vygotsky, cubillas e il goal impossibile possibilità e impossibilità

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vygotsky, cubillas e il goal impossibile possibilità e impossibilità
International Journal of Psychoanalysis and Education - IJPE
ISSN 2035-4630
2009 vol. I, n° 2
(riferito alla versione telematica pubblicata all’indirizzo www.psychoedu.org)
VYGOTSKY, CUBILLAS E IL GOAL IMPOSSIBILE
POSSIBILITÀ E IMPOSSIBILITÀ NELLA RIABILITAZIONE
PSICOSOCIALE TRAMITE FOOTBALL
Vincenzo Carboni
Assistente Sociale
“Fanno quello che vogliono, ma quel che si può non possono farlo. Chi può, può solo l‟impossibile”.
Carmelo Bene (1986), Lorenzaccio, Nostra Signora Editrice.
“Il calcio? Fare quello che non si può fare per divertire la gente”
D.A.Maradona, da una intervista a “Studio Sport”, Mediaset, del 19/5/03,
dopo aver palleggiato un numero imprecisato di volte con una pigna caduta da un albero
Premessa
Il football può essere uno strumento di azione ri-abilitativa in gruppi di
preadolescenti con disagio? Credo di sì, soprattutto se l‟azione innescata porterà indietro
(avanti?) ad aprire antichi varchi creduti consolatoriamente chiusi per sempre. A questo
proposito vi parlerò di una delicata fase di sviluppo del lavoro psicosociale tramite sport,
una fase nella quale ognuno (compreso il coach/educatore) è costretto dalle necessità
riabilitative ad attraversare il proprio personalissimo deserto, intendendo con „deserto‟
l‟area del proprio disagio. Si tratta di una fase necessaria per un‟attività che voglia dirsi „riabilitativa‟ nel suo senso più pieno. Attraversare il proprio deserto vorrà dire effettuare un
organo dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa A.P.R.E. diretto da R. F. Pergola
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esodo da un “Non sono buono a fare niente!”, ad un “Forse posso…”, ed il punto è proprio
sulla parola „forse‟.
Quando si potrà dire di aver fatto un tratto di strada? Quando da una fase di „azione‟
(intesa come la parte di allenamento cognitivo volta ad assumere nuove funzioni di
adattamento rispetto al gruppo) si passerà naturalmente ed in-coscientemente al
compimento di un atto: un tiro al volo che si insacca all‟incrocio dei pali, oppure –in
maniera meno eclatante ma più interessante per i nostri scopi- un movimento di corsa sul
campo in armonia con i compagni tale da impedire alla squadra avversaria di manovrare
con agiatezza e realizzare un goal certo.
Quel goal impossibile…
Mentre mi accingevo a gettare su carta qualche riga, nella mia testa appariva e
scompariva a più riprese la scena di un goal. Due giocatori in maglia bianca con banda
rossa diagonale sistemano il pallone sul punto di battuta. Si tratta di una punizione diretta.
Il pallone è posto a circa cinque metri in linea retta dall‟angolo dell‟area scozzese. Dopo mi
sono chiesto: com‟è potuto accadere veramente? Sì, perché quel tiro avrebbe dovuto di
logica finire in tribuna, eppure… Avevo solo quindici anni ai mondiali del settantotto, e a
me interessava solo di Rossi e Bettega.
Avevamo appena battuto l‟Argentina padrona di casa. Ma dopo aver visto ScoziaPerù ricordo che chiesi a mio padre il nome di quel giocatore capace di tanto. Mi rispose
che si chiamava Teofilo Cubillas. Il nome non mi disse nulla, ma fu da allora che cominciai
a guardare al di là dell‟azzurro di quelle casacche che conoscevo già.
