dei dintorni per recitare il rosario, nel cortile dei “ cavai ”. La Rina,
dai capelli rossi, era di costituzione piuttosto gracile e aveva ogni tanto dei problemi
di nervi. La Maria è stata per me come un angelo, quasi una seconda madre,
protettiva. Ricordo che durante le vacanze scolastiche si premurava affinché io
svolgessi tutti i compiti, con diligenza. Nel periodo estivo dovevo passare almeno due
volte alla settimana per casa sua per svolgere i compiti, e lei mi seguiva con
premurosa attenzione. Sono certo se non ho mai avuto problemi a scuola, neanche alle
superiori, è certamente merito anche di Maria, oltre alla fortuna di aver avuto come
insegnante, alle elementari, la famosa, severissima, maestra Luisa Mosca. La
signorina Maria aveva in serbo, nei miei confronti, una speranza: che io, dopo le
elementari continuassi a studiare in seminario, per diventar prete. Ma io, da
quell‟orecchio ero sordo, e non ho mai sentito vocazione di sorta.
Le signorine Sartori avevano un cane, chiamato “Blum”, un bulldog di una bruttezza
indescrivibile col quale usavano fare, a turno, delle lunghe passeggiate lungo il
careson che si trovava di fronte ai “ cavai”. Le tre sorelle, rimaste orfane restarono al
“Barombianchi” fino al pensionamento della Egle, poi si trasferirono a Borso del
Grappa vicino a Bassano. Da grande ho sentito di un fatto che non avevo mai saputo
da ragazzo. La signorina Maria avrebbe avuto, in gioventù, una relazione con un
giovane studente, squattrinato e quindi inviso dal padre della sventurata. Da questa
relazione Maria sarebbe rimasta incinta ma il padre, inflessibile, le avrebbe proibito di
rivedere il giovanotto, l‟avrebbe costretta a partorire in segreto e a consegnare la
povera creatura a un apposito istituto. Quando ho sentito questo mi son chiesto: ma
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com‟è possibile che un uomo possa vivere ostentando onorabilità, comportarsi da vero
credente, dopo aver commesso una simile atrocità? Il giudizio non spetta a me, nè
conosco tutti i particolari, ma se è vero, povera creatura e povera signorina Maria!
La famiglia Casagrande era composta da Pasquale, dalla moglie Anna (detta
Amabile) Bonotto, dai figli Guglielmo, Giovanni, Guido, Umberto, e dalle figlie Elsa,
Emilia ed Emma. In famiglia c‟era stato un altro figlio maschio, Federico, che io non
ho fatto in tempo a conoscere perché morto quand‟era ancora bambino. Pasquale era
un uomo sobrio, compassato, dal colorito pallido: aveva, infatti, lavorato tutta la vita
nella Centrale del latte, sempre al riparo dal sole. Era l‟unico dei paraggi, in tempo di
guerra, ad avere una radio, che era solito ascoltarsi seduto nella sua ottomana, altra
rarità per quei tempi. Per tutta la vita ha continuato a prendere ogni mattina un
cucchiaino di magnesia “S. Pellegrino” cosicché Umberto ed io, da piccoli, avevamo
una collezione di scatolette di alluminio da far invidia agli amici. Donna “Amabile”
era meno compassata del marito e di nascosto, durante l‟assenza del buon Pasquale,
usava farsi qualche fumatina di sigaro o con la pipa. Il primogenito Guglielmo l‟ho
conosciuto solo perché era il padre di Federico e della Zita, che di tanto in tanto
venivano a trovare i nonni e diventavano occasionali compagni di gioco. Di Federico
ricordo le nostre memorabili battaglie fra Cow boy e indiani. Ci siamo sparati tante di
quelle pistolettate, al riparo di qualche gelso, da consumare un arsenale di pallottole!
Solo che lo sparo lo facevamo con la bocca, e lui non ammetteva mai di essere colpito,
non voleva mai cadere, diceva che lo avevo colpito sempre di striscio! Quando poi, la
madre Alma lo veniva a riprendere, non voleva saperne di abbandonare il Canyon,
finto teatro dei nostri giochi, perché doveva sempre catturare qualche altro mustang.
Giovanni, alto di statura e simpatico burlone, aveva lavorato, da ragazzo, nella nota
officina Zardo, che si trovava vicino alle scuole elementari e che produceva delle
buone biciclette. Durante la guerra era stato in marina. Al ritorno a casa aveva aperto,
col fratello Guido, un‟officina di riparazione e vendita di cicli e moto. In seguito
cambiò attività e gestì l‟albergo ristorante “da Stefano“ in via Roma, vicino al
negozio di elettrodomestici Bertolin. Il fratello Guido, di statura più modesta, da
ragazzo aveva fatto il fornaio tanto che si era portato appresso il nomignolo di
Ciopéte. Nel dopoguerra, come già detto, aprì col fratello il negozio di bici situato in
via Roma, appena oltre il passaggio a livello.
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Umberto era nato cinque anni prima di me ed è stato un caro compagno di giochi,
soprattutto a pallone. In occasione della promozione alla terza media il padre gli
regalò un vero pallone da calcio, una rarità, tra i ragazzi del mio tempo. Frequentò la
scuola per periti “Pacinotti” dopodiché andò a lavorare a Marghera, alla Montedison.
Elsa ebbe un brutto destino, si ammalò e morì poco più che ventenne. La Emilia e la
Emma si misero a lavorare in proprio a casa, da magliaie, e vissero con i genitori . Poi
Emma sposò un professore da Tivoli, trasferitosi a Mogliano. Dopo la morte dei
genitori si sposò anche “ Lia “, con un uomo che era rimasto vedovo.
La famiglia Zanadel era originaria di Falzè di Piave, ma aveva vissuto diversi anni in
Libia, dove era nata Laura, la terzogenita. Il capofamiglia, Alfredo, era un uomo molto
alto e magro ed era di carattere mite e riservato. La moglie, Marcella Fedato era una
bella signora, volitiva, di carattere più forte del marito. Avevano avuto tre figlie, la
Felicina, la Adriana e la Laura, intervallate di due o tre anni e poi, dopo un intervallo
di circa dodici anni hanno avuto ancora una femminuccia, la Wilma. La signora
Marcella non ha mai cessato di manifestare il suo disappunto per non aver avuto
nessun maschietto, e scaricava la sua frustrazione verso le figlie, soprattutto verso la
Laura che, poverina, non aveva nessuna colpa. A dire il vero, la signora Marcella,
mettendo al mondo la Laura non aveva mancato di molto l‟obiettivo di avere un
maschietto, in quanto, a parte l‟aspetto fisico da femminuccia, e anche piuttosto
carina, il carattere, almeno da piccola, era da maschiaccio. Preferiva giocare con i
maschietti e aveva una vitalità incontenibile. A quel tempo le femminucce dovevano
portare per forza le gonnelline, ma per Laura la madre aveva dovuto trovare uno
stratagemma facendole indossare, sotto la gonna, un paio di pantaloncini. In quel
modo poteva liberamente scatenarsi nei giochi da maschietto senza attirare sguardi
curiosi. La famiglia Zanadel si è poi trasferita in via Gioberti, vicino al vivaio Varroto,
dove avevano costruito una casa. Un tragico destino causò la morte del capofamiglia
in un incidente stradale. Ricordo lo strazio della povera Laura che era molto legata al
padre e che aveva in precedenza perso il fidanzatino, morto annegato a Jesolo.
La famiglia di Mario Berton era composta dal capofamiglia, dalla moglie Ester
Gobbo, dalle figlie Lidia, Adriana e Teresina e dai figli Sergio e Vito. Il buon Mario
portava sempre il suo berretto, in ogni occasione. Ora che anch‟io ho lasciato i miei
capelli “ per strada” capisco il perché della sua consuetudine. La moglie proveniva
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dalla prima famiglia Gobbo che si incontrava in via Bonotto ed era una donna minuta,
dai capelli chiari e dal carattere mite. Con i figli ho sempre avuto un buon rapporto di
amicizia. Con Sergio ho spesso giocato a pallone nel grande cortile di casa. Adriana
m‟ispirava una particolare simpatia per quella sua espressione dolce, quel suo modo di
essere timida, da adolescente. La consideravo come una piccola sorella e ricordo che
molte volte, verso sera si partiva da casa assieme per andare a prendere il latte in
Amministrazione.
Mario Berton in quel periodo aveva anche i fratelli Nicola, padre di Orfeo, oggi
titolare del negozio di articoli sportivi, e Giuseppe, ancora dipendenti dell‟azienda
Bianchi e rimasti ad abitare, per qualche tempo, nella vecchia casa vicino ai Boldini.
Dei Berton ho fatto in tempo a conoscere anche il nonno che era chiamato Vesco. Lo
ricordo passare per via Bianchi col suo immancabile mantello a ruota, nero, il suo
cappello, dello stesso colore, a larghe falde, i suoi baffi arricciati all‟insù e il passo
lento e insicuro, non so se dovuto all‟età avanzata o alle soste troppo lunghe dalla
Pasquetta, all‟osteria Bonotto, a sorseggiare il suo quartino di crinto.
La famiglia di Costante Marcato proveniva da Zerman e ha vissuto molti anni a
contatto di gomito con la mia famiglia usando la nostra stessa scala per salire al piano
di sopra, dove aveva le stanze da letto. Era composta da Costante, dalla moglie Emilia
Scattolin, originaria di Campocroce, dai figli Piero e Guglielmo e dalle figlie Antonia,
Amabile e Marianna. Al pianterreno dell‟abitazione avevano un enorme stanzone che
fungeva da ingresso e cucina con in fondo un grande focolare alla “vaesana”. Era il
luogo ideale per raggrupparsi, nelle lunghe sere d‟inverno, attorno al fuoco, a bere del
caldo brulé, al suono della fisarmonica di Guglielmo e, qualche volta di Angelo
Faggian, che eseguivano la “Rosamunda” e altri pezzi in voga al momento, dando il
via a vorticosi giri di danza delle varie ragazze e ragazzi presenti. Io ero piccino e me
ne stavo quieto vicino al fuoco ad ammirare i virtuosismi di “Gelmo” e compagnia.
Altro che discoteca!
Della famiglia Marcato ricordo che il vecio Costante raccontava di aver vissuto per
un po‟ in Germania dove aveva mangiato tante, ma tante kartofen (patate) e di aver
anche lavorato, in precedenza, nella costruzione della banchina di Porto Marghera. Per
questo lavoro doveva partire da casa ogni giorno alle quattro del mattino, a piedi, con
la carriola, dove trasportava il badile, un piccone e il cesto con il “rancio” per
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mezzogiorno. Sembrano racconti dei tempi della costruzione delle piramidi invece
sono racconti di vita vissuta da gente che ho conosciuto. Del vecio Marcato ricordo
che aveva l‟abitudine di andare a letto poco dopo delle galline, dopo aver fumato la
sua solita pipa di “trinciato forte”. Saliva, sbadigliando sonoramente, per la nostra
stessa scala, mormorando: - a slofen, …a slofen…a letto! -. L‟orologio che scandiva la
sua giornata era rimasto fermo al tempo dei lavori a Porto Marghera e gli era rimasto
in testa anche il ricordo di qualche parola tedesca.
La più anziana delle figlie, di nome Antonia, aveva sposato un Donà ( S-cievano ) ed
era andata ad abitare vicino al fiume Zero dalle parti del mulino Valerio. La seconda
di nome Amabile sposò Remo Badoch, da Preganziol, un uomo di notevole statura.
Ricordo ancora la scena del giorno delle nozze dell‟Amabile. Lo sposo doveva venire
a prendere la promessa sposa assieme a tutti i numerosi parenti con una corriera, ma
dovette attendere un bel po‟ poiché il mezzo si ruppe. Passò il tempo, passò l‟ora
prevista per la funzione, ma non si vedeva arrivare alcuno. Tutta la gente, radunata nel
cortile per vedere la sposa vestita di bianco scendere lo scalone, non sapeva più cosa
pensare. Alla fine la corriera arrivò, seppur con un gran ritardo. Ma alla sposa, a causa
della tensione accumulatasi, capitò una crisi nervosa. Non ne voleva sapere di
scendere la scala, non ne voleva più sapere del promesso sposo. Dopo un bel po‟ di
tempo i parenti, quasi arrivati alla rassegnazione, riuscirono a convincere la sposa a
scendere nel cortile e la cosa, piano piano, si accomodò.
La sorella Marianna sposò Narciso Bugin, andò a vivere nel quartiere Ovest e
divenne madre di quell‟Ugo Bugin che fu in seguito sindaco di Mogliano.
Dei due maschi, Piero ha lavorato come autista della Centrale del latte Bianchi per
poi passare con la ditta Sembiante che vendeva combustibili. Si è sposato con Amelia
Candelù da Zerman, che lavorava anch‟essa da Bianchi, ed ha avuto due figlie.
Guglielmo aveva sedici anni più di me e attirava la mia curiosità di bambino ogni
volta che suonava la fisarmonica o riparava la bicicletta, oppure quando faceva la
pulizia meticolosa del suo fucile da caccia, un Beretta calibro venti. Da piccolo mi
aveva affibbiato un nomignolo, per canzonarmi. Mi chiamava “broncia” perché
secondo lui ero una bronsa cuerta (brace coperta) e inoltre portavo spesso il broncio.
Da lui ho imparato a fare le riparazioni alle bici. A quel tempo le “camere d‟aria”
delle bici avevano più pezze che tratti da rappezzare, sembravano vestiti di arlecchino;
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i copertoni erano aggiustati mettendo dei “rinforzi” tanto che perdevano la linearità,
provocando, durante l‟uso, continui scossoni che si confondevano con i sobbalzi
causati dalle buche delle strade, che allora erano sterrate. Gelmo mi ha anche
insegnato, un pochino, a suonare la fisarmonica e a sparare con un vero fucile da
caccia. Ha sposato una biondina di nome Annamaria Battistella che ha subito suscitato
in mia madre un sentimento di affetto e di protezione perché anch‟essa era rimasta
orfana da bambina, come lei. In seguito al pensionamento di Costante, la famiglia
Marcato si è trasferita altrove e dopo qualche anno Gelmo ha perso, chissà perché, la
strada maestra. Ha incominciato a bere, a comportarsi in modo strano. Un disgraziato
giorno la povera Annamaria, mentre aveva con sé, in bicicletta, la figlioletta Sandra di
quattro anni, finì sotto un camion e morì all‟istante con la piccola figliola.
Come detto in precedenza accanto alla famiglia Marcato vivevo io con la mia
famiglia, composta da mio padre Angelo Favaro, classe 1898, da mia madre Celeste
Brognaro, conosciuta come Este, nata nel 1899 e dai miei fratelli Orfeo, Elvira, Rina e
Maria. Mio padre ha trascorso l‟età compresa tra i diciotto e i venti anni al “fronte”,
nelle trincee di montagna della prima guerra mondiale. Mi viene ancora il pelo d‟oca
nel ricordare i racconti che mi faceva quando ero ragazzo, alle lacrime che gli
scendevano dagli occhi quando ascoltava i cori con i canti della montagna. Ha
lavorato per cinquantacinque anni alle dipendenze dell‟azienda Bianchi ottenendo per
questo una medaglia d‟oro per la “fedeltà al lavoro” dalla Camera di Commercio e
Industria di Treviso. Ha inoltre ricevuto la nomina a Cavaliere dell‟Ordine di Vittorio
Veneto. Di queste riconoscenze andava giustamente fiero. Mia madre era rimasta
orfana di mamma dall‟età di undici anni, con tre sorelle di cui due appena più anziane
e quattro fratelli più piccoli. Mi raccontava che con le sue sorelle doveva spartirsi il
compito di fare da mamma verso i fratellini più piccoli.
Mio fratello Orfeo ha avuto anch‟esso la sua parte di gioventù travagliata dagli
eventi di una guerra mondiale. Ad appena diciannove anni, nel 1940, mentre era
imbarcato in una nave da guerra si trovò in mezzo ad un evento drammatico. La sua
nave fu silurata e affondata ed egli si salvò solo perché aveva occupato il posto di un
compagno accorso al capezzale della madre ammalata. Ricordando quelle vicende mio
fratello dice che quella volta il destino l‟ha fatto nascere una seconda volta.
La famiglia Sottana era composta da Ettore, dalla moglie Giuseppina Mestriner, detta
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Nina, dal figlio Luciano, che ha sposato Giovanna Prete da Zerman, dalla figlia
Silvana, che ha sposato Marcello Gobbo e da Renata che si è sposata andando ad
abitare a Sette Comuni. Altre due sorelle più anziane vivevano già sposate a Casale.
La famiglia di Carlo Tozzato, responsabile della cantina era composta dal
capofamiglia, dalla moglie Antonia, una donna dai capelli nero-corvino, caratteristica
che ha trasmesso ai figli, dalla figlia Giuliana e da Giovanni, più giovane di qualche
anno. La famiglia viveva in una piccola casa posta in un angolo della proprietà dei
Zoggia. La casetta aveva due accessi: uno partendo da via Bianchi di fronte “ai cavai”
attraverso un “troso” che il buon Carleto percorreva tutti i giorni per recarsi al lavoro,
un altro da via Bonotto (nel tratto ora Cavalleggeri), poco più avanti dell‟incrocio di
casa Gobbo.
La famiglia Lizzi, proveniente da Fagagna, comune del Friuli, era composta da
Renato, dalla moglie e dai figli Danilo, Enzo e da un altro figlio maschio, di nome
Dino, nato mentre la famiglia era già residente in via Bianchi.
La famiglia Michielin era composta dalla signora Amabile, che era rimasta vedova
del marito che lavorava in un negozio “latteria Bianchi” a Mestre, dai figli Gino, che
ha lavorato nel mezà, da Mario, che ha occupato il posto di lavoro del padre e dalla
figlia Elsa.
La famiglia Candelù era composta da Giulio, dalla moglie Maria, dal povero figlio
Giuseppe, che scomparve durante il periodo di prigionia in Germania e dalla figlia
Adele, che in età non più giovanile sposò Guido Cappellesso da Zerman.
La famiglia Reato era composta da tre fratelli maschi di cui uno, padre del mio
coetaneo Adriano, si trasferì in provincia di Milano. Rimasero a coltivare i terreni di
Boldini i fratelli Vittorio, detto Neno, sposato con Carolina Carraro (Munareto) e
Luigi detto Gigio, rimasto postoto, cioè da sposare. Neno aveva un modo di parlare
particolare, come di uno che porta una dentiera troppo grande. Da giovane aveva fatto
il ciclista e conservava la bicicletta da corsa come una reliquia. Spesse volte la
domenica, per recarsi in chiesa, vestito da “messa ultima”, passava per via Bianchi
sulla sua bici da corsa, con i pantaloni fermati con delle mollette usate per stendere la
biancheria. Sotto il barco situato nel cortile di casa, aveva un banco da lavoro con tutti
gli attrezzi per riparare le biciclette. Appesa sopra il banco aveva la vecchia, mitica
sella, che aveva usato quando faceva il corridore. Diceva che la cosa più importante
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per un corridore ciclista era la sella. E così dicendo prendeva la sua vecchia sella e la
accarezzava. Quando poi si metteva a centrare una ruota, allentando o tirando i raggi,
sembrava Paganini intento a registrare il suo violino. Il fratello Gigio aveva avuto la
sventura di passare momenti drammatici, quando era al fronte, durante la grande
guerra. Era del ‟98, come mio padre, e quindi anch‟esso dovette andare al fronte da
giovanissimo. Pare si sia trovato in mezzo a un furioso bombardamento. La sua psiche
ne rimase irrimediabilmente colpita. Alternava momenti in cui era apparentemente
normale a momenti in cui sragionava, soprattutto quando “alzava” il gomito. Di
frequente, alla sera, quando tornava dopo una sosta dalla “Delia”, aveva visioni dei
drammatici momenti della guerra. Si fermava con gli occhi sbarrati e predicava da
solo, gesticolando ed evocando Guglielmo Imperatore sul suo cavallo bianco; pareva
sentisse esplosioni di granate e bombe a mano a destra, a sinistra, raffiche di
mitragliatrici; descriveva assalti alla baionetta, ecc.
La famiglia Maccatrozzo era composta da Silvio, dalla moglie Adele Secco, dal
figlio Tullio, dalle figlie Maria, dalle gemelle Bruna e Luigina (Gigeta), da Elena
(Nella) che ha sposato Giorgio il più giovane dei fratelli Casarin, da Elda e da Paola.
Inoltre in famiglia viveva anche la sorella di Silvio, Teodolinda (Inda) già nominata
per la sua lunga attività di lavoro nella Centrale del latte e che ha poi vissuto fino alla
venerabile età di 106 anni.
La famiglia Volpago era composta da Angelo, dalla moglie e dalle figlie Oliva e
Maria e dai figli Gino e Antonio, che morì in un incidente stradale sul Terraglio,
tornando dalla scuola elementare.
La famiglia Pietrobon era composta da Cirillo, dalla moglie Amabile Cecchinato e dai
figli Wanda, Vittorio, Giovanna e Gabriella. Il capofamiglia, Cirillo era un uomo
piccolo e mingherlino, che lavorava a Porto Marghera. Molte volte, nel periodo in cui
ho lavorato nella stessa zona, si prendeva lo stesso filobus e si percorreva la via
Bianchi in compagnia, scambiando quattro piacevoli chiacchiere. Della moglie
Amabile ricordo i capelli neri corvini. Con Vittorio si era amici d‟infanzia. Ha
lavorato per parecchi anni da infermiere all‟istituto Gris. Giovanna ha sposato Gino
Ferraro, altro amico d‟infanzia. La Gabriella ha sposato Ferdinando Marton anch‟egli
amico d‟infanzia. La Wanda, primogenita della famiglia, è stata ragazza madre. Ha
dedicato tutta se stessa per crescere la sua creatura. Oggigiorno, si sente sempre più di
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frequente di donne che gettano i propri nati nella spazzatura. In passato ho sentito di
famiglie, paurose di perdere “la faccia”, che costringevano le loro figlie a consegnare i
neonati in qualche istituto. Per questo, per quanto hanno passato e fatto, tanto di
cappello a Wanda e alla famiglia Pietrobon, sinceramente!
