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Dopo aver studiato cinema infatti non va da un Corman o nell’officina delle serie televisive per immergersi immediatamente nella bottega e nella pratica registica come hanno fatto praticamente tutti i suoi coetanei a partire da Coppola, Lucas, e così via, ma si dedica ad un’attività critica tanto strenua da arrivare a collimare quasi con la speculazione filosofica. Il frutto di questi anni di lavoro (e della sua educazione calvinista) vede la luce nel 1972 con il saggio, pubblicato in Italia da Donzelli, «Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer». Un volume nel quale l’elemento religioso, scrive nella prefazione «costituisce una via (un tao, nel senso più ampio del termine) di accostarsi al trascendente che varia di volta in volta, mentre la finalità e i metodi rimangono nella loro essenza gli stessi». Questa è in qualche modo già una risposta alla domanda che molti negli anni seguenti, finiranno per porgli: dove e come ritrovare l’elemento trascendentale in una produzione in cui si andavano ad affastellare film molto diversi tra loro? Da questo punto di vista Schrader si differenzia dai registi europei o sudamericani della sua generazione, sia l’attività critica che quella successiva di sceneggiatore formano un si legano tra loro intellettualmente, per temi e motivi che ricorrono. Per entrare meglio nel mondo di questo regista può tornare utile leggere il volume curato da Alberto Castellano e appena uscito nella collana «Mimesis cinema» a cui partecipano anche sodali e fondatori di Alias: «Paul Schrader. Il cinema della trascendenza» (pp.197, euro 18). La ricchezza di questo apporto plurale di studiosi e critici ben si attaglia all’esperienza di Schrader e alla sua opera che probabilmente conviene smettere di pensare come un tutto unico e monolitico ma come un diagramma attraversato da linee di forza, queste sì capaci di migrare dalla scrittura saggistica a quella filmica a quella sul set. In questo modo si potrebbe anche iniziare a capire cosa ha rappresentato negli anni successivi e fino ad oggi quel saggio così importante sul trascendentale nel cinema. «Più che una scrittura per attingere una dimensione spiritualistica, dunque, scrive Vito Attolini- si tratta di uno stile che ha per fine quello di oltrepassare le parvenze esteriori, di un ’osservatorio’ per guardare al di là del reale così come si manifesta nella sua concretezza». Dall’indagine sui tre giganti della trascendenza Schrader non si porta dietro uno stile, un bagaglio di risorse tecniche o, in altre parole una possibilità di guardare il mondo ma un atteggiamento morale, un modo di osservare e rappresentare. Ecco risolta anche l’apparente antitesi tra uno studioso che parla di trascendenza e poi si trova a filmare ripetutamente gente che lavora di notte come nella trilogia in cui sono inclusi Taxi Driver, American Gigolò e Lo spacciatore. Una trilogia che ci ribadisce come, osservato dalla visuale delle linee di forza anziché di una impossibile unità poetica e stilistica, non ci sia soluzione di continuità tra le varie «scritture». «Ho imparato molte più cose sugli americani viaggiando in taxi che sgobbando sui libri di scuola» dice il senatore Palantine a Travis Bickle in Taxi Driver. Una frase che torna molto utile per capire l’atteggiamento che ha attraversato la carriera di questo regista felice di immergere il proprio sguardo nella realtà, facendo della sua trascendenza una ricerca di verità sulle cose che non si esaurisce, né nel conformismo né nell’ideologia, da materialista. Basti vedere i suoi primi due lavori, ovvero Blue Collar (1977), dedicato ad un gruppo di operai di Detroit alle prese con una rapina da 600 dollari dalle casse del sindacato operaio, salvo poi accorgersi di ben altre malefatte e di ben altri buchi operati in quei torbidi anni post-Watergate alle spalle della classe operaia e il successivo Hardcore (1978), indagine sul rapporto padri –figli e sulle derive del ben vivere e del pensare a contatto con gli esiti maturi della rivoluzione sessuale e degli stili di vita alternativi. Ho imparato molte più cose sugli americani viaggiando in taxi che sgobbando sui libri di scuola» dice il senatore Palantine in «Taxi Driver» VALERIO MATTIOLI SUPERONDA BALDINI & CASTOLDI Musica italiana, il segreto svelato MAURIZIO INCHINGOLI Il periodo storico preso in esame in «Superonda» di Valerio Mattioli è quello che va dal 1964 al 1976. Cosa succede in quel lasso di tempo in campo musicale? Molti avvenimenti, in particolare una serie di eventi e di pubblicazioni discografiche che secondo l’autore saranno fonte di ispirazione per alcune correnti musicali emerse successivamente: elettronica, rock alternativo, musica sperimentale. Il libro ha come sottotitolo «storia segreta della musica italiana», che tanto segreta poi non è, Mattioli ne è ben cosciente. È una sorta di lungo compendio (si superano le seicento pagine) utile per districarsi tra quelle