L’area del nostro (mio e loro) disagio
Avvertiamo la presenza di un „mancato‟. Qualcuno tempo fa ci ha fatto credere di
poter riuscire in qualcosa, ma la frustrazione dell‟aver esperito il processo di apprendimento
derivante come intrinsecamente complesso ci ha fatto abdicare dall‟impresa. Ora rimane
l‟assenza di quella speranza, un buco nero buio e profondo, assolutamente insondabile. Si
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tratta di illuminare quel vuoto: ecco cosa una esperienza di riabilitazione psicosociale di
fatto realizza. Ma tornare sui vecchi passi è doloroso, specialmente quando le tracce sono
state cancellate, e le piste non sono più riconoscibili. Si tratta di fare quel cammino a ritroso
senza la consolazione di una volta (essere bambini e perfettamente in/coscienti) e senza ì
riferimenti in/certi di una volta (i nostri genitori). Ma avvertire la presenza di un „mancato‟
è già il primo segno di una baluginante fiducia: altrimenti perché ragazzi con disagio
sociale e forte deprivazione si sentirebbero di appartenere ad un gruppo dove tramite il
calcio si può (forse) conoscere meglio sé stessi?
La difficoltà ad apprendere
In altre parole direi che ci troviamo di fronte ad una assenza (di curiosità, di abilità,
di ricettività), ad una qualità degradata di assenza intesa non come premessa del desiderio
ma come baratro che tutto ingoia. L‟assenza di cui parlo -di fatto- è l‟incapacità di
immaginare cambiamenti futuri di scenario. Si è perduta da qualche parte la capacità di
potersi „sognare‟ diversi da come si è, in rapporto ad un „come si sarà‟ spostato in un tempo
a venire. Il ruolo sociale di questi preadolescenti è infatti cristallizzato in ruoli „out‟, rigidi e
immodificabili (l‟asino, il buffone, il disturbatore, il ribelle). C‟è stato un momento nella
storia di apprendimento di questi ragazzi in cui la presunzione di possedere le competenze
necessarie alla competizione sociale si è rivelata –appunto- tale. La delusione seguente allo
scacco subito ha determinato affetti depressivi a cui –per reazione- si è risposto con il
ribellismo, oppure con l‟inibizione. Il paradosso che questi ragazzi sono stati via via
costretti a comporre dentro di sé è stato allora il seguente: non è possibile/non voglio
conoscere ciò che in realtà desidero conoscere, vorrei tanto conoscere. Insomma, si è giunti
alla seguente equazione: non posso = non voglio.
E‟ proprio a questo punto che spesso siamo chiamati ad intervenire, quando oramai
rimane solo il callo dell‟urto doloroso che c‟è stato tra il desiderio per l‟oggetto e la
frustrazione conseguente all‟averlo esperito come indigeribile. E‟ Vincenzo Ricciotti a
definire il concetto dell‟educatore come traghettatore (Vincenzo Ricciotti 2000),
mutuandolo evidentemente dal concetto di „reverie‟ sviluppato da Bion (W.R. Bion 1972).
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Il traghettatore è un adulto che facendo transitare nella propria mente l‟oggetto
danneggiato, lo rivitalizza attenuandone la persecutorietà. Quando il materiale non è
pensabile dal ragazzo, l‟adulto prende su di sé l‟oggetto persecutorio e lo trasforma da
elementi β (non pensati e non pensabili), in elementi α, cioè fruibili dal ragazzo. Come?
L‟adulto offre, propone, saggia, mette da parte per momenti successivi. Seduce come un
pifferaio, affabula, meraviglia, riconduce il ragazzo al senso dello stupore per la scoperta.
Di fatto accoppia la sua mente a quella del ragazzo cercando insieme a lui le strade giuste
fino a che non emerga una rassicurazione tale da potersi accostare di nuovo all‟oggetto,
sentito ora più accessibile e familiare.
L‟obiettivo allora è ricostruire le condizioni del desiderio. Va da sé che il desiderio
non può essere dato, ma si può stabilire uno scenario (riabilitativo) che possa evocarlo,
esattamente come il setting entro il quale avrà luogo il rito sciamanico di uno stregone.
Lo scenario
Abbiamo detto che il desiderio non può essere dato, ma si può, con la „debole
scienza‟ che ci è concessa, approntare uno scenario tale da suscitare la curiosità per la
scoperta. Quando parlo di scenario intendo parlare certo dell‟organizzazione del setting di
lavoro ma soprattutto dell‟orientamento di questa ad un sentimento di „sospensione‟
(M.Masud Khan 1979). Si è in trepidante attesa che emerga dal gruppo un senso
rappresentato da una azione di gioco mediamente riuscita, da un atto di un singolo in grado
di dare compimento al lavoro della squadra, dal raddoppio in fase difensiva di un ragazzo
nei confronti di un compagno in difficoltà, dalla ragionevole riduzione di atteggiamenti
volti ad inseguire alibi consolatori. Si attende che tutto ciò diventi una rappresentazione che
possa disegnare una nuova qualità del disagio di cui il gruppo è portatore.