La famiglia Ferraro era originaria del comune di Bassano ed era arrivata prima della
guerra acquistando una proprietà dall‟Ospedale di Treviso. La proprietà era composta
da una vecchia grande casa e da una fascia di terreno a ridosso del “ Pianton” che
andava dal ponte di accesso e fino al confine con il territorio dell‟Amministrazione
Bianchi. La famiglia era composta da due fratelli con i numerosi figli. Il lato est della
casa venne occupato dalla famiglia di Antonio che aveva sposato Maria Bordignon
che si portò appresso il nomignolo di Mora Ferraro anche quando di moro era rimasto
solo il colorito della pelle, un po‟ più scuro rispetto alla media dei nostri territori. La
Mora Ferraro era un personaggio caratteristico, carismatico, uno degli ultimi esempi
di moglie del capofamiglia delle vecchie famiglie coloniche. La ricordo quando
passava a piedi per via Bianchi, il lunedì mattina, per andare al mercato. Era vestita
sempre con una lunga vestaglia nera, con l‟immancabile scialle anch‟esso nero e il
fazzolettone in testa. In quelle occasioni portava sempre al braccio un grande cesto di
vimini che serviva per riporre gli acquisti fatti al mercato. A ritorno dal mercato, verso
mezzogiorno, era solita fare una sosta “liberatoria” dietro una delle grandi pioppe
poste di fronte ai cavai. Si accostava alla pioppa, in piedi, appoggiava una mano
all‟albero in modo da poter divaricare le gambe senza perdere l‟equilibrio, quindi
procedeva tranquilla nella sua operazione di “rilascio liquido organico”. Non si poteva
nemmeno dire che si trattasse di atti osceni giacché la vestaglia arrivava giù delle
caviglie. Naturalmente l‟operazione era possibile perché tra i vestiti indossati, a quel
tempo, non era previsto alcun indumento intimo.
Antonio aveva avuto un solo figlio maschio, Pellegrino, e cinque femmine,
Giuseppina, Caterina, Maria, Antonia e Lucia. Nella casa paterna era rimasto il solo
figlio maschio, Pellegrino, conosciuto da tutti come Moro Ferraro e che ha avuto tre
figli: Elsa, Gino e Antonio (Tonin). La Elsa era una bella ragazza, alta, mora di capelli
e di colorito. Ha ereditato i colori dei capelli e della carnagione dal padre e dalla
nonna. Ricordo che spesso per andare al lavoro prendevamo la stessa filovia. Nei mesi
invernali al mattino si partiva da casa con un buio pesto e la via Bianchi, come tante
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altre, non aveva nessun tipo d‟illuminazione. Allora ci si aspettava davanti a casa mia
per percorrere la strada assieme. Adesso, a distanza di tanto tempo, quando capita di
incontrarci, Elsa non manca di ricordare che a quei tempi non vedeva l'ora di
incontrarmi per scacciare la paura che la attanagliava. Anch‟io trovavo sollievo dalla
sua compagnia perché quando mi capitava di passare da solo nei pressi dell‟ex
ippodromo mi si gelava il cuore e aumentavo il ritmo dei passi. In quel tratto di strada
c‟erano dei pini con i rami tanto bassi che avvolgevano il lato della strada, rendendola
tetra. Si diceva che in uno di quegli alberi, nel periodo precedente la guerra, un uomo
si fosse impiccato; per questo, quando era buio pesto per mancanza della luna, mi
sembrava di scorgere tra i rami il fantasma di quell‟uomo a penzoloni.
Elsa in seguito ha sposato Egidio Mason, nipote del parroco di Zerman don Narciso,
ed ha aperto un negozio di cartolibreria in piazza Pio X°. Il fratello Gino ha sposato
Giovanna Pietrobon e si è costruito l‟abitazione dietro la vecchia casa paterna. Il
fratello più giovane, Tonin ha sposato una Bonotto e ha fondato, con Giorgio
Franceschini, la società “Ferraro-Franceschini” che si occupa di impianti di
riscaldamento e condizionamento. Tonin ha ristrutturato la vecchia casa paterna che ha
l‟aspetto di un vecchio palazzo. Si dice che in passato la grande casa fosse adibita a
monastero.
Il lato ovest della casa era occupato dalla famiglia di Piero che aveva sposato Rita
Polo e aveva avuto parecchi figli: Pellegrino (Perin), Luciano (Ciano), Antonio
(Toni), Giuseppe (Bepi), Francesco (Checco), Angelo (Angein), Maddalena, Caterina,
Angela e Florinda.
Pellegrino (Perin) aveva sposato Stella Sbroggiò ed era il padre del mio caro amico
Primo, nonché di Vittorio, mio coetaneo, di Piero, Ilario e Lina. La famiglia di Perin
si trasferì a Marocco nella nuova casa che vi avevano costruito. Qualche tempo dopo
essersi sposato Primo si costruì una nuova casa nel terreno della vecchia proprietà,
ritornando così nel luogo dove aveva vissuto l‟infanzia, a contatto della natura che
tanto amava.
Luciano aveva un figlio con il suo stesso nome denominato Cianeto o meglio ancora
Brespa per la sua irrequietezza e la propensione a combinare le marachelle (maeani)
più impensate. Ricordo che una volta si mise a cavalcare una giovane mucca che
incominciò a correre all‟impazzata attraversando dei filari di vitigni. Nei primi filari la
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mucca e il cavaliere passarono sotto i tiranti del filare, ma alla fine su un filare un po‟
più basso, passò solo la mucca mentre il malcapitato cavaliere venne trattenuto dal filo
di ferro e scaraventato a terra, all‟indietro. Per fortuna il tirante colpì il petto e non il
collo dell‟improvvisato cow-boy che, noncurante del pericolo corso, riprese a
cavalcare subito un‟altra mucca.
Francesco (Checco) era il cacciatore e pescatore per eccellenza. Si contendeva con
Nino Faggian il diritto di vantarsi di essere “el mejo cassador “ dei paraggi. Ricordo le
sue uscite a caccia con il mitico cane Reno che rimase in eredità a Primo, quando
Checco si sposò e si trasferì in un altro paese.
Nei territori retrostanti la casa dei Ferraro c‟erano altre famiglie che gravitavano
nella borgata del “ Baronbianchi”. Tra queste la famiglia Ancillotto (Ansioto) che
proveniva da Campalto dove aveva gestito un‟osteria, condotta dalla energica Maria
che era rimasta vedova ed aveva tre figlie, Egle, Edda e Stefania e un figlio di nome
Danilo.
Poco lontano c‟era la vecchia casa dove era nata mia madre, poi occupata da
Graziadio Tronchin che viveva con il figlio Mario sposato con Erminia Conte. Mario
ed Erminia avevano quattro figli: Amalia, Giuseppe (Bepi), Marcello e Maria.
Tornando alla via principale e proseguendo verso Zerman s‟incontrava la patriarcale
casa dei Tronchin, dove il vecchio Romano, che aveva sposato Luigia Favaretto,
viveva con le famiglie dei tre figli maschi Luigi, Attilio e Mario. Luigi era molto
amico di mio padre con il quale passava diverse domeniche pomeriggio andando in
giro in bicicletta a far qualche assaggio di trippa o baccalà, arrivando fino all‟osteria
Stella di Ospedaletto di Istrana. Luigi aveva sposato Maria De Lazzari ed era il padre
dei miei amici Olindo, Orfeo, Rinaldo, e di Danilo e Giulio. Morì nel 1957 quando
aveva solo quarantanove anni.
Poco oltre la casa dei Tronchin, sul lato opposto della strada che in quel punto fa una
leggera curva a “esse” abitava un‟altra vecchia famiglia patriarcale, quella di
Napoleone
( Napoi ) Bonotto, dai baffi ottocenteschi. Napoi con i figli Primo, Gino,
Mario e Ines, dopo la guerra lavorava ancora “al terzo” la campagna adiacente la
vecchia casa.
Più avanti, verso Zerman, al confine con i terreni lavorati dai Bonotto, in una casetta
bassa e lunga, abitavano i due nuclei famigliari dei Boschiero. Dalla parte vicina alla
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strada viveva la famiglia di Carlo con la moglie Italia Barbazza e i figli Sergio, Luigi,
Miranda e Franco. Sergio, il più anziano, fin da ragazzo ha fatto il barbiere lavorando
nella bottega di Fiacchi, che si trovava in centro paese tra la farmacia “al Terraglio” e
l‟incrocio del centro. Per anni Sergio è stato il barbiere mio e di mio padre. Spesso
veniva a tagliarci i capelli direttamente a casa. Suo fratello Luigi, chiamato Pucci ha
avuto un tragico destino: morì nel 1955, a soli ventiquattro anni in un incidente
stradale con la sua moto. Qualche giorno dopo avrebbe dovuto iniziare a lavorare da
pompiere. Nell‟altra parte della casa dei Boschiero viveva la famiglia di Angelo, figlio
di Marco fratello maggiore di Carlo.
Oltre quel posto, sul lato sinistro della strada, si incontrava la casa dei “ Fuga”
ovvero dei Favaro del casato con quel nomignolo. Qui nei primi anni cinquanta era
rimasta ad abitare Antonia Favaro ( detta Cèa Fuga, per via della esigua statura ) che
aveva lo stesso cognome del marito morto da tempo. La minuta Antonia aveva due
figli maschi di cui uno si chiamava Giuseppe ( Nino ) e faceva l‟autista e l‟altro Luigi,
che invece ha lavorato per un certo tempo nella Centrale del latte Bianchi per poi
andare alla S. Benedetto di Scorzè.
Proseguendo verso Zerman, un centinaio di metri oltre la curva a sinistra che si
trovava di fronte alla già menzionata “vigna” s‟ incontrava la stradina di ingresso della
proprietà degli Zanin. Qui viveva la famiglia di Paolo Zanin, che aveva lavorato in
qualità di castaldo per l‟Azienda Bianchi ed era rimasto vedovo sin da giovane,
risposandosi in seguito con Regina Pesce. Dal primo matrimonio aveva avuto due
figli: Gino, che ha lavorato a Venezia in un negozio “latteria” dell‟Azienda Bianchi e
una femmina di nome Ida. Dal secondo matrimonio sono nati un maschio e due
femmine: Luciana, che ha sposato Angelo Faggian ed era andata a vivere per un certo
tempo in Argentina, poi Elena (chiamata Eda ) ed infine Ugo che ha lavorato per un
po‟ nell‟Azienda Bianchi per poi passare alla Montedison a Marghera. Ugo ha sposato
Vittoria Favaro, figlia di Attilio del ramo “Fuga”, abitante in località Bacareto, ma
originario dalla famiglia di via Bianchi.
Proseguendo verso la fine della via Bianchi, poco prima del ponte sul “Pianton” si
incontrava la casa dei “Scarpazza” che un tempo fu del mio bisnonno Pietro e poi di
mio nonno Lorenzo e in cui hanno fatto in tempo a vivere un poco della loro infanzia i
miei fratelli Orfeo ed Elvira. In questa casa, intorno ai primi anni cinquanta, erano
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rimasti a vivere alcuni figli di Annibale, che aveva sposato “Nina” Potente ed era
cugino di mio padre. Annibale aveva avuto cinque figli maschi: Luigi conosciuto
come Amedeo, poi Gino, Rino, Mario, Armando e tre femmine, Emilia, Norina e
Delia. Come accennato in un altro capitolo, intorno alla metà degli anni cinquanta gli
ultimi componenti di questa famiglia, rimasti nella vecchia casa, emigrarono in
Piemonte a coltivare un podere, lasciando libera parte della casa che venne occupata
dai Miatto denominati Sponciòn .
Un‟ altra parte della vecchia casa dei “Scarpazza”
era occupata dai Ceolin
conosciuti come “Insandrin “ di cui facevano parte il vecchio capofamiglia Giacomo
con i figli Carlo, Altinio e Giuseppe chiamato Bepeti .
CONDIZIONI DI VITA
Dopo la fine della guerra e fino ai primi anni cinquanta le condizioni di vita erano
molto simili a quelle del duro periodo antecedente il tragico conflitto. Nelle borgate di
periferia era arrivata l‟illuminazione elettrica, ma le abitazioni erano ancora prive di
acqua, come pure di un servizio igienico e di riscaldamento, ad eccezione della stanza
in cui si trovava la cucina “economica”, che serviva per cuocere e per ottenere acqua
calda. L‟acqua utilizzata per le varie esigenze, ad eccezione di quella che serviva per
bere, veniva attinta da dei pozzi artesiani. Quella usata per bere veniva prelevata da
apposite colonnine, alimentate dall‟acquedotto comunale e poste in qualche punto
strategico sulle strade, oppure da qualche fontana privata. In via Bianchi ricordo che
c‟era una colonnina dell‟acquedotto all‟altezza della casa Polon e una all‟altezza della
casa Maccatrozzo, poco prima dell‟osteria Bonotto. Nel recinto dell‟Amministrazione
Bianchi c‟era una fontana privata, che attingeva direttamente da una falda molto
profonda del sottosuolo. Questa fontana serviva per la Centrale del latte ed era
utilizzata da tutte le famiglie dei paraggi, compresa la nostra. Dietro il palazzo
padronale esisteva un‟altra fontana, simile a quella della latteria, e serviva per gli usi
del palazzo e delle famiglie che vi abitavano. I servizi igienici venivano realizzati
fuori delle abitazioni, spesso lontani dalle stesse e potevano essere in muratura ma
anche con pareti realizzate con palizzate o canne. L‟igiene personale consisteva nel
fare il bagno, normalmente una volta la settimana, utilizzando come vasca il mastello
di legno solitamente usato per la issia, ossia per il bucato. Per l‟igiene quotidiana si
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usava lavarsi mani, viso, braccia, ascelle, piedi e quant‟altro fosse necessario,
utizzando un classico catino, che veniva riempito con una tipica brocca. Per lavare i
panni le donne provvedevano facendo la issia. Il procedimento di lavaggio consisteva
nel deporre la biancheria, in precedenza descargada, cioè passata con del sapone nei
punti più sporchi, nell‟apposito mastello di legno e ricoperta con un covertor, di solito
formato da un vecchio telo, che doveva essere molto spesso e di dimensione
sufficiente per debordare dal mastello. Quindi, sopra il telo, si metteva della cenere
prelevata dalla cucina economica e vi si versava sopra dell‟acqua bollente, che
scioglieva la cenere e passava sotto il telo inzuppando la biancheria. Si lasciava per un
certo tempo in ammollo, quindi si toglieva il telo con i residui della cenere. Alla fine
la biancheria veniva lavata e risciacquata più volte con acqua fredda e quindi distesa
ad asciugarsi, appesa in postiera del sol. Il risultato era di avere dei panni che avevano
un unico profumo, quello di un pulito naturale. Seguiva la stiratura che avveniva con il
classico fero a bronse, un ferro da stiro di ghisa, massiccio, vuoto all‟interno e con un
coperchio che permetteva l‟introduzione delle bronse (braci) roventi, prelevate dalla
solita cucina economica. La biancheria stirata era poi sistemata nelle apposite
cassepanche o nei cassettoni dei comò, all'interno dei quali venivano poste delle mele
cotogne che mantenevano profumata biancheria e ambiente.
Le case, come già accennato, non erano provviste di riscaldamento e, per giunta, non
avevano dei serramenti con buona tenuta. Le finestre erano di modeste dimensioni. Le
ante delle finestre, solitamente non più di due, non erano chiuse da un unico vetro, ma
da più vetri tenuti assieme da delle traverse di legno. Quando si rompeva un vetro,
veniva recuperata la parte più grande cui si aggiungeva il pezzo mancante, che veniva
inserito con un nuovo traversino di legno. Alla fine le finestre apparivano, a seconda
delle rotture subite, variamente asimmetriche, come si vede nei quadri dei pittori naif.
Per la chiusura esterna non esistevano le “persiane”, si usavano i ”balconi” in legno a
due ante che erano chiusi da un grosso catenaccio centrale, che, di solito, chiudeva
con dei cigolii uditi da tutto il vicinato. Era il segnale che la giornata era finita ed era
ora di chiudersi in casa. Nella casa del complesso “dai cavai”, che la nostra famiglia
ha occupato per circa venti anni, i “balconi” erano di tipo diverso, da palazzina,
massicci e divisi in quattro ante unite da cerniere. Assieme al pavimento, di legno in
tutte le stanze, era il particolare più pregiato di tutta l‟abitazione, per il resto allineata
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con la situazione del tempo. Nella parte alta delle stanze non esisteva controsoffitto
per cui si può ben immaginare quali temperature si raggiungessero nei mesi invernali.
Per andare a dormire si dovevano scaldare preventivamente i letti. Il modo più
efficace era quello con il sistema della munega, che riusciva a scaldare tutto il letto
donando un tepore asciutto, invitante. La munega era un aggeggio di legno che
permetteva di tener sollevata la còlsara, ossia il piumone, per poterci infilare un
apposito contenitore di terracotta, pieno di bronse, ricoperte di cenere per evitare
bruciature o addirittura incendi. Vari modelli di muneghe erano in commercio nei rari
negozi di casalinghi, ma per le esigenze della mia famiglia mio padre provvedeva a
costruirne di sicure, artigianali. Un altro sistema per scaldare il letto, ma solo in parte,
dal lato dei piedi, era con la “bossa “ di acqua calda. Non si trattava di una vera
bottiglia ma di un contenitore, a tenuta stagna, in alluminio e dalla forma di sfera
schiacciata, che era riempito di acqua calda e rimaneva tutta la notte accanto ai piedi
per mantenerli caldi. Un sistema simile a questo, usato dai più poveri, era quello della
piera calda. Si prendeva un mattone, lo si metteva per un certo tempo in forno ad
accumular calore, quindi lo si avvolgeva con un panno e lo si usava come la bottiglia.
Per i “bisogni” notturni, non essendoci i servizi igienici, si usavano i vasi da notte,
volgarmente chiamati bocai da pisso, mentre i francesi, più elegantemente li
chiamavano pot à nuit. Ma alla fine sempre quello era l‟uso!
All‟esterno delle abitazioni in genere si avevano degli ampi cortili, posti se possibile,
dalla parte del sole; c‟era poi un appezzamento di terreno coltivato a orto, dove si
coltivavano svariati tipi di ortaggi. L‟ampiezza dell‟orto e la varietà di ortaggi
coltivati dipendevano dal terreno a disposizione, ma molto anche dalla passione e
competenza di chi lo conduceva. In questo mio padre non aveva rivali, e ancora oggi,
a più di venti anni dalla sua scomparsa, mi capita di incontrare gente che mi dice di
aver appreso regole e piccoli segreti per la buona riuscita della coltivazione degli
ortaggi, proprio da lui. Questa sua grande passione l‟ha in buona parte trasmessa a mio
fratello Orfeo.
Nel retro o in qualche angolo attorno alle abitazioni erano ricavati dei recinti, aventi
all‟interno delle casette di diverse forme e grandezze che servivano da ricovero per gli
animali da cortile, che potevano essere le comuni galline, le anatre, le oche, i tacchini,
le faraone, i conigli. Nel recinto riservato alle galline, detto pùner (pollaio), era
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frequente vedere impiantato un lungo e robusto palo, alto non meno di quattro cinque metri, con sopra uno strano casotto. Era il ricovero per la notte, riservato ai
volatili, che vi s‟inerpicavano mediante una precaria scaletta.
Le galline
tendenzialmente sono portate ad andare a dormire in alto. Deve essere un qualcosa di
istintivo, ereditato nei secoli dai progenitori, che dovevano difendersi dall‟attacco
degli animali predatori. Nel nostro caso i predatori erano rappresentati dai ladri di
galline, abbastanza frequenti nel periodo del dopoguerra. Quando capitava di essere
depredati delle galline il risveglio era ben amaro. Si era perduto di colpo un comodo
sostentamento per la famiglia. In quel malaugurato caso scattava, tra la gente dei
dintorni, una solidarietà che oggigiorno, tra la gente inebriata e resa ottusa dal
progresso, non esiste più. I vicini di casa, in quelle occasioni, si privavano di un
esemplare del loro pollaio per donarlo alla famiglia sfortunata che, in questo modo
ricostituiva, in parte, il proprio patrimonio. Ricordo che quando è capitato alla mia
famiglia, un paio di volte, anche la Gide, dal palazzo, non ha mancato di mandare un
paio di galline per aiutare a ricomporre il pollaio.
Un altro pericolo per i pollai era costituito dalla bea donoea (donnola) e dal martoreo
(martora) che in una sola notte potevano causare la perdita di diversi capi di pollame.
Spesso questi animali erano di transito, ma alle volte si costruivano la tana vicino alle
case, prediligendo, come sito, il terreno sotto il fassiner (legnaia). In quel caso gli
assalti al pollaio si ripetevano e bisognava prendere provvedimenti, che consistevano
nel brusar curame, ossia bruciare dei pezzi di cuoio, che davano luogo alla
formazione di un fumo maleodorante e insopportabile per gli animaletti, che erano
così costretti a sloggiare. Da quest‟usanza, tramandata dall‟esperienza del popolo
contadino, deriva il detto del brusar curame riferito all‟estrema e unica cosa da fare
quando non si riesce a liberarsi di qualche persona appiccicaticcia, che non se ne vuol
andare.
Di solito, dietro le abitazioni, si trovava anche il ricovero del maiale, comunemente
allevato da quasi tutte le famiglie, almeno fino a verso il ‟50. A casa nostra lo stagolo
del porseo era sistemato in un angolo vicino a due alti moreri che assicuravano un po‟
d‟ombra nei mesi di luglio e agosto, quando il sole picchia. Per aumentare il
“comfort” e lo spazio disponibile c‟era un recinto esterno che si trovava proprio sotto i
due alberi menzionati. Oltre a questo, per assicurare un ulteriore riparo dai raggi del
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sole, attorno alla casetta di legno, venivano piantate delle zucche che si arrampicavano
sul tetto e assicuravano una copertura refrigerante. Sono state proprio queste piante,
una certa estate, ad allettare e tradire la simpatica Olga Faggian, come ho già narrato
in precedenza.
La stagione del maiale aveva inizio all‟incirca a Pasqua. In questo periodo mio padre
faceva la sua capatina presso una famiglia di contadini che possedevano una scrofa,
una grossa iuia che aveva messo al mondo una nidiata di porcellini. Arrivato a casa, il
maialino appena acquistato, entrava in possesso della sua casetta e veniva alimentato e
seguito con cura da mia madre che m‟insegnava a cercare e raccogliere determinate
erbe che erano gradite e facevano bene alla bestiola. Pian piano il maialino cresceva,
cresceva e diventava sempre più grosso. A fine estate era già di dimensione
considerevole, aveva imparato a riconoscere le persone e si avvicinava alla recinzione
esterna per accaparrarsi una piacevole grattatina sulla schiena.
Nel mese di dicembre, intorno al Natale, secondo l‟andamento delle temperature,
l‟avventura del povero animale terminava. Nel giorno precedente a quello stabilito per
copar el porseo, vedevi mio padre indaffarato a predisporre il necessario: delle corde,
dei paletti di varie misure, appuntiti, ricavati da rami di acacia accuratamente spellati,
ecc. Mia madre predisponeva el fogon, un focolare ricavato da un fustone metallico,
dismesso dall‟uso di contenitore di liquidi industriali cui era stato tolto il coperchio e
praticati dei fori laterali per farlo diventare un focolare. Quest‟aggeggio artigianale era
molto in uso nelle case rurali e veniva adoperato quando serviva una grande quantità
di acqua calda, ad esempio per fare la “issia” settimanale.