espressioni artistiche lontane da Sanremo e dal Cantagiro, tanto per citare gli esempi più celebri di contenitori pop allora in voga. L’autore romano si occupa da tempo di musica: scrive per «Blow Up,» è stato tra i collaboratori di «XL -Repubblica», coordina l’attività del web-magazine «Prismo», è quindi ben addentro alle questioni di cui scrive. Per l’occasione si fa aiutare da Baldini e Castoldi e non dalla solita casa editrice di settore. Si parte con l’intervista a Ennio Morricone, nume tutelare di un mondo che coniugava senza troppi problemi l’Accademia agli spazi più off della capitale. L’autore dello score di «Per un pugno di dollari» frequentava il giro dell’associazione Nuova Consonanza di Franco Evangelisti, e proprio con lui e altri sodali, tra cui Egisto Macchi, licenzia una serie di dischi più che arditi col nome di Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza (la colonna sonora di «Un tranquillo posto di campagna» di Elio Petri è opera loro). Si prosegue con le testimonianze dirette di Franco Battiato e del compianto Claudio Rocchi, passando per una disamina certamente poco paludata della musica progressive; egli specifica che ai tempi si chiamava nuovo pop, tra le riviste che se ne occupavano annovera anche l’influente «Ciao 2001». Aggiunge poi che l’underground di casa nostra, in particolare quello romano, era una fucina di veri talenti: Mario Schifano con le sue Stelle, Giacinto Scelsi, Alvin Curran coi Musica Elettronica Viva, Simone Carella col Beat ‘72 e Fabio Sargentini, fondatore della galleria L’Attico. In giro per l’Italia non mancavano altre singolari realtà, a Napoli ad esempio operavano Jenny e Alan Sorrenti e Luciano Cilio, mentre a Milano iniziava a brillare la stella di Gianni Sassi, mentore di Battiato e fondatore della Cramps, l’etichetta degli Area di Demetrio Stratos e Patrizio Fariselli (qui intervistato). Insomma quel periodo è talmente ricco di spunti e proposte, anche le più stravaganti, che finalmente qualcuno s’è preso la briga di includerle in una corposa pubblicazione, che di certo non può essere esaustiva. Per capirci, pescando nell’enorme bacino degli artisti di quei tempi si accenna al free-jazz, mentre se ne potrebbe scrivere un libro a parte. Curiosa poi la parte dedicata agli autori di musiche library, sorta di mondo a sé che vedeva protagonisti alcuni compositori vicini alla Rai (spesso dietro pseudonimo), solo di recente tornate in auge grazie alla costante opera di ristampe, della Cinedelic, la Black Sweat e Intervallo qui in Italia, dell’inglese Finders Keepers all’estero. «Superonda» si chiude con i fatti del Parco Lambro ma, attenzione, non è un libro per appassionati di cronache vintage, piuttosto un affascinante intreccio di storie che valeva la pena recuperare. dove a poco a poco sono entrate a far parte numeroso imprenditrici raccolte intorno a un’associazione di categoria. Di queste l’autrice fa ritratti acuti e affettuosi, come un ronzio operoso che si diffonde un po’ per tutto il paese. Una cortina di ferro spezzata anche dalle nuove tecnologie, dai blog, i workshop e gli incontri. Con questo inedito punto di vista femminile scopriamo che per molti secoli l’Ape Regina fu considerata un Re, un maschio (come altrimenti avrebbe potuto regnare e dare vita alla vasta progenie?). Invece il biologo olandese Jan Swammerdam (1637-1680) riporta nella sua «Storia generale degli insetti» la scoperta fatta attraverso il microscopio che il re delle api aveva in realtà delle ovaie. Panico tra gli scienziati e gli intellettuali dell’epoca, ma l’autrice rincara la dose descrivendo tutto quel mondo già ampiamente studiato varie volte dagli entomologhi (conte Maeterinck a parte) con un tono di complicità del tutto inedito. Si spazzano via luoghi comuni e ci si proietta verso un futuro ancora tutto da scoprire (il suggerimento è «vivere come alchimisti e fare il nostro miele»), dove è d’obbligo fare paragoni e mantenere distanze, fino a indagare non solo la complessa struttura sociale e di linguaggi delle api, ma anche più serenamente la semplice fruizione del miele, un prodotto dalle molteplici caratteristiche, tutte esposte con cura. Del resto viene citato anche Marx che nel primo libro del «Capitale» parla delle api come esempio di opera architettonica perfetta (ma il peggior architetto rispetto alle api, scrive, costruisce la sua opera prima nella sua testa che con la cera). Robert De Niro in «Taxi Driver» BARBARA BONOMI ROMAGNOLI ?BEEHAPPY DERIVEAPPRODI Api, miele e alveari SILVANA SILVESTRI Tra i tanti casi che spingono oggi i giovani laureati a «inventarsi il futuro», il caso dell’autrice, laureata in filosofia e giornalista, ha prodotto non solo una nuova attività ispirata a una tradizione paterna e familiare, ma anche un libro dagli inaspettati risvolti. Intanto è riuscita a entrare un mondo quasi esclusivamente maschile, chiuso e rigoroso nel difendere segreti tramandati e a far fiorire un’attività, quella delle apicultrici,