Ho stabilito quattro elementi che credo necessari a tale proposito per un lavoro
riabilitativo.
-
Un oggetto vicino alla cultura di appartenenza. E‟ Jerome Bruner ad affermare che la
mente umana non può esprimere i suoi poteri nascenti se non a patto di venire posta in
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condizione di farlo dai sistemi simbolici della cultura cui appartiene (Jerome Bruner 1991).
Nel nostro caso attingiamo al football che forse a questo proposito possiede una qualità
raappresentativa in eccesso essendo questo stesso una rappresentazione fortissima a livello
sociale. Nel senso dato da Bruner, il calcio è utilizzato come uno strumento culturale in
grado di sostenere un dato dominio, intendendo con „dominio‟ una particolare funzione di
acquisizione di conoscenza.
Per Bruner un dominio è in definitiva una sorta di apparato protesico della cultura.
Siamo competenti in certi campi e incompetenti in altri. Per ragazzi come quelli che
conosciamo il football è uno strumento culturale popolare che pervade il mondo che è loro
proprio, e che quindi può sostenere lo sviluppo di poteri mentali nascenti con carattere
trasformativo.
-
La possibilità di fare una esperienza. Il preadolescente comincia a parlare delle cose, dei
pensieri e dei sentimenti ma stavolta nelle cose, nei pensieri e nei sentimenti, cioè facendo
una esperienza di apprendimento che coinvolga i sensi e faccia della relazione con i pari e
con l‟adulto la materia stessa dell‟apprendere.
- Un gruppo di lavoro. Il gruppo è inteso come comunità di lavoro che sostiene e
amplifica le potenzialità dell‟individuo, come corpo sovraindividuale, un corpo che è
qualcosa di più del singolo componente e come tale in grado di arrivare ad un contributo
impossibile da raggiungere in termini di ricchezza per ogni membro isolato (Neri C. 1996).
-
La presenza di adulti ricettivi e propositivi. Si apprende dalla vicinanza e non
dall‟esortazione. Gli adulti sono in realtà compagni di viaggio. Devono tenere insieme la
memoria del lavoro con il ragazzo e il desiderio (prefigurare obiettivi, calibrarli con
pazienza), almeno finché questo non emerga nel ragazzo stesso in forma di funzione
mentale sufficientemente strutturata.
L‟esperienza qualificante che i ragazzi faranno sarà rappresentata dal processo
attraverso il quale un insieme di individui organizzeranno le proprie originali risorse umane
al fine di divenire una squadra .
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Il football come strumento protesico
Come il coach può aiutare allo scopo? Come può farlo tramite uno sport di squadra
come il football? Il calcio di fatto è utilizzato –lo abbiamo detto- come uno strumento
protesico messo a disposizione dalla cultura -alla pari di apparati concettuali come il
paradigma, la causalità, la narrazione, ecc.- per approdare a stati mentali più elevati dalle
cui vette tornare sui propri pensieri per vederli in una luce nuova. In altre parole il calcio
può essere lo strumento più contiguo alla cultura di questi ragazzi per innescare
l‟esperienza della „mente che riflette su sé stessa‟. Da un piano di azione e proprio
attraverso questa, il calcio (proprio il calcio, quel gioco dove una manica di scalmanati in
mutande si affannano a rincorrere una palla rotolante) può permettere la formazione di
nuove e più astratte forme di pensiero simbolico.
Affermo questo in analogia con il contributo che Vygotsky (Pensiero e linguaggio
2001) diede in particolare alla pedagogia, mettendo l‟accento –in opposizione
complementare con Piaget- sull‟aspetto culturale e soprattutto sociale dell‟apprendimento.
Lev Semënovic Vygotsky
I bambini secondo Vygotsky risolvono problemi pratici oltre che con le mani e con
gli occhi (1° sistema di segnalazione: i sensi), anche con l‟aiuto del linguaggio (2° sistema
di segnalazione). In altre parole, né la mente, né la mano bastano allo scopo, ma necessitano
di strumenti protesici culturali in grado di completarle (paradigma, la causalità, la
narrazione, la logica, la metafora: in una parola, il linguaggio).