Quando arrivava il fatidico giorno, si faceva vivo el saeader (norcino) impersonato
dallo zio Rino Brognaro, fratello della mamma. A quel punto a me e mia sorella
Maria, i piccoli della famiglia, non restava altro che darcela a gambe levate, il più
lontano possibile per non sentire lo straziante sigar del morituro. Si scappava in
Amministrazione, dietro qualche muro o addirittura sotto il ponte del “Pianton” e si
rimaneva lì, angosciati per un bel po‟. Dopo qualche tempo si ritornava a casa per
vedere il povero animale, appeso a una trave del barco, a testa in giù, con attorno la
gente indaffarata nelle operazioni del caso.
Il giorno dopo era quello dei saeadi (salami). Veniva sistemato, sopra la tavola della
cucina, il grande tavolaccio da far saeadi cui era fissata „a machina per macinare la
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carne. Il maiale aveva passato tutta la notte al fresco, pulito e diviso a metà, a
temperatura ambiente, e si era quasi congelato. Veniva posto sul tavolaccio e diviso in
pezzi. I vari pezzi erano disossati e divisi, secondo le indicazioni del saeader, in
distinti mucchi. Da un lato veniva ammucchiata la carne da saeado più in là quella per
i musetti, poi per i cotechini, per l‟uganega, l‟ossocolo, la pancetta, il lardo, el
pecosso, e via dicendo. Poi ogni singolo mucchio di carne veniva pesato e, allora, tutti
zitti perché lo zio Rino era intento a fare i “conti”, per stabilire quanto sale, quanto
pepe e quante spezie fossero necessarie per i singoli mucchi. Si passava quindi alla
macinatura dei pezzetti di carne per ottenere altrettanti mucchi, stavolta di carne
macinata. Si passava poi a lavorare la carne per miscelare per bene gli ingredienti e
amalgamare il tutto, insistendo a lavorare finché la massa non fosse sufficientemente
“scaldata”, a forza di oio de gomio (olio di gomito). Arrivava quindi il momento di
insaccare il tutto, utilizzando le budella che erano state in precedenza preparate con
ripetuti lavaggi con acqua tiepida e aceto. Alla fine le stanghe, appese attorno alla
cucina economica, si riempivano dei vari salami, sopresse, musetti, ossocoli, pancette,
uganeghe, figadei.
Ogni parte del maiale aveva un suo utilizzo, non veniva scartato niente. Quello che
non era destinato a essere insaccato, o era consumato a breve, come il cuore, il fegato,
i rognoni, oppure era appeso alla nappa (cappa del camino) ad asciugarsi e
affumicarsi. Per diverso tempo rimanevano a ornare il camino le orecchie, la coda, le
zampe e le varie ossa, in attesa di finire nella pignata de teracota a condire la pasta e
fasioi. Una buona asciugatura delle ossa e zampe evitava di ritrovarsi alla fine con
qualche pezzo con sapore da ispio. Altri lavori marginali a questi descritti, erano
quelli di cuocere e sciogliere i residui grassi per ottenere lo strutto, ossia l‟onto, che
era conservato nella vescica del maiale e in vasi di terracotta. Con quest‟operazione si
ottenevano anche le sissoe ossia i gustosi ciccioli. Altra incombenza a carico di mia
madre era di cuocere il sangue del maiale aggiungendo dell‟uvetta, dei fichi secchi
sminuzzati, dello zucchero e non so cos‟altro. Il risultato era un dolce squisito,
conosciuto come baldòn, di color rosso scuro, con una consistenza di crema densa.
Era mantenuto al fresco sul davanzale di una finestra. Ogni tanto si passava a gustarne
una grossa cucchiaiata e devo ammettere che le mie lacrime, versate quando il povero
maiale tirava le cuoia così barbaramente, erano lacrime di coccodrillo. Per coerenza
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avrei dovuto fare come per la carne di cavallo: astenermi! Ma nella mia vita i dolci
hanno sempre vinto, hanno sistematicamente avuto la meglio sulla mia volontà.
Tornando alla descrizione di quanto si trovava normalmente all‟esterno delle
abitazioni occorre notare che attorno alla casa non poteva mancare, in posizione
soleggiata, il fassiner, un deposito di legna da ardere, del tipo leggero, formato da
ramoscelli legati in “fascine”. Oggi è impensabile un utilizzo di tale legname se non
per essere triturato per arricchire terricci o per produrre agglomerati a uso
combustibile, tipo “pellet” o simili. Una volta, invece, i ramoscelli erano
pazientemente tagliati a “misura” utilizzando la cortea e la soca per essere poi usati
nella cucina economica frammisti a legni più grossi. I pezzi di legno più grossi erano
spesso ricavati da enormi soche, le grandi basi interrate degli alberi. Ricordo che
quando l‟azienda Bianchi effettuava abbattimenti di grosse piante, tutto il legname
veniva recuperato e ammassato nell‟apposito deposito, la legnaia, mentre le soche
venivano assegnate gratuitamente ai dipendenti che ne facevano richiesta. E mio
padre, cui il lavoro non faceva paura, non mancava mai di farsi portare a casa, anzi
dietro casa, nei pressi del fassiner, qualche grossa soca che contribuiva a far
rimpinguare la scorta di legna per l‟inverno. Aveva allora inizio il paziente lavoro di
demolizione delle grosse masse legnose, contorte, intrecciate, che andavano
preventivamente studiate, analizzate per trovare i punti da attaccare per primi, i più
vulnerabili. Si usavano dei cunei (penoe) di metallo o di legno duro che erano
conficcati nelle fessure battendo con un grosso maglio (majo). Si completava l‟opera
con taglienti mannaie. Non era certo un lavoro remunerativo, secondo gli attuali
canoni, che tengono conto delle ore/uomo rapportate al valore del ricavato, ma a quei
tempi non c‟erano tanti orologi per far calcoli e alla fine ci si trovava con della legna,
pronta da ardere. Ricordo che nel periodo in cui andavo a scuola a Treviso, nei mesi
invernali facevo questo lavoro come piacevole passatempo, unendo l‟utile al
dilettevole: aiutavo mio padre e facevo esercizi fisici che tonificavano la muscolatura.
Insomma era come fare palestra all‟aperto. Questo poi mi tornava utile in primavera,
quando mi cimentavo nelle gare sportive in cui era richiesta una buona “spallata”,
come nel lancio del disco o del peso, dove primeggiavo.
Parlando delle condizioni di vita nel periodo del dopoguerra occorre parlare un po‟
del vestiario. E‟ questo un punto dolente della situazione di quei tempi. Se per quanto
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riguarda il mangiare, tutto sommato, soprattutto per chi viveva nell‟area di un‟azienda
agricola, non si può parlare di fame, per il vestiario invece, anche se può apparire
improprio, si dovrebbe parlare di una sorta di “fame” diffusa. A quel tempo vedevi in
giro ancora dei cappotti ricavati dalle coperte militari, acquistate a fine guerra dai
soldati inglesi. Vedevi dei vestiti voltati e rivoltati più volte per creare l‟illusione che
si cambiava qualcosa. Le toppe sui pantaloni non erano frutto di un capriccio della
moda, ma una necessità, per non restare con le natiche o le ginocchia al vento. Per il
vestiario la mia famiglia aveva un piccolo vantaggio: lo zio Gildo (Ermenegildo), che
era un fratello di mia madre. Questo sfortunato zio, da giovane, era stato colpito dalla
poliomelite, che lo aveva reso zoppicante e inadatto ai lavori nei campi della famiglia.
Si era quindi adattato a fare el sartor ed esercitava la professione nella vecchia casa
paterna. Era lui che ci confezionava e rivoltava i vestiti, come esigeva la situazione del
momento, naturalmente a prezzi favorevoli. Per il vestiario ricorrere al sartor era
l‟unica soluzione, almeno per lavori di una certa importanza. A quel tempo Piero
Cardin era un semplice giovane sarto nato nella provincia di Treviso, che non
immaginava certo di diventare un giorno il famoso stilista Pierre Cardin: era ancora
ben lontana l‟era del Prét-à-porter!
A quel tempo i ragazzi andavano a piedi scalzi da aprile a ottobre e solo per andare a
scuola o alle funzioni religiose indossavano degli zoccoletti, con i tacchi “ferrati”
perché durassero di più. Durante i mesi invernali usavano portare le gaeosse (galosce)
anch‟esse con la suola di legno e ben ferrate. Questo, per il bene dei genitori
assicurava una maggiore durata, mentre per la soddisfazione dei ragazzi, permetteva
delle veloci pattinate sulle grosse lastre di ghiaccio che si formavano allora nei fossati.
Come dire: unire l‟utile al dilettevole.
LA GUERRA
Quando ebbe inizio il conflitto mondiale, avevo tre anni, quando finì ne avevo otto.
Conservo pochi ricordi del primo periodo, ma degli ultimi due - tre anni ne ho molti,
ben nitidi. Per noi ragazzi la guerra aveva un significato meno drammatico di quanto
non lo fosse per gli adulti, coscienti dei pericoli immediati e della insicurezza del
futuro. Si percepiva vagamente il dramma dei genitori angosciati dal fatto di avere
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figli in guerra, lontani, senza notizie certe, forse dispersi, forse prigionieri. Anch‟io
avevo il fratello maggiore, Orfeo, sotto le armi, marinaio imbarcato su navi da guerra
coinvolte drammaticamente nel conflitto. Vedevo spesso la mamma pregare davanti
all‟immagine di una madonna, ma non comprendevo appieno il suo intimo dramma.
Per me era l‟età dei giochi e facevo presto a distogliermi da quell‟atmosfera.
Le cose cambiarono dopo l‟otto settembre 1943 quando i nostri territori furono
occupati dai tedeschi e anche le nostre contrade furono teatro di guerra. La villa della
baronessa Bianchi divenne sede di un importante comando tedesco. Alla proprietaria
fu lasciato un solo angolo del palazzo, il resto fu utilizzato come alloggio per gli
ufficiali e graduati. Completamente mimetizzati nel bosco della villa, erano sistemati
la cucina, l‟officina, gli automezzi e le tende per la truppa. A sud della villa, appena di
là dalla via Bianchi, nei campi coltivati dai Biasetto, era piazzata una batteria
contraerea, con mitragliere di medio calibro, sistemate in buche, il tutto perfettamente
mimetizzato. A casa conservo ancora un bossolo di un proiettile sparato da una di
quelle armi. Un‟altra postazione, di tipo mobile, con una mitragliera montata su un
camion, era solita appostarsi presso l‟incrocio di via Bonotto, all‟altezza della vecchia
casa dei Gobbo. I due soldati tedeschi addetti a questa postazione si chiamavano Ulli e
This e avevano socializzato con la gente del posto. Sono in grado di descrivere queste
cose perché noi ragazzini, nella nostra incoscienza e curiosità, andavamo dappertutto.
Ricordo che andavamo tranquillamente nella grande cucina da campo dei soldati
tedeschi, sistemata nel bosco della villa, nel lato vicino all‟orto. Gli addetti al “rancio”
erano dei giovani soldati austriaci, per niente presi dallo spirito guerriero di Hitler: si
capiva che loro avrebbero preferito non indossare la divisa e passare il loro tempo a
lavorare i campi, nella loro terra. Ci accoglievano con simpatia e non mancavano mai
di darci qualcosa da mangiare. Ricordo quanto fossero gustosi gli ossicini pieni di
carne, fumanti, appena estratti dal pentolone per il brodo. Naturalmente lo spirito
bonario di quei soldati semplici non era comune tra gli alti ufficiali, ma occorre dire
che il comando installato nella villa Bianchi non ha mai dato segni di comportamenti
odiosi, simili a quelli verificatesi in altri territori. Ci sono stati invece, degli episodi in
cui il comando tedesco è intervenuto per sedare lo spirito bellicoso di reparti fascisti,
in procinto di compiere sanguinose rappresaglie. Basta ricordare il fatto accaduto
davanti alla chiesa di Zerman, dove, un certo giorno, dei reparti fascisti avevano
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ammassato un nutrito gruppo di paesani con il proposito di fucilarli, per rappresaglia.
L‟intervento del comando tedesco della villa Bianchi dissuase la squadra armata e
salvò la vita dei malcapitati. Il comportamento del comandante tedesco può essere
stato dettato dalle sue convinzioni sul conflitto in atto, ma anche da probabili scambi
di opinioni con la baronessa Federica, che aveva come lingua madre il tedesco.
Tanti sono i fatti, gli episodi, anche drammatici, che ricordo di quei tempi. Il primo
in ordine di tempo si riferisce a quando frequentavo la prima elementare, nell‟anno
scolastico 1943 - 1944. In quel periodo mi recavo a scuola accompagnato da mia
sorella Rina, che all‟epoca aveva quindici anni. Un giorno, mentre si procedeva lungo
il Terraglio verso il centro del paese, quando fummo
prossimi al fiume Zero
incominciò a suonare la sirena di allarme aereo. Poco dopo sentimmo, molto vicini,
alcuni boati, seguiti da un grande spostamento d‟aria e da numerosi sassi e oggetti che
volavano per aria. Mia sorella mi afferrò per mano e insieme ci riparammo sotto il
ponte dell‟ingresso della villa Berizzi, che si trova di fronte alla casa Valerio. Quella
volta, un aereo alleato aveva cercato di colpire il ponte della ferrovia sul fiume Zero,
ma aveva sbagliato bersaglio centrando un punto più vicino al Terraglio. Dopo quel
giorno, per recarmi a scuola, effettuavo un percorso più lungo, per stradine in mezzo
ai campi. Il Terraglio era diventato pericoloso e a volte era oggetto di mitragliamenti
da parte di aerei alleati. In uno di questi perse la vita la mamma di un nostro
amichetto, un certo Tito che era venuto da sfollato, proveniente da Padova, e aveva
abitato in un‟ala, quella a ovest, della casa dei Bonotto. La povera donna che
viaggiava con la filovia, rimase morta nel suo sedile, trapassata da un proiettile. Il
fatto avvenne sul Terraglio, in prossimità del fiume Zero. Quando si dice sfortuna! La
poveretta si era trasferita in un territorio ritenuto meno pericoloso, per proteggere se
stessa e il figlioletto, ma il destino attua le sue trame e colpisce ovunque. In quel
periodo altre persone erano sfollate nel nostro territorio. A casa nostra veniva a
dormire una cugina di mio padre, Giuseppina (Pineta) Favaro che abitava nella casetta
proprio vicino alla villa Bianchi, appena di là del Terraglio. Tra gli sfollati c‟era anche
la famiglia del mio compagno di scuola Pierluigi (Pelo) Vian, che abitava in una casa
vicino alla stazione ferroviaria ed era andata ad alloggiare nella casa del nonno
Alessandro Brugnaro, dove, nell‟ampio granaio, era stato ricavato un alloggio di
fortuna. Altro sfollato, sistemato nella casa dei Bonotto, era Guglielmo Pavanello
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(Gelmeto), un ragazzino di piccola statura, della mia età, molto vivace, che una ne
pensava e cento ne faceva, ….di marachelle!
E‟ di quel periodo la costruzione di un rifugio antiaereo per le famiglie che abitavano
nei dintorni dell‟area dei cavai. Nelle vicinanze del boschetto di acacie, che si trovava
dietro l‟area dei bò, fu scavata una galleria profonda circa due metri e mezzo, larga
circa uno e mezzo e con un andamento tale da formare una M, iniziale della Madonna,
sotto la cui protezione la gente si considerava. Il tutto fu ricoperto da grosse travi e da
una grande quantità di terra che veniva così a formare una specie di montagnola a
forma di M. Sopra la terra erano state poste delle piante in modo da mimetizzare il
tutto. Il rifugio serviva soprattutto per quando c‟erano le incursioni di “Pippo”, un
aereo che volava a fari spenti, normalmente verso mezzanotte, sganciando manifestini
di propaganda, ma anche bombe alla ricerca di obiettivi strategici. Ne sapeva qualcosa
la famiglia Pezzato, che abitava appena oltre il Terraglio, dove poi si insediò la ditta
“NIGI”, di fronte alla “rampa” che immette la via Bianchi sul Terraglio. Quella notte,
per fortuna non ci furono vittime, ma la casa fu colpita e si dovette abbatterla. In quel
periodo le luci di casa dovevano rimanere spente per non attirare l‟attenzione di
“Pippo” e, quando si andava a letto, non si era mai tranquilli. Da un momento all‟altro
poteva suonare la sirena di allarme, e allora via, giù dal letto, un cappotto addosso e di
corsa tutti al rifugio. Ricordo che una notte mia madre, che portava mia sorella Maria
avvolta in un piumone, perse nel tragitto la piccolina, che allora aveva tre anni, e si
ritrovò al rifugio col solo morbido involucro. Per fortuna il tragitto era sempre lo
stesso e la mamma non dovette cercare molto, nonostante il buio, per ristabilire le
cose, rimettendo la sorellina nella sua calda còlsara.
Un altro episodio di quei tempi, che non potrò dimenticare, riguarda il
bombardamento della città di Treviso. Era un venerdì santo e stavamo andando, con la
mamma, verso la chiesa di Mogliano per le funzioni religiose. Si era preso lo stradone
in mezzo ai campi che iniziava di fronte alle case dai cavai e ci si trovava alla fine del
tratto rettilineo, all‟altezza della villa Boldini, in procinto di girare a sinistra e
attraversare i terreni posti tra le proprietà Zoggia e Pistolato, per arrivare nella via che
ora si chiama Cavalleggeri. A quel punto un sordo ronzio, sempre più forte e sempre
più vicino, incominciò a riempire l‟aria finché divenne assordante. Il cielo incominciò
a saturarsi di sagome di grossi aerei che transitavano incessantemente ad altissima
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quota, verso Nord. Poi incominciò il frastuono delle esplosioni, un susseguirsi
incessante di tuoni, di fragori: sembrava un terremoto, laggiù in direzione Nord, verso
Treviso. Restammo fermi per diverso tempo con lo sguardo per un po‟ rivolto in alto,
verso il cielo, a guardare allibiti quell‟incessante massiccio transito di fortezze volanti
e un po‟ verso l‟orizzonte a Nord, per guardare il riverbero degli scoppi, delle
interminabili esplosioni. Alla fine riprendemmo il cammino verso la chiesa, con
l‟angoscia nel cuore e consapevoli che qualcosa di terribile era accaduto.
Qualche sera capitava di assistere agli interventi della contraerea che sparava con
proiettili traccianti per cercare di colpire il fantomatico “Pippo” che girava in cielo
come un fantasma, nelle notti senza luna e a luci spente. Sembrava uno spettacolo
pirotecnico, ma l‟atmosfera era tutt‟altro che da festa.
Qualche volta capitava di vedere aerei alleati, in picchiata, intenti a mitragliare la
ferrovia. Una volta ho potuto osservare, dalla finestra della mia camera, due “Spitfire”
in picchiata intenti a mitragliare il passaggio a livello di Campocroce. C‟erano
condizioni di luce favorevoli e sono riuscito a distinguere anche le scie dei proiettili.
Intanto la situazione si faceva sempre più tesa, si sentivano voci di scontri tra fazioni
fasciste e partigiane, si sentiva parlare di rastrellamenti, di deportazioni. Anche tra i
ragazzi si diffondeva l‟ansia per la guerriglia in atto. A casa nostra le cose si facevano
sempre più preoccupanti perché era da moltissimo tempo che non giungevano notizie
di mio fratello Orfeo e in quella situazione ogni giorno che passava, aggravava la
situazione, mentre le soste di mia madre davanti all‟immagine della Madonna
diventavano sempre più frequenti e trepidanti. Finché un giorno arrivò nel cortile di
casa nostra un uomo in bicicletta, che chiese della nostra famiglia. Disse subito che
aveva buone notizie di Orfeo. Immaginarsi il sollievo, la gioia dei miei genitori! Fu
fatto entrare in casa, ristorato e invitato a raccontare. Disse che abitava vicino a
Conegliano, che era un radioamatore e che aveva ascoltato un messaggio da una
stazione radio della Croce Rossa. In quel messaggio Orfeo aveva potuto trasmettere le
sue generalità, comunicare che stava bene e pregava di avvisare la famiglia. L‟uomo
in bicicletta era venuto da così lontano e aveva ridato la vita alla mia famiglia, aveva
dato fine a un incubo. Lo facemmo sostare a pranzo con noi, si riposò ancora un poco
e poi se ne ritornò, con la sua vecchia bicicletta, dalle parti da cui era venuto.
Intanto incominciavano i razionamenti di generi alimentari, mancava il sale. Anche
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in questa situazione vivere nel contesto dell‟Amministrazione agricola garantiva una
condizione di privilegio. C‟era la possibilità di allevare diversi animali, quindi si
poteva disporre di uova, di carne di maiale, di gallina, anatra, oca, coniglio. Era invece
più difficile trovare carne bovina, ma anche in questo si aveva l‟aiuto dalla “casa
madre”. In quel periodo capitava che, di tanto in tanto, qualche vitello si azzoppasse.
Allora il buon Toni Candeù doveva provvedere a macellare la povera bestia e ricavare
dei pezzi di carne da distribuire, secondo la ripartizione prevista per il vin bon, ossia,
prima veniva il “palazzo”, poi el sior Sartori, el sior Spizzotin, el sior Peschiuta, el
paroco de Zerman, de Mojan e di Sambughè. Alla fine, se il vitello era piccolo, alla
mia famiglia non restava che qualche frattaglia. Ma, non bisogna dimenticare, che la
moglie di Toni Candeù, conosciuta come Melia Cicara era la madrina, cioè santoea,
di una mia sorella. Quindi, il buon Toni era compare dei miei genitori e santoeo di
tutti noi fratelli. E così quando mio padre passava a prendere el so scartosso de carne,
la graduatoria per la distribuzione dei pezzi era stata modificata: la nostra famiglia
aveva guadagnato posizioni e poteva godersi qualche buon pezzo di carne pregiata.
Per il sale era stato escogitato uno stratagemma semplice. Il latte Bianchi era sempre
recapitato a Venezia, anche durante la guerra, con i tipici vasi di alluminio. Nel
viaggio di ritorno i grossi contenitori, anziché tornare vuoti, rientravano pieni di acqua
di mare, recuperata in laguna. Una volta arrivata alla Centrale del latte, quest‟acqua
era versata in un pentolone in cui era immersa una serpentina di vapore, fornito dalla
caldaia. Il vapore provocava l‟evaporazione e la formazione di un residuo salino
solido. Non aveva proprio l‟aspetto dei bei cristalli di sale ricavati dalle saline, ma in
cucina faceva la stessa funzione. Per il pane si provvedeva con la farina che si
otteneva andando a macinare la quota di frumento assegnata dall‟azienda Bianchi ai
dipendenti. Si andava a confezionare il pane e a cuocerlo in qualche casa provvista dei
tradizionali forni di pietra, tipo quello che c‟era presso la casa dei Ferraro, o dei
Pavan, che si trovava poco oltre il Terraglio, accanto al “Pianton”. Si ricavava un
sacchetto di pane biscotto che durava anche un mese. Del resto, a quel tempo, era la
polenta, la regina della tavola e il pane era usato saltuariamente.
Nelle città il problema del mangiare era più assillante. A quel tempo avevo una zia
che viveva a Venezia. Era la zia Maria, sorella di mio padre e madre di Lauretta
Masiero che in seguito sarebbe diventata attrice di teatro di cinema e di televisione.
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Ricordo che la zia Maria veniva varie domeniche col marito, lo zio Giulio, a casa
nostra per salutarci, ma anche per trovare generi alimentari introvabili a Venezia. In
quel periodo la cugina Lauretta passò una settimana a casa nostra: aveva sedici anni e
si divertiva a raccontare storie, a me e mia sorella, per attirare l‟attenzione e tenerci
buoni. Non aveva ancora fatto scuole di recitazione, ma riusciva bene nel suo intento:
evidentemente aveva della stoffa.
E venne finalmente il giorno del ritiro delle truppe tedesche dalle nostre zone. Il
comando di stanza a villa Bianchi pattuì una sorta di compromesso con le autorità dei
partigiani per un esodo pacifico, senza spargimenti di sangue. Tuttavia il ritiro fu
piuttosto frettoloso e i soldati non si attardarono a recuperare gran parte di quanto
avevano all‟interno del bosco adiacente la villa. Fu abbandonato materiale della
cucina da campo e quasi tutta l‟attrezzatura dell‟officina meccanica. Al momento della
partenza la colonna era chiusa da una camionetta con una mitragliera piazzata e pronta
a sparare. Da quella camionetta, una volta raggiunta la rampa che immette sul
Terraglio, partirono alcune raffiche di mitraglia indirizzate lungo la via Bianchi verso
l‟alto e che colpirono la parte alta dei rami di alcune pioppe. Era evidentemente un
segnale intimidatorio per scoraggiare qualche isolato partigiano dal fare qualche gesto
ostile. Le raffiche furono udite distintamente fino a casa nostra. Seguì un lungo
silenzio, pieno di tensione. Un paio d‟ore dopo, mentre ero sotto il porticato di casa,
assieme a mio padre, arrivò di gran corsa, in bicicletta, un uomo con un fucile a
tracolla e un grande fazzoletto rosso al collo. Lo vidi quando era ancora lontano e mi
spaventai non poco. Si diresse verso mio padre, che dimostrava di non essere
preoccupato, e gli si fermò accanto, scambiando due chiacchiere. Si trattava di Angelo
Perazza, marito di una cugina di mio padre. Era venuto a comunicare, tutto euforico,
che finalmente, “quei maledetti” erano scappati. Tirai un gran sospiro di sollievo.
Dopo la partenza dei tedeschi cominciarono ad arrivare gli alleati. Nella nostra
borgata s‟insediarono diversi accampamenti di soldati. L‟area che una volta ospitava
l‟ippodromo della villa fu completamente occupata da un insediamento di soldati
inglesi che disposero lungo tutto il perimetro, una serie di tende monoposto. Al centro
dell‟area erano disposte delle tende più grandi e un deposito di camion.
Un altro accampamento inglese si dispose in due campi accanto alla casa dei Polon.
Nel primo campo, accanto alla strada, erano sistemate tutte tende singole, nel secondo
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campo erano sistemate le cucine, un campetto da pallacanestro e altri spazi per attività
sportive.
Dietro il gruppo di abitazioni poste attorno ai cavai era sistemato un altro piccolo
gruppo di soldati inglesi. Poco più lontano, accanto al boschetto posto dietro alla stalla
dei buoi, nel campetto dove era stato realizzato il nostro rifugio antiaereo, era stato
sistemato un insediamento di soldati americani, tutti di colore.
Per ultimo, un insediamento di soldati polacchi era stato realizzato a nord
dell‟Amministrazione, appena oltre il recinto della stessa.
Naturalmente ora il clima era più disteso, i soldati erano visti con occhio diverso e
s‟instaurarono rapporti di convivenza pacifici. Per noi ragazzi era una manna,
avevamo libero accesso ai vari campi per soddisfare la nostra curiosità.
Nell‟insediamento dei terreni coltivati dai Polon io e l‟inseparabile Gioanin avevamo
fraternizzato con alcuni soldati inglesi che ci incaricavano di andare in cucina a
ritirare la loro tazza di tè in cambio di una tavoletta di cioccolato. Com‟è noto, gli
inglesi, verso le cinque del pomeriggio hanno per tradizione l‟abitudine, quasi un rito,
di prendere il tè, magari accompagnato da qualche biscottino. Allora, tutti i giorni, si
passava davanti alle tendine dei soldati per vedere se qualcuno aveva bisogno del
“cameriere” per prendere la classica bevanda calda. Io avevo un cliente fisso,
chiamato “Tafi”, Gioanin aveva il soldato della tenda accanto. Spesse volte facevamo
più di un giro, con entrambe le mani occupate perché si aggiungevano altri clienti, e
così aumentava la scorta di cioccolato nelle nostre tasche. “Tafi” era un biondino,
giovane e mingherlino, con un viso che somigliava a quello dell‟attore francese Jean
Paul Belmondo. Era uno sfaccendato, giocherellone. Spesse volte, quando si passava
per prendere il tè, era disteso sulla brandina intento a leggere e non faceva nemmeno
la fatica di passarmi la tazza, mi faceva solo cenno di prenderla. Al ritorno con la
tazza di tè era la stessa cosa, mi faceva cenno di appoggiarla e di prendermi la razione
di cioccolata, quindi mi salutava con una strizzatina d‟occhio e riprendeva a leggere.
Una volta l‟amico “Tafi” mi ha fatto prendere uno spavento da morire. Quel giorno
nell‟accampamento inglese avevano allestito un ring per un torneo di boxe.
Naturalmente io e Gioanin eravamo tra il pubblico, in prima fila, a bordo ring. Dopo
due o tre incontri salì sul ring nientemeno che il mio amico “Tafi” contro un pugile di
colore. Dovevano essere due pesi piuma, o al massimo leggeri. Rimasi sorpreso
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perché il mio amico inglese non mi aveva detto niente. Incominciò l‟incontro e per
almeno un minuto il negretto rimase inchiodato a centro ring, con un braccio disteso e
con l‟altro guantone appoggiato al mento per proteggersi. Il mio amico bianco, proprio
bianco come solo gli inglesi possono essere, saltellava tutt‟intorno come una
cavalletta, agile, in scioltezza, e continuava a punzecchiare con un guantone il viso
dell‟avversario, che continuava a rimanere immobile, con gli occhi socchiusi.
Sembravano il gatto e il topo. Il negro sembrava il topo, fermo, impaurito, mentre
“Tafi” sembrava essere il gatto che allunga la zampetta per giocare. Sembrava proprio
così, ….. sembrava! Ma all‟improvviso, con la velocità di un lampo, il guantone del
negretto lasciò la posizione di difesa e partì, dirompente, verso il mento
dell‟avversario, che parve colpito da un fulmine e stramazzò, andando a finire lungo
disteso, come morto. Mi spaventai da non dire, mi prese un groppo alla gola e fui
tentato di salire sul ring per soccorrere l‟amico che sembrava proprio morto. Gli
addetti ai lavori la pensarono diversamente, l‟arbitro contò fino a dieci e assegnò la
vittoria al pugile di colore, che tolse immediatamente il disturbo. Il “manager” di
“Tafi” solo allora s‟inginocchiò accanto al protetto e gli sussurrò qualcosa. Il
malcapitato aperse gli occhi, sollevò un po‟ il capo per vedere intorno e, costatato che
era vero che il negretto non c‟era più, si raddrizzò. Si tolse i guantoni e andò in mezzo
a un gruppo di amici che lo canzonavano, ma lui aperse il palmo della mano e fece il
giro degli amici ritirando delle monete. Solo più tardi, ripensandoci ho immaginato
com‟erano andati i fatti. Al momento non riuscivo a capire come mai “ Tafi”, pur
avendo perso l‟incontro, si fosse fatto consegnare dei soldi. Evidentemente egli aveva
scommesso che avrebbe avuto il coraggio di affrontare uno così forte, sicuramente un
pugile di professione. E l‟ha fatto, quel figlio di buona donna, facendomi morire di
spavento. Ma è rimasto lo stesso un caro amico.
Un altro soldato inglese che non potrò mai dimenticare è Joseph, Giuseppe, che a
differenza di “Tafi” era con i capelli scuri e meno giovane. Di lineamenti somigliava
all‟attore Joseph Cotten.
Giuseppe faceva l‟autista e veniva spesso a casa nostra per farsi lavare e stirare delle
camicie. In cambio pagava con qualche moneta, ma anche con lattine di foglie di tè,
atte a preparare la classica bevanda. Mostrava sempre ai miei genitori la foto di sua
moglie e di un figlioletto che, secondo lui, somigliava molto a me. A casa mia
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conservo ancora una foto in cui sono ritratto accanto al mio amichetto Gioanin,
scattata a quei tempi dal buon Giuseppe. Quando doveva fare qualche viaggio col suo
Dodget, passava per casa a prendermi, assieme a Gioanin, per portarci in sua
compagnia. In quelle occasioni ci si sedeva entrambi accanto all‟autista e ci pareva di
essere i padroni del mondo. Quando combinavo qualche marachella, chiedevo scusa a
Giuseppe che, ogni volta, bonariamente mi rassicurava dicendo: - “sa – fe – rian “-. Io
intuivo il significato della sua frase, e credevo fosse un modo di dire all‟inglese. Più
tardi, a scuola, ho saputo che quella è una frase francese per dire: fa niente, non
importa. Naturalmente in francese non si scrive come si pronuncia, ma: ça fait rien.
Il gruppo di soldati americani, tutti di colore, che era sistemato vicino al
“boschetto”, era noto perché regalava stecche di cioccolato come fossero caramelle,
senza chiedere niente in cambio. Bastava passare nelle vicinanze e loro ti offrivano
quelle tavolette a bizzeffe. Immaginarsi che manna per noi ragazzi. Mia madre non
voleva che noi si andasse da quei soldati di colore, perché pensava che i negri non si
lavassero mai: aveva paura che fossero così scuri perché sporchi. Ciononostante ho
fatto di quelle scorpacciate di cioccolato da causare una stitichezza mai più
riscontrata, nella mia lunga vita. Sono stato per giorni incapace di liberarmi di quel
micidiale tappo che si era formato in corpo. Di sicuro avrò avuto anche la febbre ma
guai a dirlo alla mamma, sarebbe andata a finire con la solita onsa ( oncia ) di olio di
ricino. Alla fine ho risolto il problema, non senza lacrime, dopodiché ho imparato a
dosare le scorpacciate di cioccolato.
Nell‟accampamento dei soldati polacchi si andava solo all‟esterno per procurarci
scorte di pallottole da vuotare per ricavare della polvere da sparo, che ci “serviva” per
spargerla per terra e formare dei ghirigori e disegni vari. Alla fine, con un fiammifero,
s‟incendiava un capo del percorso e si assisteva allo scorrere della fumante fiammella.
Del periodo riguardante la permanenza delle truppe alleate, ricordo due fatti
drammatici. Nel primo un soldato inglese, alla guida di un camion, di quelli con il
muso tronco, come un cane bull-dog, finì dritto nel profondo fossato che affianca il
Terraglio, qualche metro prima dell‟imbocco di via Bianchi. Morì sul colpo
schiacciato dal volante. Quel ricordo mi è rimasto indelebile perché ho visto la scena
agghiacciante del giovane ancora al suo posto di guida, prima dell‟intervento dei
soccorsi. Un altro fatto tragico, che ebbe risonanza, fu quello del soldato inglese che si
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uccise nella sua tenda con un colpo di pistola in bocca. Era tra quelli sistemati nel
recinto dell‟ippodromo ed era stato scoperto a rubare coperte dal deposito militare.
Durante il periodo di permanenza degli alleati venne da questi eseguita una
disinfestazione selvaggia mediante il micidiale e innovativo DDT, un insetticida a
effetto devastante. Una volta partiti i soldati rimase una grande scorta di tale
insetticida, che fu ancora venduto e usato fino agli anni cinquanta. Si trovava in
vendita dappertutto, persino nei negozietti di generi alimentari, con le apposite
macchinette per spruzzarlo. Poi si venne a sapere della pericolosità e
dell‟inquinamento che provocava e ne fu vietato l‟uso.
Durante la permanenza degli alleati la gente dei nostri borghi imparò a conoscere il
tè e la carne in scatola, che erano usati dai soldati come merce di scambio.
LA RELIGIOSITÀ, IL ROSARIO.
Nel periodo storico intorno alla guerra e fino a dopo il „50, la religiosità era molto
sentita. Le funzioni religiose nelle varie chiese erano molto seguite e svolte con
solennità dai sacerdoti che usavano abiti e portamenti molto severi. Alla domenica,
oltre alle messe celebrate nella mattinata, c‟era una funzione pomeridiana con la
partecipazione di tutti i sacerdoti disponibili. Era il cosiddetto vespero, una cerimonia
interminabile, tutta recitata in latino, con varie litanie, con abbondante diffusione di
fumo d‟incenso, e, soprattutto, con prediche lunghe e memorabili, fatte con grande
foga dal parroco monsignor Luigi Fedalto, conosciuto dai meno bigoti (fedeli assidui)
come Gigio paeanca per la sua perspicacia nel sollecitare elemosine per la sua chiesa.
In determinati periodi dell‟anno, ad esempio durante l‟avvento, erano chiamati a
tenere memorabili prediche, dei predicatori di professione, dei sacerdoti esterni, dei
frati o dei missionari particolarmente abili nell‟arte oratoria. La funzione del vespero
non era particolarmente gradita da noi ragazzi ma guai a “far la manca”: c‟era sempre
qualche buona donna che lo andava a rimarcare alla mamma o al cappellano del
momento.
Rilevanti cerimonie annuali di quei tempi erano le Rogazioni. La parola “rogazione”
deriva dal latino ”rogare” che significa chiedere. Con queste cerimonie i fedeli
imploravano il Signore di preservarli da disgrazie quali le grandinate o le malattie
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epidemiche. Queste funzioni religiose si svolgevano il lunedì, martedì e mercoledì che
precedevano l‟Assunzione, quindi circa quaranta giorni dopo la Pasqua. In ognuna di
queste tre mattinate le funzioni avevano inizio molto presto (addirittura alle quattro!),
nella chiesa di S. Maria Assunta, unica esistente a quel tempo a Mogliano. Partendo
dall‟altare il parroco dava inizio alle litanie e quindi alla processione, che si snodava
in tre determinati percorsi in modo da toccare tutti i punti del territorio parrocchiale. Il
sacerdote era accompagnato dai chierichetti, dai cantori e da altri fedeli che
procedevano alternandosi al prete nel cantare le invocazioni in latino. La processione
era chiusa dal sacrestano che trainava un carrettino in cui erano deposte le offerte
quali uova, salumi e prodotti della terra, donati dagli abitanti dei vari luoghi. Durante
il tragitto era un susseguirsi d‟invocazioni che terminavano con “ Te rogamus
Domine” o “libera nos Domine” e così via. La processione faceva sosta nei vari
crocicchi, dove esistevano più abitazioni o dove era presente un capitello. Durante la
sosta venivano recitate le preghiere con gli abitanti del luogo. Alla fine il prete
benediceva le croci e il territorio: quindi la gente del posto porgeva i propri doni e la
processione ripartiva. Il corteo faceva sosta anche nelle chiesette/oratorio delle varie
ville. In almeno una di queste era cantata la messa.
Di solito la prima rogazione passava per via Bianchi, quindi per via Bonotto, via
Vanzo e così via fino ad arrivare all‟istituto Gris per poi rientrare nella parrocchiale.
Nella chiesetta di villa Bianchi veniva cantata la messa, intorno alle ore cinque. Poi la
processione
passava
all‟interno
dell‟Amministrazione
Bianchi
per
ritornare
nell‟omonima via e compiere la consueta sosta nel crocicchio del complesso “ dai
cavai”. Qui le signorine Sartori preparavano un tavolino del loro “tinello” ricoperto da
una linda e pregiata tovaglia con sopra un‟immagine della Madonna e dei candelabri.
Attorno a questo " altarino “, cosparso tutt‟intorno di fiori, si radunava il prete con
tutti i fedeli, per le preghiere.
Mio padre, già dalla sera prima, aveva preparato un buon numero di croci ricavate da
rametti di salice ben spellati in modo da apparire quasi bianchi. Alla fine delle
preghiere il prete benediceva queste croci che poi erano poste nel limitare dei campi e
nei luoghi da proteggere, ad esempio accanto all‟ingresso delle case con qualche
immagine sacra.
Di queste cerimonie ricordo la sveglia prematura, le sollecitazioni che mia madre
107
doveva fare per tirarmi su dal letto: - dai su, che ghe xe „e rogassion! -. Ricordo che la
mia partecipazione a quelle preghiere, effettuate così di buon‟ora, non era proprio
entusiastica, trattenevo qualche mugugno di protesta dentro la gola per non far
dispiacere a mia madre. Quando poi, durante l‟anno, capitava qualche grandinata da
far paura, mi veniva il sospetto (e quindi il rimorso) che Nostro Signore anziché
ascoltare le invocazioni dei fedeli avesse sentito le mie mute imprecazioni.
Altro significativo esempio della religiosità di quei tempi era la recita del rosario
(fioreto), soprattutto nel mese di Maggio, dedicato alla Madonna. Nella nostra borgata
questa tradizionale usanza religiosa era svolta, per tutta la gioventù del territorio fino
al 1943, nella chiesetta della villa Bianchi ed era condotta dalla siora Olga, un‟anziana
e pia donna che abitava nel palazzo, come ho già detto in precedenza. Di questo
periodo di recita del rosario non ho ricordi, ero troppo piccolo, e riguarda i giovani di
uno o due lustri precedenti il mio.
Dal ‟43 in poi, visto che la villa era stata occupata dai soldati tedeschi, la recita del
rosario è stata spostata nel cortile dei cavai, nel lato retrostante la casa dei Sartori, ed
era condotta dalla signorina Maria Sartori, coadiuvata dalle sorelle Rina ed Egle. Di
questo rituale, durato per anni, ho un ricordo ancora nitido. Ricordo che un po‟ prima
dell‟ora stabilita incominciava a radunarsi il gruppo di ragazze e ragazzi. Le ragazze
erano molto più numerose, perché ho già evidenziato, della netta prevalenza di
femmine nella popolazione giovane della borgata, e anche perché i maschi erano
meno propensi alle funzioni di quel tipo. L‟attesa dell‟inizio del rosario era
l‟occasione per fare qualche gioco di gruppo, tipo il salto della corda, lo scalon,
darsea e torsea, ecc. Alla fine arrivava il momento, sempre puntuale, dell‟apertura del
cancelletto posto dietro casa delle signorine Sartori. I ragazzi allora smettevano i
giochi e si raggruppavano attorno alla signorina Maria e iniziavano la recita della
tradizionale preghiera in latino. Terminato il rituale ricominciavano i giochi in
precedenza interrotti. Per i ragazzi il raduno del mese di Maggio era sì un doveroso
momento di preghiera, ma anche un‟occasione d‟incontro, di socializzazione e di
giochi, svolti in piacevole compagnia, nel grande cortile dei cavai.
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I GIOCHI DEI RAGAZZI
Nel periodo storico considerato i giochi dei ragazzi erano semplici e tramandati da
generazione in generazione. Non erano supportati da tecnologie particolari e
dall‟elettronica, che ora, la fa da padrona anche in quel campo. C‟erano dei giochi
prevalentemente per le femmine, altri per i maschi e altri ancora praticati da entrambi i
sessi. Gli spazi utilizzati dai ragazzi non erano campi attrezzati, piscine, palestre;
erano semplicemente i cortili di casa, le strade prive di traffico, qualche crocicchio
(per aver più spazio), il cortile dell‟osteria Bonotto e via dicendo. Era in uso, per
esempio, il salto della corda che consisteva nell‟iniziare con due partecipanti, estratti a
sorte, che dovevano prendere gli estremi della stessa, disporsi a una certa distanza per
mantenerne la giusta distensione ed iniziare a farla ruotare, ritmicamente. I
partecipanti entravano in gioco mettendosi a saltare la corda sempre azionata dai due
incaricati, e, continuando in sincronia, finché uno dei saltatori non incocciava
sull‟attrezzo, interrompendone la rotazione. A quel punto il “colpevole” occupava il
posto di uno dei due addetti ad azionare la corda e il gioco continuava.
Altro gioco di gruppo, prevalentemente usato dalle femmine, era il gioco dello
scalon. Si doveva tracciare per terra, con un bastone appuntito o con un sasso, un
grande reticolato a forma rettangolare con all‟interno vari quadrati. Il gioco consisteva
nell‟effettuare tutto il percorso all‟interno dell‟area, saltando da una casella all‟altra,
su un solo piede, senza toccare le righe divisorie. Ad ogni errore si ricominciava da
capo.
Un altro gioco molto in uso era il darsea e torsea. Tra un gruppo di partecipanti era
sorteggiato quello che iniziava a fare il “cacciatore”, che doveva rincorrere i compagni
cercando di toccarne uno con la mano. A quel punto quello “toccato” passava a fare il
cacciatore mentre l‟altro passava nel gruppo di chi doveva evitare di farsi prendere.
Altro gioco molto frequente, era lo scondicucco, conosciuto universalmente come
gioco a “nascondino”. Consisteva nel scegliere la “base” e sorteggiare chi iniziava ad
occuparla, con il compito di mettersi appoggiato al muro ( o albero) prescelto, ed
effettore un conteggio, con gli occhi coperti, fino a un numero prestabilito; quindi
doveva cercare di individuare i compagni ( nel frattempo spariti nel nulla) ed andare a
toccare la base prima del giocatore scoperto. Se alla fine del giro tutti i concorrenti
erano riusciti a toccare prima del cercatore, si riprendeva il gioco come prima, con lo
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stesso addetto alla base. Se viceversa qualcuno era scoperto e anticipato, prendeva il
posto del “cacciatore”.
Altro gioco in uso, utilizzato dai maschi, in coppia, era il pito e masse. L‟attrezzatura
consisteva in una mazza, che era costituita da un bastone di legno duro, ad esempio di
acacia, e un pito che era costruito da un pezzo di legno cilindrico, di circa dieci
centimetri, cui erano state appuntite le estremità. Si tracciava per terra la base, a forma
circolare, e si sorteggiava il battitore, che poneva il pito per terra dentro la base. Il pito
colpito a un‟estremità appuntita si alzava roteando ed era colpito al volo, nuovamente
con la mazza, per essere scagliato il più lontano possibile. L‟altro giocatore doveva
tentare di prendere al volo il piccolo attrezzo. Se ci riusciva, andava in base al posto
del compagno. Non ricordo esattamente tutto il procedimento del gioco. Ricordo solo
che il battitore, prima di eseguire il lancio gridava: - pito!- e doveva attendere che
l‟avversario rispondesse: - masse! - a conferma che era pronto a ricevere.