Nell‟ottica di Vygotsky il linguaggio di fatto è un modo di mettere ordine tra i
pensieri riguardanti la realtà (Bruner 1993). Il calcio può assolvere allo stesso scopo; può
essere lo strumento protesico messo a disposizione dalla cultura per completare mano e
mente, e come tale permettere l‟esperienza di far cimentare la mente stessa con livelli più
elevati di sviluppo. Da un‟azione ad un livello superiore di simbolizzazione: il calcio
diviene un laboratorio dove sperimentare sé stessi come parte di un gruppo nel risolvere
problemi relativi alla ottimizzazione delle risorse umane in campo a fini di competizione.
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Il calcio è correre dietro a una palla
Il calcio è percepito dai ragazzi innanzitutto come un gioco. Questo aspetto porta
elementi di piacevolezza che sono di per sè motivanti all‟assunzione di compiti strategici
complessi altrimenti difficili da apprendere in altri contesti disciplinari. Va da sè come il
football a questo proposito possa essere considerato la palestra ideale per formare
attegiamenti appresi come effetto secondario. Cosa vuol dire? Vuol dire che il calcio ha il
pregio di essere appunto un gioco, e come tale di non avere altro fine che sè stesso (Arnaldo
Cecchini 1993). Tutti gli apprendimenti derivanti da un gioco entrano quindi nella sfera oserei dire- subliminale: giocando si impara, ma senza esserne pienamente coscienti.
L‟effetto primario del gioco è il piacere. L‟effetto secondario è l‟appredimento di
atteggiamenti. Ed è questa sfera di effetto quella che ci interessa.
Il calcio come area di lavoro induttiva
Il calcio quindi è qui inteso come area di lavoro induttiva (basso→alto) „giocata‟
attraverso piani di azione (movimento integrato di corpo, pensiero e linguaggio in uno
spazio dato). Infatti l‟azione è spesso la capacità di risposta più diretta per un ragazzo con
disagio. Detto ciò, si tratta di permettere il passaggio ad uno stadio di comprensione
simbolica di sé più elevata ed astratta che permetta il raggiungimento di una vetta più alta, e
da qui dare un senso all‟azione. Lo sviluppo mentale per Vygotsky muove infatti da
particolari concreti ad un livello astratto, e da qui raggiungere uno stato di
in/consapevolezza e intenzionalità,
la vetta da cui –dicevamo- guardare indietro per
attribuire senso a noi stessi.
Ma come colmare lo iato tra l‟azione e l‟arrivo ad uno stato di consapevolezza di
questa azione (scontato il paradosso che l‟atto è sì intenzionale ma anche incosciente)?
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La Zona di Sviluppo Prossimale (ZSP)
La ZSP secondo l‟elaborazione data da Vygotsky è la distanza tra il livello
evolutivo reale (più o meno autonoma capacità di soluzione dei problemi) e il livello di
sviluppo potenziale configurato come capacità di soluzione dei problemi sotto la guida di
un adulto o in collaborazione con coetanei capaci (Pittaluga 2000).
Da una azione ad una consapevolezza di questa azione si deve passare tramite un
allenamento della funzione (a volte lungo e penoso, ma anche entusiasmante) al termine
della quale il bambino acquisirà coscienza e controllo e da questa vetta appena raggiunta
programmare il percorso per raggiungerne un‟altra. Si può trattare della costruzione di una
torre con pezzi molto piccoli per bambini di tre anni. Nel nostro caso si potrebbe trattare di
acquisire la competenza dello stop a seguire di un pallone spiovente, oppure (di gran lunga
più complesso) acquisire la competenza di gioco secondo la quale se un compagno è saltato
dall‟avversario, ognuno della linea di difesa scala la marcatura per riguadagnare la parità
numerica in fase difensiva.
Il ruolo sociale dell’apprendimento
In altri termini possiamo definire la ZSP come un‟area in cui la persona più
competente aiuta la persona più giovane a raggiungere un livello più elevato, poggiando sul
quale potrà riflettere in modo più astratto sulla natura delle cose. Vygotsky definisce questo
processo „prestito di coscienza‟: l‟adulto offre la propria funzione in prestito, in attesa che
questa emerga nel ragazzo una volta completato l‟iter di allenamento cognitivo.