Un altro gioco in voga tra i maschi, che si svolgeva normalmente in coppia, era il
gioco della piroea. Si giocava muniti di un coltellino, il classico britoin, che non
poteva mai mancare nelle tasche dei ragazzi. Ci si poneva, seduti o accovacciati,
accanto ad un mucchio di sabbia o a un terreno morbido. Il coltellino era appoggiato
con la punta su una parte del corpo e tenuto in posizione verticale premendo
leggermente l‟estremità del manico con il dito indice, in attesa del lancio. Da
quell‟appoggio era lanciato per compiere una piroetta e piantarsi sulla superficie
morbida della sabbia. Veniva sorteggiato chi partiva per primo. S‟iniziava
appoggiando la punta del coltello sul dito pollice della mano opposta a quella
utilizzata per lanciare, e si proseguiva passando a una a una tutte le altre dita della
mano. Poi si passava al braccio, cominciando dal polso, per proseguire col gomito, la
spalla. Si passava al capo cominciando col mento e proseguendo con bocca, naso,
sopracciglia e cima della fronte, quindi si faceva il percorso inverso fino al pollice
della mano. Naturalmente nei punti in cui non era possibile appoggiare direttamente la
punta del coltellino era ammesso frapporre la punta di un dito della mano inattiva. A
ogni colpo sbagliato, cioè se il coltellino non si piantava con la lama nel terreno, il
gioco passava all‟avversario. A ogni passaggio di mano il giocatore riprendeva dal
punto in cui aveva commesso l‟ultimo errore. La partita era vinta da chi arrivava per
primo alla fine del percorso, ossia al punto di partenza.
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Un altro passatempo consisteva nella corsa col sercion. Il “giocattolo” era costituito
da una ruota di bicicletta cui erano stati tolti il mozzo e i raggi. Restava il nudo
cerchio che veniva spinto appoggiando un bastoncino nella gola dove di norma è
inserito il copertone. E così, in questo modo, via di corsa, dietro al veloce sercion.
Già, dietro al cerchio, perché sembrava proprio che fosse lui a trascinarti e non
viceversa!
Per finire con i giochi più diffusi non si può non ricordare il gioco dell‟altalena, il
famoso biscoeo o briscoeo. Bastava avere un qualsiasi pezzo di corda lungo e robusto
quanto basta, lo si fissava a un qualsiasi ramo di albero, allora facilmente reperibile, e
via! …. Il gioco è fatto! Non importa se c‟era o non c‟era la tavoletta da mettere sotto
le natiche, andava bene lo stesso! Il gioco riusciva meglio se a dondolarsi era una
ragazza e tu, maschietto, la spingevi da dietro fino a farle quasi fare il giro all‟indietro.
GLI AMBULANTI
Nelle borgate di periferia dei paesi di campagna erano soliti transitare degli
ambulanti che usavano passare in epoche e intervalli determinati per cui al momento
del loro arrivo se ne aspettava l‟apparizione.
Uno di questi era il moeta (arrotino) ovvero uno che mediante un‟adeguata mola
affilava tutti gli attrezzi da taglio. Era un uomo, non più giovane, che arrivava con la
sua bicicletta in cui era stata installata una mola ad acqua che era mossa dai pedali del
veicolo. Quando arrivava, noi ragazzini lo si attorniava per curiosare su quello strano
mezzo. Si fermava, o nei cortili delle case, oppure in strada, all‟incrocio con le passae.
Piazzava la bicicletta su un cavalletto per alzare la ruota posteriore, quindi collegava
la catena dalla ruota dentata, azionata dai pedali, al rocchetto della mola. Nel
frattempo erano arrivate le donne dei dintorni con coltelli e forbici da ugar. Iniziava il
suo lavoro aprendo l‟acqua dall‟apposito gocciolatoio e mettendoci tutta la sua
maestria. Dicevano che veniva giù dalle parti di Sacile. Qualche anno fa ho scoperto
una foto scattata dal fotografo Ortolan all‟incirca nel 1940. Ritraeva proprio il moeta
che ho conosciuto da ragazzino, intento al suo lavoro. Di quella foto, che mi ha
riportato a quando ero bambino, mi sono fatto una copia usando la tecnica a
carboncino. La tengo ben cara, esposta dove trascorro i miei momenti di relax.
Proveniente dalle parti di Pordenone, arrivava ogni anno, spingendo a piedi un
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carrettino stracolmo di oggetti per la casa, una donna anziana, tarchiata, accompagnata
da una figlia. Era vestita alla furlana e ai piedi portava le caratteristiche papusse
(babbucce) di lana. Vendeva vari oggetti per la cucina, per il cucito, per lavorare a
maglia, ecc.
Altro ambulante caratteristico di quei tempi era lo spazzacamino, che incuriosiva non
poco noi ragazzini per quel suo strano abbigliamento e per il colore della pelle, sporca
di fuliggine.
Altro personaggio storico e caratteristico era Cordèa el strassàro (straccivendolo).
Chi, tra la gente di Mogliano, che ha vissuto ai miei tempi (e ne rimane sempre meno
ahimè!), non ricorda il mitico vecchietto che passava per le strade, con il suo
carrettino pieno di cianfrusaglie, con la sua piccola asina tutta arruffata, e che gridava,
con la sua stridula voce: - Strasse, ossi, fero vecio da vendar! - E sottolineava il suo
proclama con uno stonato suono di tromba, che era tutto dire: sgradevole, come la
voce e l‟aspetto del vecchietto! Poi si fermava davanti alle case in attesa di qualcuno
che avesse degli stracci, del metallo, del vetro, delle ossa, delle setole di maiale da
“vendere”. Proveniva dal Ghetto, la borgata che si trova vicino a Gardigiano. Aveva
un aspetto da “barbone”, piccolo, trasandato, sembrava vestito con gli stessi stracci
che raccoglieva, aveva una vocina stridula, fastidiosa, gli occhietti socchiusi, da
birbante. La piccola mussa era simile al padrone, con il pelo lungo, arruffato. Non
deve mai aver conosciuto una striglia, una spazzola: altro ché il nostro Roseto! Cordèa
raccoglieva di tutto, pesando la merce con la sua bilancia che sembrava risalire a
qualche secolo addietro. Acquistava pelli di coniglio, di talpa, ossa, pelo di maiale.
Certo, anche pelo di maiale, perché quando ho scritto che del maiale non si buttava
niente, intendevo proprio niente; perché si raccoglieva anche il pelo, che era utilizzato
per far setole di pennelli. E le ossa, una volta messe dentro le pentole per insaporire i
fagioli o per far brodo, erano poi consegnate allo strassaro. Per noi ragazzini era
l‟occasione per racimolare qualche monetina. Le mamme, specialmente la mia, così
apprensiva e protettiva, si raccomandavano di non andare troppo vicino a Cordèa
perché lo consideravano un petapeoci, cioè uno con i pidocchi addosso. Per noi era
solo un avaro che cercava sempre di fregarti: per questo, quando gli si portava
qualcosa, si cercava sempre di contrattare per alzare il prezzo, ma alla fine si rimaneva
sempre con la convinzione di essere stati gabbati. I tempi ora sono cambiati, siamo
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diventati più furbi, evoluti: ora, per liberarci di quelle cose che Cordèa passava a
ritirare in cambio di un compenso, dobbiamo pagare noi!
Un altro ambulante, particolarmente gradito ai ragazzini, era “Ico” con il suo
carrettino a triciclo che trasportava gelati. “Ico” era il marchio dei fratelli Zorzetto che
producevano e vendevano gelati artigianali, ma i ragazzi con quel nome identificavano
la persona che distribuiva il gelato. Nelle assolate giornate estive, quando le cicale non
smettevano un solo momento di “cantare”, e la gente subiva quel caldo torrido senza
tirar fuori discorsi di “ozono” o “effetto serra”, il suono della trombetta di “Ico”, che
si sentiva quando era ancora molto lontano, provocava una gioiosa eccitazione tra i
ragazzini della contrada. Allora si frugava per trovare qualche soldino nel salvadanaio,
qualche monetina rimasta dai ricavi delle vendite di “roba vecchia” a Cordèa o
guadagnate lustrando le bici ai genitori o ai fratelli più grandi, e si correva in strada ad
attorniare il carrettino dei gelati, in attesa di ricevere l‟agognato cono di gelato.
Infine anche se non si trattava di ambulanti, intesi come persone che esercitavano
una professione ”mobile”, occorre ricordare gli zingari che, periodicamente,
passavano per via Bianchi con le loro carovane formate da alcuni carri trainati da
cavalli. I carri erano simili a quelli dei pionieri del Far West ma bardati in modo
pittoresco con tessuti sgargianti, i cavalli erano di razze diverse dai nostri, tutti con i
garretti ricoperti da lungo pelo.
Quando qualcuno avvistava in lontananza le carovane dei singani, dava l‟allerta e la
contrada entrava in fermento. Tutte le mamme chiamavano a raccolta i propri figli,
come fanno le chiocce quando vedono roteare in aria la poiana e si mettono a
sciòchezar per richiamare i pulcini sotto le ali. Era credenza, forse suffragata da
qualche episodio, che gli zingari rubassero bambini. Passata la carovana, la vita
normale non ritornava subito, ma dopo qualche tempo, perché le mamme avevano
paura che quella gente fingesse di andarsene, rimanendo invece nei paraggi per
tendere agguati. E noi piccini restavamo per un po‟ impauriti ma anche con il
rammarico per non aver potuto soddisfare il nostro desiderio di veder da vicino quella
pittoresca gente.
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PERSONAGGI DELL’EPOCA
Ci sono delle persone di quell‟epoca che sono diventate emblematiche. Si può citare
ad esempio il medico condotto Silvestro Sinicco, che è stato per svariati anni il
simbolo della professione, e che aveva l‟ambulatorio al piano terra del Municipio,
oppure il veterinario Spilimbergo, che doveva presidiare un territorio ben più vasto di
quello comunale. Oppure il parroco don Luigi Fedalto anch‟esso in prima fila per
tantissimi anni, e la maestra Luisa Mosca che per varie generazioni è stata additata ad
esempio per severità e dedizione. E anche Giacomo Sandri che incominciava a
scrivere sul Gazzettino raccontando la battaglia che fece, a colpi di ombrello, la
corpulenta Maria Bordignon, meglio conosciuta come Mora Ferraro, contro una
poiana che voleva sottrarre i pulcini alla sua chioccia. In quell‟epoca la frutta si
acquistava da de Stefani, meglio conosciuto come Stefàn, che aveva la bottega dove
ora si trova un giornalaio accanto al negozio Brandolisio, oppure da Candido Pezzato,
che aveva il negozio sul Terraglio accanto al panificio Vendramin, che a quel tempo
era un antico e rinomato forno. Al bar si andava da Pierina Vecchiato o al bar
“Venezia” di Vittorio Zanardo o “alla Speranza”. Per i medicinali si andava nella
farmacia “al Terraglio”, dove armeggiava con sapiente arguzia il mitico spizier
Giuseppe Zava, meglio conosciuto come Bepi polvareta, capace di preparare ogni tipo
di toccasana. Si diceva che nei momenti con poca clientela il buon Bepi acconsentisse,
a qualche signora curiosa, di passare in laboratorio, nel retrobottega, per assistere alla
preparazione del medicinale. Si diceva anche che i tempi per la preparazione fossero
piuttosto lunghi, ma noi profani non possiamo sapere quanto tempo sia necessario per
preparare una polvareta, come si deve! Negli scaffali della farmacia erano ancora
presenti l‟olio di ricino, il chinino, le sanguisughe (sanguète). Forse non tutti sanno
dell‟utilizzo che si faceva di questi disgustosi animaletti, simili a quelli che si
trovavano nei fossati, e allevati per succhiare del sangue raggrumato a causa di
qualche trauma o del pus formatosi per qualche infezione. Io stesso sono dovuto
ricorrere, mio malgrado, a questo rimedio, prescrittomi, non da uno stregone, ma dal
medico condotto dottor Sinicco. Avevo avuto una brutta otite che provocò la
formazione di un ristagno di sangue e pus, sotto l‟orecchio. Mi furono applicate delle
sanguisughe, acquistate in farmacia, che furono appoggiate su una garza vicino alla
tumefazione. Gli animaletti, attirati dal sangue, perforarono la pelle, in modo
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assolutamente indolore, e incominciarono a succhiare sangue e pus, diventando
sempre più grossi fino a raggiungere dimensioni spropositate. In questo modo la mia
guarigione fu notevolmente accelerata. Oggi è molto più semplice (e salutare?) : si
prescrive una bella dose di antibiotico, e il caso è risolto.
Tornando alla descrizione dei personaggi non si possono dimenticare i custodi delle
biciclette che erano depositate o allo staeo da Ranzi, un antico posteggio al coperto
per cavalli, che si trovava dietro al bar Zanardo, oppure dalla Pina che si trovava in
piazza municipio nell‟angolo ora occupato dalla parte terminale della pizzeria “ai
Portici”, oppure da Miòro, un vecchietto piccolo e claudicante, che allestiva un
posteggio mobile vicino al piazzale della chiesa sotto gli alberi di fronte alla canonica.
Nel periodo successivo alla guerra si poteva incontrare
Toti Dal Monte mentre
sorseggiava il suo caffè al bar Venezia, in compagnia del cavalier Pullini, oppure
Giuseppe Berto che, tornato dalla prigionia, iniziava la carriera di scrittore
pubblicando “ Il cielo è rosso ”.
Al cinema si andava o al Busan noto come “ cinema del prete ”, oppure al Centrale
che si trovava dove ora ci sono delle banche e il Punto Comune. Durante gli intervalli
dei film per le sale passavano i fratelli Zorzetto a proporre a gran voce: - Caramelle,
croccanti….mandorle! - Oppure il fruttivendolo Stefàn a proporre bagigi,
stracaganasce, e/o, durante il periodo invernale, castagne calde.
I TRE COMPARI
Mentre mi accingo a scrivere questo capitolo, mi prende una grande nostalgia, un
senso di vuoto, che mi attanaglia. Quando ho iniziato a scrivere queste memorie, del
terzetto di amici per la pelle, di compari, eravamo rimasti in due. Ora sono rimasto
solo. Sono certo che ci metterò molto, che andrò avanti a rilento, con continue lunghe
pause.
Con Gioanin la vita in comune è iniziata quando avevamo tre anni. A quel tempo la
sua famiglia viveva in un alloggio del complesso dei cavai accanto a quello che è stato
occupato dalla mia famiglia. Non ho ricordi dei primi momenti del nostro incontro,
ma mi è rimasto il ricordo di un episodio che per il resto della vita, di tanto in tanto,
abbiamo tirato in ballo per sfotterci a vicenda, con tono ironico. Ricordo che eravamo
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dietro la casa intenti a giocare. Io avevo la paletta metallica in dotazione con la cucina
economica, che serviva per pulire il focolare dalla cenere o per prelevare la brace da
mettere nel ferro da stiro o nello scaldaletto. Il mio amichetto aveva una pompa da
biciclette, di quelle grandi con treppiede. Dovevamo avere poco più di quattro anni. A
un certo punto uno dei due è stato preso dal bisogno di fare la popò. In quel luogo non
c‟era alcun problema, bastava mettersi un po‟ in disparte e tirar giù i pantaloni: così,
in effetti, proseguirono le cose. Ma, come succede spesso ai bambini, anche all‟altro si
manifestò la medesima urgenza. E così, fianco a fianco, i due bricconcelli si misero a
vuotare il pancino, interrompendo per un po‟ i giochi. Alla fine si voltarono insieme
per ammirare i due mucchietti, posti l‟uno accanto all‟altro. E qui incominciarono i
problemi. Problemi di gerarchia, di supremazia. Ognuno riteneva che il proprio
mucchietto fosse più grande, e allora incominciò l‟animata disputa: - Il mio è più
grande -, diceva uno, mentre l‟altro replicava: - Ma il mio è più alto -. E l‟altro di
rimando: - Si, ma il mio è più largo -. Dalle parole si passò ai fatti e iniziò la battaglia
a suon di palettate e “pompate”. Io ero più sviluppato e quindi più grande e avevo
un‟arma più maneggevole. Gioanin invece aveva un‟arma che era più grande di lui e
faceva fatica a manovrarla. Alla fine, dopo qualche colpo andato a vuoto, assestai una
poderosa palettata sul capo del malcapitato amichetto. Per fortuna il colpo andò di
piatto e non di taglio, e la cosa si risolse con un impacco del solito miracoloso aceto.
A separarci intervenne un adulto, non ricordo bene di chi si trattasse, ma chiunque sia
stato ha commesso una grave mancanza: doveva stabilire quale fosse il mucchietto più
voluminoso, perché per tutta la vita siamo rimasti sempre con la stessa idea, entrambi
convinti che il proprio mucchietto fosse il più grande!
Un altro episodio rimastomi impresso riguarda il periodo delle scuole elementari. Io
frequentavo la quinta classe, Gioanin la quarta poiché i suoi l‟avevano tenuto a casa
un anno di più in quanto troppo piccolo e minuto. Per andare a scuola facevamo
sempre il percorso assieme, lungo il Terraglio, e spesso assieme a noi si formava un
gruppetto di scolari che abitavano al Bacareto o vicino al macello o comunque dalle
nostre parti. Con noi si aggregava abitualmente un mio compagno di classe, che si
chiamava Paolo ed era alto come me, ma molto più grosso. Profittando della sua
esuberanza fisica, durante tutto il percorso si divertiva a punzecchiare, strattonare, a
torcere le orecchie ai più piccini. A un certo punto aveva preso di mira il piccolo
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Gioanin e continuava a tormentarlo. A nulla servivano i richiami dei compagni. Un
giorno, al ritorno da scuola, mentre eravamo arrivati all‟altezza del collegio Astori, il
solito prepotente aggredì Gioanin e lo prese per un orecchio sbeffeggiandolo. A quel
punto, poiché le parole non sortivano alcun effetto, sferrai un pugno con tutte le mie
forze contro quel muso da prepotente. Lo colpii a una guancia con tale impeto che il
malcapitato stramazzò a terra lungo disteso. Poi mi misi davanti al mio piccolo amico
per proteggerlo. L‟aggressore rimase per un po‟ stordito poi, mettendo la coda tra le
gambe si limitò a mormorare, più volte: – Lo dirò a mio padre, lo dirò a mio padre! E s‟incamminò verso casa, mogio, mogio. Il giorno dopo non si presentò a scuola, ma
al ritorno dalle lezioni, nel punto, dove era avvenuto il fatto, trovai il padre del
ragazzo insieme al figlio, che aveva la guancia sinistra tumefatta. Fermò la comitiva
dei ragazzi e volle che gli raccontassi i fatti per poi andare a riferire alla mia maestra.
Volle sentire anche gli altri ragazzi che confermarono la mia versione. Alla fine mi
disse che difendere un compagno più piccolo è una buona azione, ma che è sempre
sbagliato ricorrere ai pugni. - Potevi venire a parlarne con me – disse - comunque non
andrò dalla maestra. Ricordati di quello che ti ho detto -. Poi rivolgendosi al figlio che
stava in silenzio con la testa bassa: - Quanto a tè faremo i conti a casa! - Di
quell‟episodio mi è rimasto impresso il comportamento dell‟anziano padre del mio
compagno di classe. Mi sarei aspettato un‟aggressione, quantomeno verbale, invece si
comportò in modo esemplare, tenuto conto che il figlio aveva quel vistoso gonfiore
sulla guancia. Ho fatto tesoro delle sue parole, in vita mia non ho più fatto ricorso a
quelle maniere, innanzitutto perché non è nella mia indole, ma anche pensando alle
sagge parole di quell‟uomo.
Mille altri sono gli episodi che mi legano a Gioanin perché abbiamo trascorso
insieme l‟infanzia, abbiamo vissuto insieme le prime esperienze di vita, abbiamo
esplorato insieme il mondo che si apriva davanti a noi. Abbiamo percorso in lungo e
in largo il “Pianton” perché è noto che i ragazzini sono attratti dall‟acqua e quel canale
non rappresentava un grosso pericolo perché il livello dell‟acqua è costante e non
arriva a trenta centimetri, salvo durante le “piene”. E così, anche la Este, mia madre,
così apprensiva, tollerava le nostre avventure “acquatiche”. Ricordo le prime
esperienze di pesca con l‟amo. L‟attrezzatura da pesca era formata da un‟asta di
bambù; il filo non era un comune filo da pesca, ma del crine strappato dalla coda della
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Prima o della Olga, le due cavalle dalla lunga coda. L‟esca era di facile reperimento
perché di lombrichi (vescoe) se ne trovavano dappertutto. Le prede, le prime che
abbiamo pescato erano le comuni spinarioe, dei piccolissimi pesci somiglianti alle
scardole, ma con le pinne pungenti come delle spine, da cui deriva il nome. A contatto
con l‟acqua corrente del “Pianton” abbiamo imparato a conoscere i vari pesci, le rane,
i rospi, le raganelle (racoéte), le biscie ranère e le orbettine (orbarioe), le
marisciandoe, strani animaletti simili ai ragni che pattinavano velocissimi sul pelo
dell‟acqua. E anche le libellule (sitoni) dai sgargianti colori e dal volo frusciante, e le
sanguisughe (sanguète) che si attaccavano alle caviglie senza farsi sentire e i martin
pescatore (piombìn) dal bellissimo piumaggio color azzurro oltremare, che passavano
velocissimi a pelo d‟acqua. Nel periodo della schiusura delle uova delle rane si
vedevano maree di girini (bùtoi), che si spostavano agitando la coda. Appena nati
erano come delle minuscole sferette nere con la coda. Giorno dopo giorno cambiavano
di dimensione e di aspetto mettendo gradualmente le gambette e riducendo di pari
passo la coda, fino a diventare delle piccole rane.
Abbiamo imparato a osservare il mondo degli uccelli, a riconoscere un grande
numero di questi animaletti dal piumaggio, dal modo di volare, dai richiami, dagli
atteggiamenti, dal tipo di nido, dal sito prescelto per nidificare, dalla dimensione e
colore delle uova. Abbiamo imparato a distinguere i maschi dalle femmine, abbiamo
osservato la costruzione dei nidi, la cova delle uova, gli uccellini appena nati,
implumi, con gli occhi ancora chiusi e il becco ancora molle, l‟incessante va e vieni
dei genitori con il cibo, la crescita della nidiata fino ai primi tentativi di uscire e
allontanarsi dal nido, alla scoperta del mondo. Abbiamo assistito, varie volte, a episodi
di uccellini impazienti di uscire dal nido, incapaci di volare, con conseguente caduta al
suolo. Il quel caso i poveri genitori, dopo giorni di estenuante fatica per allevare la
prole, dovevano escogitare i più disparati stratagemmi per evitare una brutta fine
all‟incauto figlioletto. In questi frangenti i passeri sono maestri: se notano che sta per
arrivare un gatto nei pressi del passerottino caduto dal nido, si fingono feriti, si calano
a terra con un‟ala penzoloni e incominciano a fare un particolare cinguettio di
richiamo. Il gatto è attirato dalla possibile preda e si mette a inseguire il finto ferito,
che, con maestria, sposta sempre più lontano il pericolo. Naturalmente queste cose si
notano solo se uno ha imparato a osservare la natura, se ci ha vissuto dentro.
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Quando si è bambini per la testa passano un mucchio di fantasticherie, di sogni, di
desideri, di cose da realizzare da grandi. Io e Gioanin sognavamo di costruire insieme
un aereo per volare alti nel cielo. Io dovevo costruire il motore e tutte le parti
meccaniche perché avevo mio fratello che lavorava nel settore della meccanica ed io,
da grande, avrei fatto lo stesso; lui doveva costruire tutte le parti di legno perché aveva
il fratello che faceva il falegname e da grande avrebbe voluto fare lo stesso. Il modello
di aereo da costruire era una di quelle “cicogne”, un piccolo aereo da turismo, come
quelli che comunemente passavano in cielo a quei tempi, una specie di “piper”, con le
ali sovrapposte. Ce l‟avremmo sicuramente fatta, …….da grandi!
Fino all‟età di dodici - tredici anni Gioanin era cresciuto in ritardo rispetto a me. Era
molto più piccolo e mingherlino. Poi pian piano si è irrobustito ed è cresciuto fino ad
arrivare a cinque centimetri dalla mia statura. Ma aveva una corporatura
straordinariamente agile. Da marzo a ottobre non portava più scarpe ed era sempre a
torso nudo. Sembrava un nativo d‟Africa. Ricordo che saliva sui fusti degli alberi privi
di rami, come fanno le scimmie o i giovani africani per andare a prendere le noci di
cocco. Quando capitava di dover saltare qualche fossato o il “Pianton” non aveva
esitazioni, saltava sempre per primo. Poi, con quel suo sorriso tra l‟ironico e il
beffardo, accentuato da una fossetta che aveva sulla punta del mento, m‟invitava a
fare altrettanto dicendo: - Io il salto l‟ho fatto, ora tocca a tè -, ed io, pur essendo più
alto, ero sempre titubante e avevo bisogno di studiare bene la situazione, prima di
buttarmi. Alla fine mi decidevo perché non potevo esimermi dall‟imitarlo: ne andava
di mezzo il prestigio!
Le prime occasioni d‟incontro con Primo sono avvenute durante il periodo di guerra,
quando mia madre si recava a fare il pane nella vecchia casa dei Ferraro, che avevano
un grande forno di pietra. Io seguivo mia madre e mia sorella Rina ma, ovviamente,
non ero coinvolto nei lavori, ero libero di giocare con i vari ragazzini presenti, tra cui
c‟erano Primo, i suoi fratelli e cuginetti. Ricordo che nella vecchia casa dei Ferraro
usavano tenere i porcellini d‟India che costituivano motivo di particolare interesse e
gioco per noi bambini. Quegli incontri erano saltuari, poi io ritornavo nel mio mondo,
nei territori dell‟Amministrazione, con il mio amichetto Gioanin.
Con Primo non ci si vedeva neanche a scuola o in chiesa perché lui frequentava
scuola e catechismo a Zerman. Alla fine delle elementari, quando sono andato a
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frequentare le scuole a Dosson, sistemate provvisoriamente nelle vecchie caserme, ho
avuto la lieta sorpresa di trovarmi Primo come compagno di classe. Allora, per un
certo tempo, abbiamo condiviso i giorni di scuola e i doposcuola. Abbiamo
consolidato l‟amicizia e abbiamo incominciato a frequentarci anche di domenica. A
scuola purtroppo ci siamo trovati subito a percorrere due strade opposte: io avevo alle
spalle una preparazione ottimale mentre Primo era vittima di quelle situazioni
vergognose che permettevano di trovarsi in scuole e insegnanti non all‟altezza. A
nulla è valsa la mia disponibilità a passare qualche “borraccia” nei momenti di crisi,
come facevano Bartali e Coppi. A metà anno scolastico era già evidente che non ci
sarebbe stato nulla da fare, l‟ultima “ruota” era irrimediabilmente persa. Così Primo
dovette ritirarsi ed io ripresi la mia rincorsa per vincere la “tappa”. Intanto però
l‟amicizia si era rinsaldata e nei momenti di libertà ci s‟incontrava, sempre più spesso
con la compagnia di Gioanin. Piano piano si stava formando il trio di inseparabili
amici.
E‟ proprio di quel periodo un episodio che non ho più dimenticato. Primo ci aveva
invitato a casa sua per una battuta di caccia alla lepre con lo zio Checco. Si trattava
“de bàtar” dei campi di granoturco che si trovavano poco lontano dalla casa di Primo.
Una squadra di ragazzi doveva passare all‟interno del campo per spingere all‟esterno
l‟eventuale selvaggina. Il cacciatore aspettava all‟esterno in compagnia di un altro
amico con la doppietta spianata. Verso la fine del campo di granoturco ho visto in
lontananza una grossa lepre accovacciata e in procinto di alzarsi per correre verso
l‟uscita del campo. Senza urlare più di tanto e andare in escandescenze, ho allertato il
cacciatore dicendoli: - Attento Checco, arriva la lepre! -. Poco dopo si udì una sola
schioppettata e un finimondo di voci eccitate, accompagnate da un frenetico abbaiar di
cani. Appena uscito allo scoperto, ho visto la grossa lepre, distesa a terra, con gli occhi
fuori dall‟orbita e in preda agli ultimi sussulti di vita. Mi sembrava che con quegli
occhi dilatati la lepre mi volesse dire: - Perché l‟hai fatto? Perché mi hai spinto verso
il cacciatore?- Tutt‟intorno era un chiasso infernale, tutti i ragazzi erano eccitati, come
i due cani che leccavano il sangue della povera bestia. Checco non finiva di prendermi
in giro per la mia flemma, per come l‟avevo avvisato, senza eccitazione, senza urlare.
Dopo quel giorno, varie volte, quando m‟incontrava, Checco ricordava quell‟episodio,
un po‟ con tono canzonatorio un po‟ con ammirazione per come sono rimasto
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“controllato”. Dopo quella volta non ho più voluto partecipare a battute di caccia alla
lepre. Sono rimasto troppo impressionato dall‟epilogo così crudele. Eppure crescendo
nell‟ambiente in cui sono vissuto, fin da piccoli si tocca con mano la realtà
dell‟uccisione di animali che servono per la nostra alimentazione. Si assiste alla scena
della propria madre che tira il collo alle galline, del padre che fa altrettanto con le
oche fermando la testa delle malcapitate sotto un piede, con l‟ausilio di un bastone,
oppure all‟uccisione e scuoiamento dei conigli, per finire con la truculenta “mattanza”
del maiale. Nonostante tutto questo, la scena della morte di quella lepre mi è sempre
rimasta impressa come un‟immagine negativa dell‟andar a caccia.
Eppure con la caccia i ragazzi della mia generazione, hanno tutti, chi più, chi meno,
avuto a che fare. S‟iniziava fin dall‟età di quattro – cinque anni a cacciar sèeghe con
rudimentali fionde che erano perfezionate via via che si diventava più grandicelli.
Nelle stagioni invernali si usava cacciare con delle trappole o con la sésta da pitussi,
un caratteristico cesto di vimini, lavorati a maglie larghe, di forma circolare, come una
tinozza rovesciata, che era utilizzato per rinchiudere i pulcini. Per catturare i passeri si
poneva del cibo all‟interno del cesto, che era tenuto un po‟ sollevato, da un lato, con
un bastoncino legato a un lungo spago, che arrivava fino a un nascondiglio. Quando
sotto il cesto si radunavano diversi passeri, si tirava lo spago provocando la chiusura
del cesto, che diventava così una prigione per gli ignari uccellini. Un altro sistema di
caccia era con gli “archetti” che avevo imparato a costruire fin da piccolo. Ricordo
che durante i mesi freddi avevo incominciato a deporre alcune di queste semplici
trappole, ma ho abbandonato subito il sistema perché cadevano sempre in trappola dei
pettirossi e per me, i pettirossi e le rondini erano uccelli da lasciar liberi. Con la
costruzione delle fionde io e Gioanin eravamo arrivati a una perfezione da
professionisti. Per la “forcella” (forsèa), l‟impugnatura, si usava esclusivamente il
legno di sanguinea, un arbusto abbastanza comune nelle siepi, che produceva dei rami
perfettamente dritti e affusolati. Fra i tanti rametti qualcuno aveva delle biforcazioni
perfettamente simmetriche, ideali per ricavarne le nostre “forcelle”. Noi avevamo in
testa la mappa di tutti i luoghi in cui si poteva trovare qualche siepe con le sanguinee
e, quando era la stagione giusta, si passavano in rassegna tutti i luoghi noti per cercare
con cura i migliori pezzi. Alla fine si tornava a casa con una decina di “forcelle”,
pronte per essere poste a essiccare, in luoghi non colpiti dal sole. Alla fine si aveva un
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“arnese” veramente professionale, invidiato da tutti i coetanei. La gomma per
confezionare gli elastici era scelta con altrettanta cura. Doveva essere né troppo rigida,
né troppo molle, quella ideale era ricavata dalle gomme delle moto. Anche per questo
non c‟era problema: nel retro dell‟officina meccanica dell‟Amministrazione Bianchi
esisteva un deposito di ferro vecchio e gomme di auto e moto. Potevamo liberamente
accedervi e cercare ciò che serviva. Una volta recuperata la gomma adatta, si passava
alla meticolosa tracciatura e taglio degli elastici. Ora serviva solo il contenitore
(curamea) dei “proiettili”, che era ricavato da qualche ritaglio di cuoio, utilizzato da
mio padre nel suo “secondo” lavoro, quello di sellaio. Per unire i tre pezzi che
componevano la fionda, non si usava del comune spago, ma quello più sottile e rifinito
usato sempre da mio padre. Il risultato finale era una fionda che avrebbe superato
qualsiasi controllo di qualità. Se poi si aggiunge che anche i proiettili, costituiti da
sassi, erano scelti con cura tra i vari mucchi di ghiaia presenti in Amministrazione e,
che passavamo ore e ore ad allenarci “tirando” ai più disparati bersagli, si capisce che
i passeri presenti nel vicinato non potevano stare tranquilli. Infatti, in determinati
periodi dell‟anno, quando era il tempo delle more nei gelsi o, alla fine dell‟estate,
quando gli uccelli si radunano verso l‟imbrunire per andare a dormire nei cespugli di
bambù, si riusciva a far qualche buon bottino di volatili. In quelle occasioni era con
grande piacere che guardavo i miei genitori gustarsi quei prelibati bocconcini.
Naturalmente la consistenza di questi bottini di caccia diventò più rilevante quando,
più grandicelli, incominciammo a disporre della carabina ad aria compressa.
Per la caccia Primo aveva un‟innata predisposizione, ce l‟aveva nel sangue, come si
usa dire. Ricordo che già nei nostri primi incontri, nelle domeniche di quando
andavamo a scuola assieme, mi faceva vedere come si confezionavano le cartucce per
la doppietta dello zio Checco, poi mi accompagnava per i campi a vedere le tracce
delle lepri, quelle lasciate dalle zampe e quelle degli escrementi (pétoe). Poi
m‟indicava qualche nido che io non avevo ancora individuato. Ci faceva compagnia
Reno, l‟allora giovane cane dello zio.
Reno era un cane da caccia, un bracco, ma
all‟occorrenza si trasformava in can da pajer, uno di quei cani in uso nelle case
coloniche, che sanno fare di tutto, dalla guardia alla caccia delle pantegane o dei
martorei, solitamente “intanati” sotto el fassiner o el pajer. Ma Reno all‟occorrenza
poteva fare anche el can da Burcio, come quei cani abituati a vivere nei barconi con la
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gente di mare. L‟unica cosa che non potevi chiedergli era di fare il cane da salotto, per
questo era come Primo, col quale era cresciuto in “simbiosi”, formando una coppia
affiatata. Delle loro “imprese” ne ricordo una, significativa.
Eravamo ormai adulti e Reno non era più tanto giovane. Mi trovavo a Mestre, non
ricordo perché, ed ero dalle parti dove ora si trova il palazzo Coin, all‟inizio di piazza
Barche. A quel tempo dove ora si trova quel palazzo c‟era un canale a cielo aperto,
non so se si trattasse del Marzanego o dell‟Osein. Da lontano ho notato una ressa di
persone affacciate alla riva del canale, intente a osservare il corso d‟acqua. Mi sono
avvicinato incuriosito e……. indovinate qual‟era l‟attrazione per tutta quella gente!
Giù per la riva del canale c‟era Primo con tanto di stivaloni che incitava Reno a
catturare una miriade di grosse pantegane. Sentivi la sua voce che diceva: - Dài Reno,
qua Reno, guarda qua, prendi là……..bravo! -. Era veramente uno spettacolo. E la
gente partecipava, tutta presa dalla scena e non lesinava elogi. Il bravo cane si
avventava con coraggio e maestria sui grossi e spelacchiati animali addentandoli sul
dorso e dimenando alcune volte il capo per “sistemarli” a dovere. Poi lasciava la presa
e puntava un'altra preda. Gli animali feriti mortalmente finivano in acqua, a pancia in
su, ed erano portati via dalla corrente verso il mare formando una lunga scia di sangue
e corpi galleggianti. In quel posto la riva del canale era piena di buchi formati dalle
pantegane, che avevano formato un‟impressionante colonia. Là vicino c‟era un
mercato del pesce e di frutta ed evidentemente sulla riva del canale veniva scaricato
qualche “avanzo”. Primo aveva notato quella miriade di animali e aveva pensato bene
di provvedere a una bella ripulita. L‟avesse fatto oggigiorno, sarebbe finito in carcere,
con chissà quante e quali imputazioni!
Qualche tempo dopo la nascita del terzetto di amici per la pelle, Gioanin aveva
“coniato” un particolare richiamo, un fischio prolungato, modulato, che ci avrebbe
permesso di riconoscerci a distanza. Era un fischio particolare, composto di tre parti:
un‟iniziale, una centrale e una finale. La parte iniziale e finale erano identiche per tutti
e tre, la parte centrale era diversa e ci distingueva permettendo il sicuro
riconoscimento. Per tutta la vita, in ogni occasione quel fischio è stato il nostro saluto,
il nostro richiamo. A un ascoltatore esterno il fischio poteva sembrare uguale, ma noi
eravamo in grado di riconoscerlo, con certezza.
Le occasioni d‟incontro e avventure del terzetto di amici erano varie. Spesso ci si
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trovava in tre, qualche volta in due a causa di qualche impegno di qualcuno. Insieme
abbiamo fatto diversi bei giri in bicicletta. Gioanin è stato il primo a possedere una
bicicletta perché ha incominciato a lavorare appena finite le elementari, a dodici anni.
Io ho avuto la mia prima bicicletta a quattordici anni, come regalo per i bei voti alla
terza media. Era una Legnano celeste col cambio a tre rapporti. Nello stesso periodo
anche Primo ha avuto la sua prima bici. La prima gita che ricordo è quella tra me e
Primo, per andare a trovare i suoi parenti, nella casa natale di suo padre, nel territorio
di Bassano. In seguito abbiamo fatto diverse gite, sempre con il terzetto al completo,
nei luoghi che rappresentavano le mete tradizionali dei giovani “ciclisti” delle nostre
contrade. Ricordo le gite a Pedavena, dove c‟era la fabbrica della nota birra, oppure al
lago di Santa Croce, oppure sul monte Grappa, con la dura salita su strada sterrata.
Ricordo che su per questo monte, a un certo punto, non si riusciva più a salire. Si
facevano cinquanta o cento metri e poi ci si doveva fermare. Così andò avanti per un
po‟, poi io e Gioanin alzammo bandiera bianca mentre Primo era propenso a spingere
ancora un po‟. In salita, con la sua pedalata contorta, Primo macinava strada più di
noi. Decidemmo di desistere dal salire e ritornammo verso Bassano. Durante la
discesa mentre ero a piena velocità, si bucò la ruota anteriore e feci un volo
impressionante. Per fortuna andai fuori strada in un tratto affiancato da un prato e la
cosa finì con un grande spavento. Riparai la gomma mettendo una “pezza” e
ripartimmo verso casa. Io intanto avevo ricuperato forze e morale e come il solito, nei
lunghi tratti pianeggianti, tiravo il treno del terzetto. Ho dei bei ricordi di quelle gite in
bici, mi piaceva tanto pedalare, abbiamo fatto varie volte le salite del Quero, del
Fadalto. Lungo il percorso e nella sosta all‟arrivo si divorava un numero
impressionante di panini, ma soprattutto, ricordo che per le strade non c‟era il traffico
e l‟inquinamento odierno.
La bicicletta era il mezzo di locomozione usato da tutti e per ogni spostamento, ad
eccezione di quando si doveva andare nelle città. Di domenica, noi del terzetto di
amici per la pelle, si andava in bici nei paesi vicini per andare al cinema o in
occasione di sagre e manifestazioni varie. La domenica pomeriggio, in genere, la si
passava a giocare a bocce, oppure a fare scorribande con la carabina in cerca di
selvaggina o per fare esercizio di tiro a segno improvvisando tornei di vario genere.
La domenica sera era immancabilmente dedicata alla visione di un qualche film,
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preferibilmente del genere del Far West, ma non mancando di collezionare l‟intera
collana di Tarzan, di Stanlio e Onlio, di Jerry Lewis e dei vari “colossal” storici, senza
ovviamente perdere i vari film d‟avventura tipo Sandokan o “L‟ultimo dei Moicani”.
Quest‟ultimo film era uno dei preferiti di Gioanin per cui ce lo siamo visto e rivisto
più di una volta.
E intanto il tempo e gli anni passavano per cui arrivò anche l‟ora del servizio
militare di leva.
IL SERVIZIO MILITARE
Per il servizio di leva Primo fu esentato per cui toccò a me iniziare a indossare la
divisa, poiché Gioanin era dello scaglione successivo. Avevo scelto di partecipare a
una selezione per essere ammesso a un corso per aspiranti sottufficiali. In questo
modo avrei potuto fare il servizio militare percependo uno stipendio simile a quello
che ricavavo lavorando. Avrei dovuto sorbirmi sei mesi di scuola, sicuramente in un
regime di disciplina ben diverso dalla scuola normale ma questa evenienza non mi
spaventava per niente. Per me, frequentare una scuola non ha mai pesato, inoltre, nel
momento in cui era capitata questa cosa, stavo attraversando un momento di crisi, per
cui aspettavo il momento come una liberazione. Nel lavoro stavo passando un periodo
di attività intensa, facendo anche turni massacranti, con rotazione a tre squadre. Per
giunta accanto alla Centrale dove lavoravo, era entrato in attività un reparto della
fabbrica San Marco, con delle fornaci che immettevano nell‟aria una quantità
impressionante di fumi, che in certi momenti creava un‟atmosfera da inferno. Allora
dentro di me aveva incominciato a rimuginare una domanda che non mi lasciava un
istante: avevo fatto bene a lasciare il lavoro alle dipendenze di Toni Benetton solo per
ottenere un consistente aumento di stipendio?
Questa situazione, che aveva favorito un buon approccio al servizio militare, unita ad
altre situazioni favorevoli, ha fatto sì che quei diciotto mesi passati con la divisa
addosso, sono da considerare un bel periodo della mia vita.
Alle selezioni, svoltesi in tre giorni a Padova, ero entrato senza problemi in
graduatoria e assegnato al corpo dell‟Artiglieria contraerea con destinazione scuola di
Sabaudia. Così, il 4 novembre 1958, all‟età di ventuno anni e mezzo sono partito per
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la nuova avventura. La scuola era in un distaccamento e non somigliava per niente a
una caserma, bensì a un collegio. Le camerate erano dotate di letti normali, con reti e
materassi che sembravano nuovi. Gli spazi a disposizione erano ampi, delle grandi
finestre assicuravano luce in abbondanza. La mensa sembrava più che buona. Tutto
l‟opposto di quanto mi avevano raccontato degli amici che avevano fatto in
precedenza i vari C.A.R. La scuola, era situata in riva al lago di Sabaudia, con un
grande cortile aperto verso il lago stesso e una meravigliosa vista verso il monte
Circeo. Sulla stessa riva del lago aveva sede la scuola della Marina militare, dove si
stava svolgendo la preparazione degli armi di canottaggio per le Olimpiadi di Roma.
Per entrare nel lago le imbarcazioni passavano davanti al cortile della nostra scuola e
ricordo come fosse adesso lo spettacolo rappresentato dal passaggio dell‟armo
dell‟otto.
I primi giorni di scuola sono serviti per l‟ambientamento. Ci hanno consegnato i
numerosi libri di testo, i programmi, i regolamenti. Tra i regolamenti ho subito notato
una cosa che m‟interessava e mi ha fatto scattare in testa un pensierino. Tra le righe ho
trovato scritto che l‟allievo che fosse risultato primo a fine corso avrebbe avuto il
diritto di scelta della sede per i dodici mesi mancanti per il completamento della naja.
Allora ho subito pensato alla caserma Matter di Mestre, sede di un grosso centro
dell‟Artiglieria contraerea e situata proprio lungo il Terraglio, la strada che porta a
casa mia. Vuoi vedere, mi sono detto, che le fortune non son finite! Ma poi riflettendo
ho pensato che eravamo in centotrenta, e che sicuramente qualche altro avrà avuto il
mio stesso pensiero. Tuttavia non mi son perso d‟animo perché a scuola ne avevo già
compiute di grosse imprese. E così sono partito subito con impegno e con la massima
concentrazione. Man mano che il corso andava avanti mi son reso conto che il tipo
d‟insegnamento sembrava fatto apposta per me, per il tipo di scuola che avevo
frequentato in precedenza. Tra le materie da studiare c‟era molta meccanica,
macchine, tecnologia, tutti argomenti che calzavano a pennello con le mie cognizioni.
Tra gli allievi della scuola c‟erano ragazzi che avevano fatto le magistrali, geometri,
ragionieri o con studi di tipo commerciale. Ho capito presto che la competizione per
arrivare primi sarebbe stata tra una decina di allievi con il diploma di perito meccanico
o con la mia stessa specializzazione. Alla fine dei primi tre mesi, al primo resoconto,
ero già risultato primo con un buon margine. Ero già visto come vincitore finale e, in
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effetti, sapevo che, da quel momento, dipendeva solo da me, e non avevo certo voglia
di mollare! D‟altronde non mi costava nulla seguire le lezioni con la giusta
concentrazione, fin dall‟inizio. Questo mi ha sempre consentito di poter contare sul
tempo libero per gli svaghi. Altri ragazzi, partiti battendo la fiacca, sono stati costretti
a rinunciare a libere uscite per restare a studiare per recuperare, oppure a non
partecipare ai momenti dei giochi nel cortile sul lago.