Da qui discendono –credo- tre fattori essenziali nell‟utilizzo dello sport di squadra
come strumento ri/abilitativo.
- L’apprendimento umano è un fattore essenzialmente cooperativo. E‟ lo scambio sociale
che rende possibile l‟interiorizzazione (coscienza) di apprendimenti complessi a partire da
piani di azione. Lo scambio formativo non deve avvenire solo tra coach e gruppo ma anche
e soprattutto tra individui del gruppo, da quelli più competenti a quelli meno competenti.
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Obiettivo del coach sarà quello di creare un gruppo (team di lavoro) in cui permettere
prestiti di coscienza multipli.
-
Il processo di prestito di coscienza non deve derivare da manifestazioni di volontà ma
da transazioni responsabili. Il coach fornisce un ponte realistico tra le capacità presenti e le
situazioni da affrontare secondo assunzioni di responsabilità di volta in volta negoziate
all‟interno del gruppo.
-
L’apprendimento positivo è quello che anticipa lo sviluppo. In altre parole, si tratta di
stimolare la coscienza mediante espedienti atti a rendere il mondo di nuovo inconsueto e
strano. Il coach dovrà comporre sul campo problemi di gioco a misura di gruppo, ma
abbastanza complessi da suscitare curiosità e piacere nell‟affrontarli, badando di modulare
con essi fatica e una certa dose di stress (esempio: 8 contro 8 su metà campo senza portiere,
con obbligo di lanciare rasoterra a un tocco, e segnare passando la linea della porta palla al
piede). Il coach/educatore sarà sempre disposto ad aggiungere al lavoro quel tanto di
incertezza da provocare uno squilibrio cognitivo, una sorta di vertigine tale da spingere il
gruppo a cercare per necessità un nuovo assetto.
In definitiva le condizioni di ogni forma di acquisizione di conoscenza sono (1)
l‟esistenza di una ZSP e di (2) procedimenti atti a favorire l‟ingresso in tale zona (deserto) e
il suo progressivo attraversamento. Riguardo ai procedimenti si tratta di azione tramite
giochi, in attesa che maturino coscienza e controllo della funzione sottoposta ad
allenamento.
Il coach/educatore
Coach e squadra nel suo insieme di fatto rappresentano stampelle mentali per
lasciarsi alle spalle adattamenti scadenti. Per sfruttare la ZSP il coach deve mediare gli
aspetti negativi (l‟odio ad esempio, come vedremo tra poco) con il passo ulteriore da
compiere (Pittaluga 2000), tenendo presente che solo il team nel suo insieme può compiere
il passo. Se è scritto che per quanto ci affanniamo non possiamo allungare di un giorno la
nostra vita, così il coach –per quanto esercizio di volontà faccia- non può per nulla
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accelerare il processo; solo avviarlo, organizzarlo, avere fiducia ed aspettare in una fiducia
sospesa. Si può solo mostrare la soglia, è il gruppo che la deve oltrepassare.
Il film „Matrix‟ dei fratelli Wachovski è esemplare a tale proposito. Di fatto
„Matrix‟ è un esempio di tutoring/coaching da parte di Morpheus nei confronti di Neo. E‟
Morpheus che dice a Neo “posso solo mostrarti la soglia…” (fase di azione); e poi: “sei tu
che la devi oltrepassare” (atto). Una volta che Neo acquisirà la consapevolezza di poter
manovrare il codice a suo piacimento, sarà in grado di riconoscersi l‟Eletto e compiere
l‟Atto di affrontare il Guardiano e distruggerlo.
Ma che tipo di adulto sarà in dettaglio il coach/riabilitatore?
La fase critica
Nei termini che ho appena descritto, il compito del coach sarà quello di „allenare‟
cognitivamente ed emozionalmente i ragazzi tenendo presente nella propria testa due scopi
principali:
-
reintrodurre l‟oggetto (un qualunque „oggetto‟, in questo caso il calcio) nello spazio del
desiderio;
-
reintrodurre la funzione nell‟ambito dell‟illusoria onnipotenza del soggetto all‟interno di
un discorso dell‟Altro (Jacques Lacan 1972), in modo da „lasciarsi‟ ri-costruire una
immagine di sé attiva all‟interno del gruppo che esercita la funzione di accoglienza.