Alla fine dei sei mesi di scuola, come ormai era evidente, sono risultato primo con un
punteggio molto alto. Il comandante della scuola alla fine si è complimentato per il
risultato ottenuto e mi ha incaricato di portare i saluti al comandante della caserma
Matter dove sono stato assegnato con altri sette compagni.
Del periodo trascorso a Sabaudia, ricordo con nostalgia le gite che facevo in barca,
di domenica pomeriggio, in compagnia degli amici più cari. Ricordo le puntate fino a
San Felice Circeo, il bagno che ho fatto in mare a fine febbraio. Non era una bravata,
l‟inverno particolarmente mite consentiva anche questo. E poi eravamo giovani e in
piena salute! Io mi ero completamente disintossicato dai fumi di Porto Marghera e
avevo potuto praticare la mia antica passione, il mio primo amore: l‟atletica leggera.
Nel cortile della scuola era ricavata una pista di forma ellittica di trecento metri. Lì mi
allenavo per i cinquemila metri di corsa, inanellando giri su giri. Poi c‟erano una
pedana per il salto in lungo e in alto e una pedana per il lancio del peso. Finalmente
avevo potuto praticare a piacere lo sport che il lavoro mi aveva costretto ad
accantonare.
Un‟altra cosa che ricordo con nostalgia, di quel periodo, è la visita che ho fatto una
domenica, alla zia Rosina, sorella più giovane di due anni, di mio padre. L‟avevo
sempre sentita nominare da mio padre, che nell‟occasione faceva sempre gli occhi
lucidi. La zia Rosina era partita appena sposata per l‟Agro Pontino in cerca di fortuna.
Quella domenica sono sceso dalla corriera nella piccola piazza di Aprilia, il paese in
provincia di Latina, dove abitava la zia, in mezzo a un mugolo di persone tra
famigliari e conoscenti. Ricordo la festa che mi ha fatto quella gente: credo che per
molti vedermi e toccarmi fosse come rivedere il Veneto, la loro terra di origine. La zia
era come una fontana: quante lacrime di gioia ha versato! Ho passato una giornata
memorabile con la cara zia e i cugini che non sapevano più cosa fare per procurarmi
piacere. Ho rivisto con gioia il caro cugino Lorenzo e ho conosciuto Teresa, la più
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giovane dei fratelli. Alla fine della giornata tra mille baci la zia Rosina mi ha
consegnato una grande focaccia che lei stessa aveva fatto.
Quando, lasciata Sabaudia, siamo arrivati alla caserma di Mestre, siamo stati ricevuti
dal vice comandante al quale ho portato i saluti del comandante della scuola, quindi
siamo stati smistati alle varie destinazioni. Poi, insieme al compagno destinato al
quarto gruppo, come me, siamo stati ricevuti in ufficio dal capo gruppo, un tenente
colonnello. Questi, dopo aver letto i nostri documenti, ha incominciato a farmi i
complimenti per il punteggio ottenuto e mi ha comunicato che potevo da subito
prendere posto nell‟alloggio riservato ai sottufficiali, giacché c‟era un posto libero.
Così ho fatto diciotto mesi di naja senza dover dormire nemmeno una notte su una
branda. Gli altri sette miei compagni hanno invece dovuto attendere la nomina e la
disponibilità di posti e andare, per il momento, a prender posto nelle camerate dei
soldati. In quel momento ho pensato che, pur con le tante cose negative addebitate al
mondo dei militari, almeno qui i meriti conquistati sul campo ti sono riconosciuti
senza dover nulla chiedere. Questo raramente succede nel mondo esterno, compreso
quello del lavoro.
Il giorno successivo all‟arrivo sono stato convocato in ufficio dal tenente colonnello
che voleva sapere se conoscevo bene la città di Mestre e se, per caso, conoscevo
qualcuno nell‟ambiente della vendita e affittanze di alloggi. Egli stava cercando di
cambiare casa perciò si dilungò a spiegarmi che tipo di alloggio cercava. Io conoscevo
una persona che trattava nel settore. Era un mio compagno di lavoro nella Centrale di
Marghera, un uomo prossimo alla pensione che aveva un figlio con una specie di
agenzia immobiliare del tempo. Detto fatto, il giorno dopo, allestita una jeep con
relativo autista, sono andato in Centrale a Marghera per parlare con il collega. In
Centrale, l‟arrivo del mezzo militare con il sottoscritto e relativo autista ha provocato
non poco turbamento. I colleghi, le impiegate degli uffici, e via dicendo, si sono tutti
riversati attorno alla jeep, incuriositi e a farmi domande, dopo sei mesi di assenza dal
lavoro. Alla fine, per fortuna, sono riuscito a parlare con il collega che cercavo. Ci
siamo messi d‟accordo di trovarci il giorno dopo nell‟ufficio del figlio. Intanto in
caserma le voci correvano e un maresciallo, che conoscevo già da qualche tempo
perché aveva famiglia a Mogliano, mi ha detto che la ricerca della casa da parte del
tenente colonnello era la barzelletta della caserma. Era da più di un anno che il
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comandante del gruppo rompeva le scatole a tutti per cercar casa, e, in quel periodo,
aveva già visitato almeno un centinaio di alloggi, senza trovarne uno di suo
gradimento. Ho ringraziato dell‟informazione, ma ormai ero in ballo e dovevo ballare.
D‟altra parte ero libero di muovermi dove e quando volevo, con l‟autista a
disposizione: se tutti i mali sono questi ben vengano, mi son detto! Sono quindi andato
all‟appuntamento e mi sono stati proposti tre alloggi che potevano andar bene. Siamo
andati a visionarli e tra i tre uno mi sembrava più conforme ai desideri del
comandante. Dalle sue richieste mi era sembrato di capire che l‟alloggio doveva avere,
con priorità assoluta, una sala per allestire una prestigiosa biblioteca. Infatti, il
colonnello aveva una collezione di libri da far invidia a qualche ente. Secondo me
l‟appartamento visto poteva andar bene, ma non mi facevo tante illusioni, visti i
precedenti. Ho comunicato tutte le informazioni all‟interessato che ha preso
appuntamento ed è andato a vedere la casa, come tante altre volte, ma questa volta, tra
la sorpresa di tutti i millecinquecento soldati della caserma, la casa era di suo
gradimento e poco dopo vi si è trasferito. Da quel momento in caserma ero conosciuto
come colui che aveva trovato casa allo “zitello”, soprannome affibbiato al colonnello
perché scapolo. Da quel momento inoltre, avrei potuto chiedere qualsiasi cosa al
comandante, perché ai suoi occhi ero quello che aveva ottenuto uno straordinario
punteggio alla scuola di Sabaudia e gli aveva trovato una casa idonea, a differenza di
tutti quegli inetti che non avevano capito qual‟ era l‟alloggio degno di ospitarlo.
Il colonnello era un tipo particolare, scapolo e molto colto, sicuramente di buona
famiglia e si dedicava con passione alla sua “missione”. Come tutti quelli che non si
sposano, aveva le sue stravaganze, le sue “fisime”. Una era quella di esercitare l‟arte
oratoria appena si presentasse l‟occasione. La domenica, dopo la messa, non c‟era
verso di evitare il suo sermone. Radunava il suo gruppo e via tutti in piedi ad ascoltare
il discorso fiume del comandante. Sì, perché se il prete si limitava a un breve discorso,
lui invece andava via liscio per un bel po‟. La prima volta l‟ho ascoltato con
attenzione perché era la prima e, tutto sommato, i suoi discorsi avevano uno sfondo
morale che condividevo, le volte successive l‟ho ancora ascoltato con attenzione
perché avevo scoperto che egli aveva l‟abitudine di interrogare i suoi ufficiali e
sottufficiali per sentire un parere sul contenuto del discorso.
A parte questi noiosi momenti la vita militare procedeva a meraviglia. Mi ero subito
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procurato l‟abbonamento per il filobus ed era come se fossi tornato al lavoro, anzi
molto più vicino a casa. Facevo continue capatine dai miei e andavo al cinema ancora
più spesso di una volta, a Mogliano, Preganziol, ecc. Quando uscivo per le vie del
paese, con la sgargiante divisa militare, notavo di sottecchi una certa animazione tra i
gruppetti di ragazze che conoscevo, ma questo non m‟invogliava a pensare di
allacciare un rapporto stabile con alcuna. Forse ero un precursore dei tempi moderni in
cui è usuale vedere ragazzi che spostano sempre più avanti l‟età del distacco dalla
protezione delle ali della chioccia materna.
Nella vita in caserma avevo modo di continuare a coltivare la mia passione per
l‟atletica leggera. Sotto lo stimolo del mio entusiasmo il mio gruppo era
all‟avanguardia per assiduità nel svolgere allenamenti ginnici e atletici e per risultati
conseguiti nelle gare per l‟ammissione alle finali dell‟Italia settentrionale. Tutto
questo con la soddisfazione del comandante del gruppo. Io stesso ho partecipato alle
selezioni giungendo terzo nel lancio del peso e sesto nel salto in lungo. Nel lancio del
peso, dove partecipava il campione italiano militare, ho dovuto ritirarmi per infortunio
dopo il secondo lancio e non ho quindi potuto partecipare alle finali che si svolgevano
a Mantova.
Tanti sono i momenti belli di quel periodo della mia vita. Ricordo il giorno che sono
andato a piazzare una P.A.O., postazione di avvistamento ottico, proprio davanti a
casa mia, all‟ingresso della campagna che ho descritto in un altro punto. Ero con tre
militari con la jeep e una grossa radio. Si piazzava il tutto in un punto che sceglievo
io, si tracciavano per terra i punti cardinali costruendo una specie di rosa dei venti
quindi si rimaneva in osservazione per il tempo dell‟esercitazione segnalando l‟arrivo
di eventuali aerei e fornendo la direzione di arrivo, il tipo di aereo, la quota di volo
stimata e così via. Immaginarsi la gioia dei miei genitori e la curiosità dei conoscenti
uniti alla soddisfazione dei miei compagni militari per il corposo panino con la
sopressa confezionato da mia madre. Alla fine dell‟esercitazione ho condotto i miei
compagni alla vicina osteria Bonotto, dove la Delia, piacevolmente sorpresa, ci ha
servito la birra.
Il servizio militare terminava il 30 aprile 1960, ma avevo diritto a un precongedo di
venti giorni, una specie di vacanza pagata, per cui ho lasciato la caserma Matter, il 10
di aprile, due giorni prima il compimento del ventitreesimo anno. Sono tornato alla
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caserma Matter una sola volta, qualche anno dopo, in occasione della festa di S.
Barbara, patrona degli Artiglieri. Sono passato a salutare il mio colonnello, che nel
frattempo era diventato comandante della caserma. Mi ha riconosciuto e accolto con
piacere. Nell‟occasione i colleghi di carriera mi hanno riferito che il comandante
abitava ancora nella casa che gli avevo trovato io. L‟avevo proprio trovata giusta!
IL PERIODO POST - MILITARE
Al ritorno dal servizio militare l‟ambiente dove lavoravo era nettamente migliorato,
la fabbrica dei fumi era stata chiusa, i turni di lavoro erano più leggeri e il nuovo
direttore mi ha accolto a braccia aperte. Sembrava che il colonnello avesse inviato in
Centrale le credenziali guadagnate con il servizio militare. Eppoi fisicamente ero un
altro rispetto a diciotto mesi prima, e inoltre ero positivamente carico anche nello
spirito.
Nel frattempo l‟amico Gioanin stava facendo il servizio militare a Caserta e Primo
era andato ad abitare a Marocco, oltre il fiume Dese, sotto il comune di Mestre.
Entrambi si erano accasati ossia si erano trovata la morosa. Io al momento ero rimasto
il solo dei tre amici ad abitare in via Bianchi e per giunta senza fidanzata. E‟ il periodo
in cui mi sono dedicato allo sport, in particolare alle bocce ottenendo risultati
lusinghieri, come ho già detto in precedenza. La situazione è durata così per circa un
anno, con Gioanin che era tornato dal servizio militare, ma aveva la morosa per cui di
domenica era impegnato, come pure Primo. Ci si incontrava lo stesso, per esempio il
sabato sera, ma le occasioni di stare assieme erano molto ridotte rispetto a prima. Io,
di solito, la domenica andavo al cinema da solo, magari a Treviso o a Mestre. E fu
così che una domenica pomeriggio, mentre stavo per andare a prendere la filovia, per
recarmi a Treviso, ho incrociato Primo, che si recava a Zero Branco per incontrare la
morosa. Viaggiava su un Ape, uno di quei minuscoli motocarri usati per piccoli
trasporti, con due posti nel vano guida. A quel tempo Primo aveva aperto un negozio
di frutta e verdura a Mestre, con un suo cugino, e usava quel mezzo per il suo lavoro.
A quell‟incontro casuale seguì la proposta di Primo affinché occupassi il posto
accanto a lui, per accompagnarlo a Zero Branco. Di fronte al mio diniego, giustificato
dal fatto che ero intenzionato ad andare a Treviso per vedere un film, Primo insistette
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dicendo che anche dove era diretto lui c‟era una bella sala cinematografica. Mi disse
che sarebbe venuto anche lui al cinema, poi avrebbe accompagnato a casa la morosa e
sarebbe venuto a riprendermi per riportarmi indietro. A questo punto, vista
l‟insistenza, mi sembrava di fare un torto a un mio grande amico, per cui salii sul
mezzo e insieme “sbarcammo” in quel di Zero Branco. Era la prima volta che ci
arrivavo nonostante fosse un paese limitrofo al mio. Dopo aver parcheggiato
l‟inusuale mezzo, ci siamo avviati verso la piazza, dove s‟intravvedeva un nugolo di
ragazze, disposte in cerchio, intente a chiacchierare. Tra queste c‟erano naturalmente
la Gina, morosa di Primo e altre amiche della cerchia di ragazze che frequentavano
l‟ambiente della parrocchia e della casa delle suore annessa alla chiesa. Sono entrato
nel cerchio delle chiacchiere non prima di aver notato qualche bisbiglio del tipo: - Ma
chi è questo?- Un amico di Primo- Mai visto!- E da dove viene? Avevo insomma
destato una certa curiosità. Dopo un po‟ di conversazione siamo andati tutti al cinema.
Poi, la sera, Primo mi ha riportato a casa come previsto. La domenica seguente sono
ritornato ancora con la scusa che era in programma un film che mi piaceva, ma era
proprio una scusa, perché in realtà era insorta in me una certa curiosità, un certo non
so che. Questa volta mi ero recato a Zero Branco col mio mezzo, cioè con la mia bici
Legnano tutta “lustrata”. La domenica successiva replica, con la differenza che dopo il
film ho accompagnato a casa una ragazza del branco. Così avevo trovato il modo di
isolare una preda come fanno i predatori quando vanno a caccia. Solo che in quel caso
non so chi fosse il cacciatore e chi fosse la preda. Gli uomini sono sempre convinti di
essere loro a scegliere, le donne lasciano credere. Così, nonostante le solide difese
immunitarie, che mi portavo addosso, sono stato contagiato ed ho preso la strada della
relazione fissa. Eh sì, la ragazza di quella volta è mia moglie Franca, compagna di vita
da quarantasei anni. Durante il periodo di fidanzamento ho avuto qualche crisi di
rigetto, una specie di sindrome del “mammone”, che ti fa provare una strana
sensazione di vomito ogni volta che pensi al matrimonio, ma la cosa l‟ho sempre
tenuta per me e vinta da solo, senza mettere in apprensione la mia compagna, che del
resto non ne era la causa perché era solo una mia predisposizione.
Intanto passavano gli anni e Gioanin aveva messo in cantiere una figlia per cui ha
dovuto anticipare le nozze. Inutile dire che i testimoni di nozze, cioè i “compari ”,
siamo stati io e Primo. Qualche tempo dopo anche Primo è convolato a giuste nozze e
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naturalmente anche in questo caso i “compari ” non potevamo che essere il sottoscritto
e Gioanin. Da quel momento mi sono trovato ancora una volta allo scoperto. I miei
due amici per la pelle ogni tanto mi lasciavano solo, in balia del vento.
In quel momento io mi stavo costruendo la casa per andarci a vivere dopo sposato.
Erano i tempi in cui uno si metteva a costruire l‟abitazione partendo con poche risorse
e mettendoci un sacco di lavoro proprio. Così dovevi ricorrere all‟aiuto del cognato
muratore, dell‟amico marmista, dell‟amico idraulico, falegname, elettricista e a tutti
questi dovevi dare una mano consistente. Valutando le risorse economiche di cui
disponevo e le previsioni di spesa si prospettava la possibilità di terminare i lavori e
quindi di poter fissare il matrimonio all‟inizio del 1966. Con un po‟ di fortuna, sono
riuscito a trovare risorse per finire prima i lavori e a maggio del 1965 mi sono sposato
andando ad abitare nella nuova casa nel quartiere S. Marco. E chi potevano essere i
due testimoni di nozze? Gioanin e Primo, naturalmente! In quel momento finiva la
mia vita al Baronbianchi: la mia infanzia, adolescenza e gioventù restavano un dolce
ricordo! Iniziava un‟altra fase della vita.
PARTE II°
IL DOPO BARONBIANCHI
All‟epoca del matrimonio Gioanin abitava di fronte all‟entrata del cimitero mentre
Primo abitò per qualche anno in quel di Marocco per poi trasferirsi definitivamente in
una casa costruita nei terreni della sua infanzia. Per anni il lavoro e gli impegni per la
famiglia hanno diradato le occasioni dei nostri incontri. Ognuno di noi ha avuto le
proprie vicende più o meno belle. Il destino ha riservato per me la cosa più atroce che
possa capitare a un uomo, a un padre. Dover assistere impotente alla malattia, alla
sofferenza e alla morte di un proprio figlio. Dicono che un uomo può morire di
crepacuore, ma molti pensano che sia solo un modo di dire. Io posso testimoniare che
in casi come il mio, oltre all‟immane sofferenza morale, si prova un atroce dolore
fisico, simile a una trafittura causata da una lancia che entra e squassa il costato, al
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livello del cuore: sì, io ci credo che si possa morire da crepacuore. A me non è
capitato, ma sono sicuro di esserci passato molto vicino. Poi chissà, il pensiero rivolto
ai tuoi cari, alla compagna della tua vita, agli altri figli, Paola e Alessandro, ti fa piano
piano superare il momento critico. Ma da quel momento non sei più tu, ti si svuota
dentro qualcosa che ti apparteneva, assumi come un‟altra identità.
Poi gli anni sono passati, molti mio Dio, a volte senza nemmeno accorgersene. E così
è arrivato anche il momento di dare l‟addio all‟attività lavorativa, è arrivato il
pensionamento. Anche in questo, del terzetto è Gioanin ad aprire la fila, il secondo è
come il solito Primo, infine arrivo io. Ora le occasioni d‟incontro dei tre amici
ritornano frequenti, il nostro richiamo, il nostro particolare fischio prolungato
riecheggia con più frequenza. Qualche tempo dopo il mio pensionamento abbiamo
organizzato una settimana di vacanza, noi tre soli, senza famiglia, che ci ha fatto
riportare ai tempi antichi, a quando eravamo ragazzi. Ho due carissimi amici, nel
Cadore, Silvano e Vittorina che hanno ristrutturato un vecchio tabià, immerso nei
boschi sopra Valle di Cadore, ricavando un‟accogliente casetta rustica. Ed è proprio lì
che con lo spirito di tre scout ci siamo recati per quella vacanza, isolati dal resto del
mondo. Gioanin si era attrezzato come ai bei tempi: calzoni corti, a torso nudo e con
in tasca l‟immancabili fionda e britoin. Aveva anche portato un coltellaccio, una
specie di pugnale di quelli che si vedono nei film del Far West. Lo lanciava, con
maestria, conficcandolo, contro una grossa tavola posta contro una parete esterna del
tabià, come fosse Buffalo Bill. In una settimana di permanenza in quel luogo ha
sforacchiato la grossa tavola facendola sembrare un colabrodo. Primo si era portato
una tuta mimetica di quelle usate dai militari, recuperata chissà dove. In quella
settimana le giornate iniziavano con la ricca colazione che Gioanin preparava con
cura. Usava il suo coltellaccio ben affilato per affettare la pancetta e la sopressa. Poi io
e Primo partivamo per andare a funghi mentre Gioanin restava attorno al capanno a
tirare con la sua fionda a ogni cosa che si muovesse tra gli arbusti, a lanciare il suo
pugnale e a intagliare ramoscelli col suo britoin. Poi preparava il pranzo di
mezzogiorno, un‟abbondante pastasciutta e qualcosaltro. Cucinava anche della roba
alla brace, con vera maestria. Inutile dire che il pendio della montagna, tutto coperto
di alberi, riecheggiava dei nostri periodici richiami, del nostro personale fischio. Verso
mezzogiorno io e Primo tornavamo con il nostro bottino di funghi. Io conoscevo bene
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la zona, non avevo bisogno di fare lunghe camminate. Tornavo con una quantità non
esagerata di funghi, raccoglievo solo pochi tipi, i più pregiati e sicuri. Inoltre li pulivo
accuratamente sul posto della raccolta. Primo tornava sempre molto più tardi di me,
dopo aver percorso come minimo il triplo della strada percorsa da me e quando la
pasta era già in tavola, venendo così investito da una valanga d‟improperi da Gioanin.
Inoltre Primo arrivava con due o anche tre borse colme di funghi, di tutti i tipi, anche
di qualità assolutamente scadente o di dubbia commestibilità e senza essere stati
minimamente puliti. Questo era come aggiungere benzina su un fuoco già acceso.
Ogni giorno il pranzo di mezzogiorno era quindi consumato tra uno sfottò e l‟altro, tra
i miei due compari, con me là in mezzo, a smorzare un po‟ i toni. Ma non c‟era astio
tra i due, era un battibecco dal tono canzonatorio, com‟è sempre stato per tutta la vita:
non c‟è mai stato nessun screzio serio. Appena finito il pranzo, i miei due amici si
ritiravano per fare il pisolino, ed io, che non ero uso a questo rito, mi mettevo a pulire
e riporre le stoviglie. Poi anch‟io mi mettevo un po‟ sdraiato, ma non nel letto dentro
casa, bensì a prendere un po‟ di sole all‟esterno nel prato antistante al tabià. Il
pomeriggio lo si passava tutti assieme attorno al tabià, a chiacchierare, a tirare con la
fionda, a giocare a carte. La sera, dopo cena o addirittura per cenare assieme, arrivava
il mio amico Silvano, proprietario del tabià, che restava con noi fino a notte inoltrata
per fare il quarto al gioco delle carte, per scambiare quattro chiacchere e per bere
qualche buon sorso di grappa, in compagnia. Poi si andava a letto, immersi in un
silenzio incredibile. Durante la notte i miei due amici si alzavano un paio di volte per
fare la pipì. Non usufruivano del servizio igienico interno, ma uscivano verso il bosco.
Io che non avevo questa esigenza, li sfottevo un po‟, dicendo che quando sarei stato
vecchio come loro avrei dovuto anch‟io alzarmi di notte. Poi rincaravo la dose
dicendo di stare attenti perché ci poteva essere nei paraggi qualche orso in calore, che
di notte non può distinguere bene se uno è maschio o femmina. Allora lo scambio di
battute diventava esilarante, un vero spasso. Il mattino ci si svegliava con l‟unico
rumore provocato da un ghiro che aveva fatto la tana tra l‟intercapedine del tetto e
correva su e giù di buon‟ora. La vita poi riprendeva come gli altri indimenticabili
giorni. Eh, sì, proprio così, ci pareva di essere tornati giovani, anzi bambini, in
qualche momento. Ci mancava che io e Gioanin ci fossimo messi a fare la cacca uno
accanto all‟altro, come ai bei tempi, all‟aperto, per poi fare la solita disputa su quale
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fosse stata più abbondante. Ma in quel posto mancava la pompa della bicicletta e la
palettina da cucina economica, le due armi per dar luogo alla tenzone.
Con il pensionamento Gioanin si era messo a coltivare assiduamente il pezzo di
terreno che possedeva davanti a casa, ricavando un orto veramente ben curato e un
piccolo vigneto. Ogni volta che passavo a salutarlo non mancava mai di regalarmi
qualche prodotto del suo orto da portare a mia moglie. Oltre a questo metteva in
pratica la sua abilità nel costruire svariate cose come cesti di vimini e svariati attrezzi
di tipo artigianale. Costruiva reti da pesca per Primo, sapeva impagliare sedie come
una volta, ha costruito delle scale per me e per Primo fatte in modo professionale e
ancora in efficienza. Una volta, passando a casa mia per salutarmi, mi ha visto
adoperare, in giardino, un piccolo rastrello e mi ha subito detto che me ne avrebbe
fatto uno di bello come si usava una volta. Infatti, l‟attrezzo donatomi è ancora
efficiente come nuovo e l‟uso ogni qualvolta mi serve.
Con il pensionamento Primo non aveva certo problemi di come passare il tempo.
Aveva un bel pezzo di terreno in cui ha sistemato un bel vigneto, un ampio orto e tante
varietà di alberi da frutto. Aveva il pallino di fare innesti strani per cui sul suo terreno
trovavi, qua e là, delle piante che facevano tre o quattro frutti, della stessa famiglia,
ma diversi. E poi Primo aveva la passione viscerale per vivere a contatto con la natura,
per la caccia, per la pesca e per la raccolta di funghi.
Da parte mia ho atteso il pensionamento per potermi finalmente dedicare al disegno,
alla pittura e allo sport. Per lo sport il cuore mi avrebbe spinto verso l‟atletica leggera
ma, pensandoci bene, era inopportuno ritornare a una qualsiasi forma di attività
agonistica di quel genere. Sì, c‟è gente che continua a gareggiare, nelle categorie
Master, a qualsiasi età, ma credo non sia ragionevole sollecitare tendini, giunture e
muscoli vari facendo salti, lanci ecc, una volta raggiunta una certa età. Allora, anche
su consiglio di un fisiatra, cui mi ero rivolto per problemi di cervicali, mi sono
dedicato con assiduità al nuoto, incominciando da zero, cioè dal semplice
galleggiamento per arrivare a praticare il nuoto con tutta naturalezza, come si trattasse
di camminare. Questo mi ha procurato e mi sta portando, anche ora che ho superato i
settant‟anni, dei grandi benefici, fisici, ma non solo. Per quanto riguarda il disegno e
la pittura anche in questo caso si tratta di un antico amore accantonato. Qualche tempo
prima del pensionamento mi stavo riavvicinando a questo hobby incominciando a
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riempire fogli su fogli di disegni di nature morte, di figure umane, di volti. Usavo per
lo più la matita, ma poi ho incominciato a essere attratto da un pastello rossiccio.
Casualmente, un giorno, la moglie di un vecchio pittore veneziano, che era venuto ad
abitare non lontano da casa mia, ha visto alcuni fogli, ha voluto subito farli vedere al
marito. Da qui è nata un‟urgente convocazione del pittore che ha voluto conoscermi e
ha incominciato a martellarmi di proposte, consigli, strade da percorrere da subito,
perché, diceva lui, è un peccato non sfruttare le doti che aveva intravvisto in me. Per
prima cosa mi ha detto che la matita rossa che usavo era simile alla sanguigna, ma che
usando la vera sanguigna e opportuni cartoncini il risultato sarebbe stato più
pregevole. Poi mi ha detto che dovevo imparare a conoscere i colori, la pittura a olio,
l‟acquerello e così via. Ho incominciato a frequentare lo studio del vecchio pittore, a
eseguire la prima tela a olio, i primi pastelli a olio, ad ascoltare i consigli sulle varie
tecniche. A casa facevo ancora le mie sanguigne, i miei carboncini, che poi portavo a
vedere al mio amico pittore che apportava modifiche, sopratutto marcando il segno e
appesantendo, secondo me, l‟opera, che alla fine non mi piaceva più perché non
esprimeva quello che volevo realizzare. Così sono andato per la mia strada, ho
continuato a frequentare lo studio del vecchio pittore, ma solo per darli una mano in
certe occasioni. Sono stato assieme in occasione di sue mostre, mi ha fatto conoscere
persone dell‟ambiente, verso il quale ho percepito come un‟istintiva repulsione. Io
intanto continuavo le mie sperimentazioni e mi sono sbizzarrito a provare tutte le
tecniche acquisendo man mano sicurezza. Alla fine è rimasta la mia preferenza per la
tecnica a sanguigna e a carboncino, dove riesco meglio a esprimere le emozioni che
provo. Per scelta non ho mai voluto partecipare a esposizioni, mostre o concorsi. Così
sicuramente non si lievita nelle quotazioni, ma resta la grande soddisfazione di offrire,
alle persone che manifestano di gradirlo, delle opere che poi ho modo di vedere
esposte in vari luoghi, anche all‟estero.
Intanto gli anni passavano e il terzetto di compari incominciava a manifestare
qualche acciacco, qualche segno dell‟età. Tre o quattro anni dopo la vacanza in
Cadore, Gioanin, che pure era riuscito da qualche tempo a mettersi in riga, eliminando
quegli eccessi alimentari in cui si cade quando si smette di lavorare, restava sempre in
sovrappeso e incominciava a manifestare problemi al fegato. In quel periodo, ha
subito un primo intervento in laparascopia e dopo qualche tempo un secondo.
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Sembrava rimettersi, ma dopo qualche mese ha patito una grossa emorragia interna
dalla quale si è rimesso dopo un certo tempo. E‟ passato ancora un periodo in cui
stava alla meno peggio ma poi è ricaduto in un‟altra grossa emorragia interna. Ha
rischiato di morire ma è andato fuori pericolo e pian piano si stava rimettendo, anche
se è rimasto in ospedale per essere seguito meglio. A un certo punto, mentre si
avvicinavano le feste Natalizie del 1999, pareva che fosse prossimo alla dimissione.
Sono andato a fargli visita con mia moglie, per salutarlo e per dirgli che lo aspettavo a
casa a Natale per guardare assieme il film “Lultimo dei Moicani” di cui avevo appena
acquistato la cassetta. Quando arrivai in ospedale, lo trovai con la moglie, la figlia
Francesca e le due nipotine. Si trovava nella saletta d‟attesa del reparto. Si è mostrato
felice di vedermi proseguendo con tutti la conversazione. Appariva stanco, ma era
comprensibile, visto il travaglio subito. Alla fine del colloquio ci siamo salutati e gli
ho ricordato l‟invito per Natale. Ma a quel Natale non è mai arrivato! Tre o quattro
giorni dopo il nostro incontro la Gina, sua moglie, ci ha telefonato di prima mattina.
Ha risposto mia moglie che così ha appreso che durante la notte Gioanin aveva avuto
una crisi ed era morto. Sono andato a vederlo e salutarlo all‟obitorio prima dell‟ultimo
viaggio. Sembrava stesse dormendo e abbozzava come un lieve sorriso, accentuato da
quella fossetta che aveva sotto il mento. Sembrava volermi dire in tono canzonatorio,
come quando da ragazzo saltava il fosso per primo: - Io l‟ho fatto il salto, ora tocca a
tè -. Il momento di quel salto, caro amico non sarò io a deciderlo, ma verrà, verrà,
vedrai!
Dopo quel giorno, di tanto in tanto mi guardo il film “L‟ultimo dei Moicani” e, se mi
distraggo un po‟, mi sembra proprio di essere seduto accanto al mio amico, come ai
bei tempi, al cinema Busan.
Gioanin era stato vittima, di quanto assorbito in anni di lavoro in reparti nocivi a
Porto Marghera. La nostra generazione ha pagato a duro prezzo lo sviluppo industriale
di Marghera che, ha sì permesso di incrementare l‟occupazione evitando la necessità
di dover ricorrere all‟immigrazione, ma ha mietuto una vera e propria strage, più o
meno riconosciuta, di gente che non percepiva il reale pericolo cui andava incontro.
Anch‟io penso di poter addebitare alla ventennale attività lavorativa a Marghera
quanto mi è capitato verso i sessant‟anni. Al mio ritorno dal servizio militare ero
contento perché non c‟era più, accanto a noi, la fabbrica che emetteva quel fumo che
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tanto m‟infastidiva. Ma non avevo fatto i conti con un nemico, allora sconosciuto, che
si trovava anche all‟interno della nostra centrale termoelettrica. Si trattava
dell‟amianto che, essendo un ottimo isolante termico, era usato senza mezze misure.
Sono quindi stato a contatto di questo micidiale minerale per anni e anni. Arrivato a
circa sessant‟anni, quasi dopo tre dal pensionamento, ho pensato bene di sottopormi a
un cheek – up, com‟era consigliato a chi arrivava a quell‟età. Mi sono quindi
sottoposto a una serie di esami, controlli vari, che davano tutti esiti più che buoni. Alla
fine mancava un‟ecografia addominale, che, a quel punto, sembrava una formalità. La
dottoressa che eseguiva l‟ecografia passava e ripassava il moderno strumento, su e giù
per l‟addome. Poi mi ha chiesto se avevo mai avuto dei problemi ricevendo per
risposta un deciso no. – Bene – disse – ora vediamo con la vescica vuota. Vada a fare
la pipì là dentro - proseguì, indicando una porticina accanto – non serve che chiuda la
porta -. Stavo per iniziare l‟operazione mentre la dottoressa dettava le sue conclusioni
al computer : – Nel rene destro si nota una massa circolare di oltre cinque centimetri
con al centro una massa circolare di circa mezzo centimetro di diversa
conformazione.- In quel momento mi sono irrigidito, si è bloccata automaticamente
l‟operazione che stavo compiendo, mentre dentro di me ho incominciato a sperare che
quanto la donna dettava si riferisse al paziente che era entrato prima di me. La
dottoressa intanto mi chiedeva: - Non ha ancora finito? - Ed io allora a rispondergli –
Mi scusi, sarà perché non è chiusa la porta. – E quella con voce incalzante replicò: - Si
sbrighi! -. Alla fine sono riuscito, in qualche modo, a rilassarmi e a completare l‟opera
consentendo alla dottoressa di terminare l‟indagine. A quel punto la donna mi ha
consegnato la lettera per il mio medico dicendomi che era opportuno fare un‟urgente
indagine più approfondita, tramite una tac. Non ho trovato la forza di chiedergli nulla
e sono partito come in “trance”, salendo in macchina e ritornando verso casa dopo
aver imboccato una strada contromano. Per strada ho pensato che era giunto il
momento di pensare alle ultime volontà, mi sentivo prossimo al capolinea. Sono corso
immediatamente dal mio medico che ha incominciato a tergiversare, a dirmi che
poteva trattarsi di tante cose, di non fasciarsi la testa prima della botta. Poi mi ha
mandato per una visita urgente in ospedale, dove sono stato visto da un dottorino alle
prime armi, che mi ha ripetuto la stessa solfa, e mi ha consigliato, dove andare per una
tac urgente. Nessuno che avesse capito che io avevo bisogno di una sola risposta al
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mio interrogativo: c‟erano speranze o per me era finita? Per fortuna, quando sono
tornato al reparto ospedaliero per il ritiro di un modulo, l‟infermiera addetta allo
sportello ha letto nel mio volto la disperazione che avevo dentro. Mi ha chiesto cosa
avevo ed io ho vuotato il sacco. Mi ha ascoltato con pazienza e alla fine mi ha detto: Ma signore, suvvia! Ascolti me che sono qui da tanti anni. Nella peggiore delle
ipotesi dovrà farsi togliere il rene ammalato e poi vedrà, non se ne ricorderà più. Vivrà
senza problemi. Conosco gente che ha avuto lo stesso problema venti, trent‟anni fa e
vive in buona salute. Il male si vince affrontandolo con decisione. Incominci da subito
ad affrontarlo!- Non la potrò dimenticare quella donna: svolgeva un ruolo meno
appariscente di altre persone che giravano in reparto con il distintivo dei laureati, ma
per me ha avuto un ruolo fondamentale, mi ha subito fatto rivivere, mi ha spronato. Le
cose poi sono andate esattamente come aveva detto quella donna. Da parte mia ho
solo pensato ad accelerare i tempi, senza esitazioni. Un mese dopo l‟intervento al rene
ero già ritornato in piscina, alle mie normali attività e ora, se mi chiedono da quale
lato, ho subito l‟asportazione, devo pensarci un po‟ per ricordare.
Primo, fin dai tempi della nostra straordinaria vacanza in Cadore, manifestava
l‟insorgere del morbo di Parkinson, che poi si è progressivamente sviluppato. Dopo ha
dovuto sottoporsi all‟impianto di una protesi a un ginocchio, che era ormai finito. Ha
inoltre perduto buona parte dell‟udito dovendo ricorrere anche in questo caso a una
protesi. Ma quando andavo a trovarlo non era mai dentro casa, era sempre intento a far
qualcosa nel suo cortile, nei suoi campi o a pescare o su e giù tra le siepi a cercare
funghi, sempre in mezzo alla natura. Andava giù per la riva del “Pianton” a ritirare le
“nasse” per la cattura dei pesci e a piazzarne di nuove, a posare trappole per le
pantegane, ecc. Una volta l‟ho trovato intento a queste cose, con un piede in acqua e
uno sulla riva, un po‟ traballante a causa del suo male. Mi è venuto spontaneo dirgli: Stai attento Primo che una volta o l‟altra ti trovano annegato, là, dentro al “Pianton” -.
Egli con un mezzo sorriso, alzando il capo, mi ha risposto: - Me lo dicono sempre
anche la Gina e mio figlio Luca, ma sta tranquillo compare, fin che non è la tua
ora.…., e poi, meglio morire in un canale che sopra un letto d‟ospedale -. E
continuava il suo lavoro.
Qualche tempo dopo io e mia moglie Franca siamo andati a far visita a Primo e alla
Gina. Quel giorno Primo era a casa da solo poiché la moglie era all‟ospedale per far
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compagnia alla sorella. Lo abbiamo trovato arrampicato su una scala di quelle
costruite dal nostro inseparabile Gioanin. Stava raccogliendo caki da una pianta posta
davanti al laboratorio del figlio Luca. Ci siamo avvicinati per scambiare due
chiacchiere. Mia moglie gli ha raccomandato di stare attento, ma lui l‟ha rassicurata
dicendo che era vecchio di mestiere. Ha poi detto che ci avrebbe regalato una cassetta
di caki, ma quando gli abbiamo detto che a casa ne avevamo già parecchi ha reciso un
rametto con tre frutti e li ha offerti alla Franca dicendo di accettare almeno quelli.
Allora io, in tono scherzoso e facendo il finto offeso gli ho detto: - Potrei anche essere
geloso! - Poi è arrivato a casa il figlio Luca, nostro figlioccio, e allora la Franca l‟ha
accompagnato nel laboratorio per fare due chiacchiere. Intanto Primo aveva terminato
la raccolta e allora l‟ho aiutato a caricare le cassette in un carrettino di quelli a due
ruote che una volta si attaccavano dietro alle biciclette. Prima però gli ho fatto notare
che erano rimasti dei caki sulla pianta. Immaginavo già il motivo di quella raccolta
incompleta: non per niente ci conoscevamo da una vita. Ma ho voluto stuzzicarlo.
Allora lui, guardandomi con uno sguardo un po‟ ironico mi ha detto: - Ho lasciato la
razione, la giusta quota che spetta agli storni - . - Eh, sì, l‟ho sempre saputo che tu
vuoi bene agli storni. - gli ho risposto, - E dove ti apposti quando gli uccelli vengono a
prendere la loro razione? - Mi ha risposto con un sorriso guardando verso un capanno
posto poco lontano.
Poi ho fatto per aiutarlo a spingere il carrettino verso il
magazzino, ma lui mi ha detto di lasciarlo fare da solo. In un primo momento ci sono
rimasto male, ma poi ho capito che in quel modo trovava meglio l‟equilibrio. Poi l‟ho
aiutato a scaricare le cassette nel magazzino continuando a conversare. A un certo
punto gli ho detto che ero passato al cimitero per salutare Gioanin. - L‟ho salutato con
il nostro fischio - E lui guardandomi con un mezzo sorriso mi ha chiesto: - Ti ha
risposto? - Sì, - ho replicato io - c‟è voluto un po‟ per sentire la risposta, ma è
arrivata.- Poi ho continuato dicendo: - Sai, ha fatto un viaggio lungo quel giorno, il
nostro amico! – Eh, si - ha ribadito Primo - anche noi un giorno o l‟altro faremo quel
lungo viaggio -. Ho quindi salutato Primo e ho richiamato la Franca per tornare a casa.
Al momento di partire, un fischio - il nostro richiamo - mi ha fatto girare ed ho visto
Primo che stava arrivando con una grossa zucca tra le mani. Nel porgermi
quell‟ortaggio mi ha detto: - Prendi questa zucca, è di una qualità nuova, che ho
provato a piantare quest‟anno. Provala poi mi saprai dire se è veramente buona -.
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Quell‟attimo, quel gesto che Primo aveva fatto tante volte verso di me, è l‟ultima
visione che ho del mio amico in vita.
Tre giorni dopo sono uscito presto da casa per una commissione. Al ritorno mia
moglie mi è venuta incontro abbracciandomi e singhiozzando: - E‟ morto Primo,
annegato. Povero Primo! - Ci ho messo un bel po‟ per riportare la Franca nella
condizione di raccontare. Lei è fatta così, è spontanea, ha un‟anima semplice, riesce
così a sfogare le emozioni, il dolore. Io invece sono l‟opposto, non riesco a piangere,
sembra che mi voglia controllare, ma non è frutto di volontà, è solo una cosa naturale,
che m‟impedisce di smaltire le emozioni e il dolore.
Quando ho sentito dire la parola “annegato”, mi è subito venuto in mente il
“Pianton” e ho pensato che si fosse verificata la triste ipotesi più volte paventata dai
famigliari e da me stesso. Ma poi ho sentito la versione dell‟accaduto. Il giorno prima,
il mio amico, verso l‟imbrunire, era partito da casa, in bicicletta, a causa della
difficoltà a fare percorsi un po‟ lunghi a piedi, per andare in cerca di funghi in un
posto a lui famigliare. – Torno subito- ha detto alla moglie – vado qua vicino. Ma il
tempo passava e stava arrivando la sera. La moglie, impensierita, ha avvisato il figlio
Luca che, dopo un po‟ di speranzosa attesa, è partito alla ricerca del padre. Ma la
ricerca non portava alcun frutto per cui si era fatto buio. Allora Luca è ritornato a casa
a prendere una torcia e il cane amico di Primo. Dopo qualche tempo è stata trovata la
bici e quindi, non lontano, il corpo del mio amico, ormai morto, disteso a pancia in
giù, in un piccolo fosso con un rigagnolo d‟acqua. Com‟era intuibile, la successiva
autopsia ha stabilito che quando il povero Primo ha toccato il terreno, a pancia in giù,
era già morto per un infarto fulminante avvenuto al momento di chinarsi per cercare
funghi. Il mio caro amico ha così terminato la sua esistenza in mezzo alla natura,
come avrebbe sempre desiderato, intento a uno dei suoi usuali passatempo.
Da quella volta quando passo al cimitero faccio due volte il nostro fischio per
salutare i miei due amici. La risposta arriva dopo un po‟, la sento io solo, ma arriva.
Era scritto da sempre, nei numeri, che finiva così. Eravamo tre amici, in tutti gli
eventi della vita prima è toccato al più giovane, poi al più vecchio infine a quello di
mezzo, che sono io. E‟ successo così per la fine del periodo scolastico, per l‟inizio del
lavoro, per il fidanzamento, per il matrimonio, per l‟arrivo del primo figlio, per il
pensionamento: doveva per forza essere così anche per l‟appuntamento con l‟ultimo
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evento della vita.
Dicono che diventare vecchi sia una fortuna, in un certo senso può essere vero, ma
quanta gente, quanti amici, compagni di vita, parenti, capita di accompagnare
nell‟ultimo viaggio terreno. Se poi il destino ti ha riservato anche l‟atroce evento della
perdita di un figlio, allora ti vengono mille pensieri, ti sorgono mille domande.
Un giorno suonerà anche per me la campana dai lenti rintocchi. Quel giorno, quando
approderò in un mondo ad altre dimensioni, troverò ad attendermi Alberto, mio figlio,
che mi tenderà la mano. Io fiducioso gli porgerò la mia come egli faceva da bambino
verso di me. Egli mi guiderà con passo sicuro. Io, ahimè, non sono riuscito a fare
altrettanto, a guidarlo fuori dalla palude, dalle infide sabbie mobili che ha incontrato
da bambino!
– VUOLSI COSI‟ COLA‟ DOVE SI PUOTE CIO‟ CHE SI VUOLE – direbbe il
sommo poeta – E PIU‟ NON DIMANDARE ! - .
Ma come faccio, come può la mia mente di piccolo mortale non chiedersi, in ogni
istante della vita che resta da vivere: PERCHE‟, PERCHE‟ tutto questo, mio
Dio….PERCHE‟ ?
………. ____ ………..
Il tempo cancellerà le tracce delle persone e delle cose che ho citato in queste
memorie, ma sono certo che anche tra qualche millennio, se ci sarà una persona
dall‟animo sensibile, con l‟udito fine, che si metterà in un angolo di terra ad ammirare
il cielo stellato, sentirà degli strani, lontani richiami, degli strani fischi modulati
rimbalzare tra gli astri. Sì, sarà proprio così, se ci sarà ancora un angolo di terra per i
romantici.
ad Alberto
ai miei genitori
a Gioanin e Primo
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