In questo percorso il coach andrà incontro a momenti critici più o meno pesanti il
cui superamento sarà indispensabile in ordine al raggiungimento di quella immagine di sé
attiva di cui ho parlato. Il più pericoloso è rappresentato da una fase di passaggio
particolare, caratterizzata nell‟auspicato passaggio da un „non voglio‟ ad un „forse
posso…‟.
Si tratta di questo. Il bambino, acquistando interesse per qualcosa che ha allettato la
sua attenzione, ridiventa abbastanza audace da permettere ai suoi sentimenti e alle sue
emozioni di svilupparsi di nuovo. Ma facendo questo, lo stesso bambino comincerà a
sperimentare il suo desiderio di conoscenza come intrinsecamente difficile e problematico.
Dovrà rivivere le antiche frustrazioni, subire le stesse mortificazioni che un tempo gli
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hanno fatto dire „non voglio‟. Dovrà di nuovo misurarsi con lo scarto tra la propria
fantasticata idea di grandezza e l‟umiliazione seguente al sentirsi piccolo, incapace, non
competente. Questo scarto, insieme al bisogno restaurativo messo in atto dal coach nel
lavoro di gruppo, può mobilitare aggressività verso colui ritenuto responsabile del
riaffiorare dello stesso antico disagio (disagio che un senso di autoconsolazione faceva
credere di avere allontanato per sempre, una volta detto: non ne ho voglia!).
L‟odio, nel lavoro riabilitativo, assume varie forme:
- atteggiamento predatorio (furti dai portafogli non custoditi, ad esempio);
-
crisi di aggressività (frustrazioni conseguenti alla prova delle proprie identificazioni
narcisistiche confrontate su di un piano di realtà);
-
assenza (assenza ripetuta agli allenamenti senza una condivisione dei motivi nel
gruppo);
- attacchi al coach (accuse di essere noioso, di essere incompetente, di non essere
abbastanza bravo rispetto ad allenatori „veri‟ di squadre „vere‟);
- attacchi ai compagni meno capaci;
- provocazioni caotiche (turpiloquio ripetuto, ad esempio);
-
creazione di alibi esterni (Velasco 96) contro cui mobilitare rabbiosamente il gruppo per
gettarvi sopra la responsabilità della propria performance ritenuta scadente (arbitro, campo
pesante, il sole negli occhi…).
Il coach in ultima analisi è un adulto in grado di resistere, opportunamente preparato
a resistere agli attacchi rabbiosi verso sé e verso il gruppo. Il coach sarà –appunto- una sorta
di traghettatore, un adulto cioè in grado di rappresentare il nocchiero in grado di condurre
da una disperata „waste land‟ del „non voglio‟ ad una terra di sofferenze (Forse posso…
Forse ce la faccio…) dove queste stesse sofferenze non sono eliminate in senso
consolatorio ma acquistano un senso condiviso da una comunità, e dove il peso di divenire
è sostenuto da un gruppo/team in grado (forse) di rendere meno pesante il giogo delle
necessità concesso dall‟esperienza.
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La transazione
L‟aspetto della transazione negoziabile è importante perché in ragazzi molto
deprivati contribuisce a creare un‟intenzionalità delle proprie azioni, quando ancora non è
matura la funzione mentale/affettiva corrispondente (Bruner 1993). Il gruppo come
strumento a tale scopo è prezioso, soprattutto nei momenti di impasse rispetto
all‟assunzione di compiti. In un team infatti le difficoltà di volta in volta incontrate non
sono mai una „colpa‟ (benché il gruppo 9 volte su 10 evochi la colpa e il colpevole): esiste
un gruppo che ha raggiunto un grado „X‟ di prestazione rispetto agli obiettivi condivisi e di
cui ognuno -per la sua parte- si assume la responsabilità. Spetta al team nel suo insieme
lavorare tramite azione al fine di sviluppare funzioni di pensiero che suscitino adeguamenti
più corretti delle risorse umane in campo per arrivare ad una maggiore capacità di
competizione.
Il campo di allenamento può essere visto quindi come un „Campo di Sviluppo
Prossimale‟, una terra di nessuno in cui emergerà un senso al proprio disagio sotto forma di
atto, inteso come acquisita coscienza di una funzione mentale appresa e come tale parte
integrante del funzionamento del team. L‟esito del processo riabilitativo dovrebbe
rappresentare per ciascun membro una testimonianza rispetto al gruppo: “ho fatto della mia
impossibilità/disabilità una funzione mentale utile che metto a disposizione del team”. E
poi: “Sono in attesa di ulteriori funzioni di gioco da rendere utilizzabili”.
Da un „possibile‟ (piano di azione, ad esempio un 2 contro 2 porte larghe su frazione
di campo) si dovrebbe allenare la funzione di gioco che permette una copertura omogenea
delle zone di campo (ZSP: copertura delle zone), per arrivare ad una forma di „atto‟
eseguito dal team in fase di gioco (rientro veloce dietro la linea della palla del maggior
numero possibile di giocatori per una copertura adeguata degli spazi in fase difensiva) che
rappresenta l‟esito „impossibile‟ del lavoro nella misura in cui il team con la propria
disposizione in campo impedisce un goal avversario. Se la squadra riuscirà in questo modo
a minimizzare i danni derivanti da un possibile errore di un compagno, questo atto
impossibile sarà l‟esito del passaggio attraverso un deserto –ecco la „Consolazione‟- che
non è più la propria isolata e desolata „waste land‟, ma stavolta è il gruppo ad assumersi il
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deserto di ognuno nella misura in cui saprà estendere le dis/abilità di ciascuno in una forma
utile al funzionamento di gioco del team.
La corsa ‘impossibile’ di Tarik
Proverò a spiegare meglio quanto voglio dire e per fare questo mi servirò dell‟aiuto
di Tarik (Vincenzo Carboni 2001). Questo ragazzino si presenta un giorno agli allenamenti
con uno sguardo sveglio e due scarpe da pallone almeno di due numeri più grandi del suo
piede. Lo aspettavo. Mi era stato inviato da una collega del servizio sociale. So che viene da
Marrakesch, so che ha dieci anni e frequenta la quinta elementare. Mi preoccupa un po‟ il
fatto che sia più piccolo degli altri. E‟ mingherlino, uno scricchiolo, mentre la squadra è
composta da ragazzi di scuola media inferiore la cui età arriva fino a sedici anni. Mi colpì
subito però la sua vivacità. Non tirava mai indietro la gamba nei contrasti, sia che avesse
avuto di fronte un nano oppure un gigante. Pur essendo il più piccolo si guadagnò sul
campo la stima muta dei compagni.
Ebbene Tarik era uno dei pochi a mostrare attitudini naturali al gioco di squadra.
Come succede di solito nei ragazzi di questa età, c‟è la tendenza a giocare ognuno per
proprio conto, a non pensare strategicamente in funzione della squadra.
Questa tendenza naturale al protagonismo individuale era diventata però un
elemento in eccesso, ed era proprio questo grado di eccesso a rappresentare bene ai miei
occhi la difficoltà di apprendimento (i nove undicesimi della mia squadra infatti erano stati
respinti almeno una volta durante la propria carriera scolastica). Questa difficoltà si rendeva
evidente quando incontravamo avversari mediamente buoni. I miei non riuscivano a
mettere insieme due passaggi di fila, avevano la pretesa di vincere da soli, a vivere la partita
solo in funzione della palla; i più dotati tecnicamente si „incartavano‟ in dribbling continui,
mentre quelli meno dotati avevano la tendenza a nascondersi.
Tarik aveva la capacità di entusiasmarmi, non tanto per delle giocate ad effetto
quanto per dei movimenti di corsa sul campo che rivelavano in lui la capacità di leggere ed
elaborare in frazioni di secondo una quantità enorme di informazioni.
organo dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa A.P.R.E. diretto da R. F. Pergola
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Eccovene un esempio. Durante un test-match la mia squadra aveva la tendenza a
rimanere vittima di una situazione di gioco che metteva continuamente sotto pressione il
nostro portiere. La linea di difesa era composta da cinque elementi. Il n. 2 e il n. 3 (Tarik)
coprono a zona le corsie esterne; il 4 e il 5 sono i marcatori a uomo delle punte avversarie;
il 6 fa il libero classico con funzione di ultimo uomo (regista difensivo) quando la squadra
non è in possesso di palla, ma funge anche come centrocampista aggiunto quando si tratta
di iniziare l‟azione. Come si può vedere la squadra gioca secondo un modulo difensivo
misto zona\uomo, considerando che…
• Dispongo di due ragazzi volenterosi (i due marcatori), ma che sono scarsi tecnicamente e
poveri in quanto ad aggressività e in carica agonistica. Si tratta di ragazzi piuttosto inibiti
che cerco di allenare ad atteggiamenti più attivi. A loro affido un compito rigido ma che ha
almeno il pregio della chiarezza: seguire a uomo le punte avversarie e impedire loro di
nuocere.
• Il regista difensivo è molto dotato tecnicamente ma assolutamente inaffidabile in quanto a
gioco senza palla.
•
I due laterali sono veloci. Di Tarik (3) abbiamo già detto. L‟altro (2) riesce a giocare con
una buona intensità per non più di trenta minuti, poi cede ai primi segnali di fatica non
sorretto da una carica nervosa adeguata.
In cosa consisteva la situazione di gioco a cui non riuscivamo a rispondere? Il loro
centrocampista esterno (7) dopo circa venti minuti di gioco riusciva regolarmente a saltare
il nostro laterale (2), il quale -demoralizzato- rinunciava ad inseguire. I nostri marcatori
centrali, non essendo in grado di leggere la situazione, continuavano a seguire le punte
avversarie andando il più delle volte a finire fuori zona. Il nostro „ultimo uomo‟ si
disinteressava alla fase difensiva e, seppure con la difesa sotto pressione, non era motivato
a recuperare la sua zona davanti al portiere. La morale della favola era che il loro
centrocampista esterno provocava la superiorità numerica a favore della sua squadra nelle
zone per noi più pericolose, cioè a ridosso immediato dell‟area. Cosa ha impedito alla
squadra di capitolare in più occasioni? Tarik si poneva sempre in linea con i suoi compagni
di difesa, ma avendo percepito la situazione di pericolo costante esegue più volte il
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movimento in diagonale descritto sotto in modo da chiudere la strada all‟avversario lanciato
a rete.
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Il lavoro da svolgere in allenamento sarà quello di apprendere a livello di squadra ciò che
Tarik esegue a livello individuale. Senza saperlo infatti Tarik esegue per parte sua un
movimento che avrebbe dovuto essere la parte terminale di una fase (diagonale difensiva)
eseguita da tutta la linea di difesa (se un compagno è saltato tutti gli altri giocatori della
linea scalano la marcatura per riguadagnare la parità numerica).
Va da sè come Tarik nel caso specifico abbia agito in uno dei modi possibili.
Avrebbe potuto sostituirsi al laterale di destra invertendo i ruoli, oppure avrebbe
potuto stringere al centro in maniera stabile richiamando un compagno dall‟attacco per il
tempo necessario a respingere l‟assalto. Ma sarebbe eccessivo chiedere ad un solo
individuo di poter essere la mente pensante di un gruppo. E‟ il team nel suo insieme a dover
imparare a pensare, a sviluppare la funzione del pensiero. Solo così un insieme di individui
può diventare una squadra.
Possibilità e impossibilità
Chi può, può solo l‟impossibile. Ciò vale a dire –parafrasando Vygotsky- che vale la
pena superare ogni volta il muro del proprio limite per giungere là dove è possibile
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guardarsi indietro, e finalmente descriversi con le parole del discorso messo a disposizione
dalla comunità cui si appartiene (Jerome Bruner 1998). Lo scopo riabilitativo sarà quello di
oltrepassare un limite „impossibile‟. Si tratta di abbattere/aggirare un muro; con il
linguaggio, oppure con un pallone.
E‟ il goal impossibile di Cubillas14. Perù-Scozia 3-1: partita del gruppo D ai
Mondiali del 1978. Al 70°: punizione di esterno destro da sinistra che aggira la barriera dal
lato sinistro. Come è potuto accadere? Non poteva accadere. Eppure…
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http://www.youtube.com/watch?v=TpRXix1DONE
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