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sabato 12 novembre 2016
PAUL SCHRADER
A CURA DI ALBERTO CASTELLANO
MIMESIS CINEMA
Il cinema
della
trascendenza
GIANCARLO MANCINI
Pochi registi della
generazione degli anni
settanta hanno saputo
interpretare il proprio ruolo
con la radicalità e il rigore di
Paul Schrader che proprio in
questi giorni compie il suo
settantesimo compleanno.
Autore di una ventina di film
e di un paio di documentari,
Schrader è uno dei pochi
registi americani in grado di
poter essere assimilato a tutti
gli effetti alle esperienze e alle
procedure del nuovo cinema
degli anni sessanta e settanta.
Dopo aver studiato cinema
infatti non va da un Corman
o nell’officina delle serie
televisive per immergersi
immediatamente nella
bottega e nella pratica
registica come hanno fatto
praticamente tutti i suoi
coetanei a partire da
Coppola, Lucas, e così via,
ma si dedica ad un’attività
critica tanto strenua da
arrivare a collimare quasi
con la speculazione filosofica.
Il frutto di questi anni di
lavoro (e della sua
educazione calvinista) vede
la luce nel 1972 con il saggio,
pubblicato in Italia da
Donzelli, «Il trascendente nel
cinema: Ozu, Bresson,
Dreyer». Un volume nel quale
l’elemento religioso, scrive
nella prefazione «costituisce
una via (un tao, nel senso più
ampio del termine) di
accostarsi al trascendente che
varia di volta in volta, mentre
la finalità e i metodi
rimangono nella loro essenza
gli stessi».
Questa è in qualche modo
già una risposta alla
domanda che molti negli
anni seguenti, finiranno per
porgli: dove e come ritrovare
l’elemento trascendentale in
una produzione in cui si
andavano ad affastellare film
molto diversi tra loro? Da
questo punto di vista
Schrader si differenzia dai
registi europei o
sudamericani della sua
generazione, sia l’attività
critica che quella successiva
di sceneggiatore formano un
si legano tra loro
intellettualmente, per temi e
motivi che ricorrono.
Per entrare meglio nel
mondo di questo regista può
tornare utile leggere il
volume curato da Alberto
Castellano e appena uscito
nella collana «Mimesis
cinema» a cui partecipano
anche sodali e fondatori di
Alias: «Paul Schrader. Il
cinema della trascendenza»
(pp.197, euro 18).
La ricchezza di questo
apporto plurale di studiosi e
critici ben si attaglia
all’esperienza di Schrader e
alla sua opera che
probabilmente conviene
smettere di pensare come un
tutto unico e monolitico ma
come un diagramma
attraversato da linee di forza,
queste sì capaci di migrare
dalla scrittura saggistica a
quella filmica a quella sul set.
In questo modo si potrebbe
anche iniziare a capire cosa
ha rappresentato negli anni
successivi e fino ad oggi quel
saggio così importante sul
trascendentale nel cinema.
«Più che una scrittura per
attingere una dimensione
spiritualistica, dunque, scrive Vito Attolini- si tratta
di uno stile che ha per fine
quello di oltrepassare le
parvenze esteriori, di un
’osservatorio’ per guardare al
di là del reale così come si
manifesta nella sua
concretezza». Dall’indagine
sui tre giganti della
trascendenza Schrader non si
porta dietro uno stile, un
bagaglio di risorse tecniche o,
in altre parole una possibilità
di guardare il mondo ma un
atteggiamento morale, un
modo di osservare e
rappresentare. Ecco risolta
anche l’apparente antitesi tra
uno studioso che parla di
trascendenza e poi si trova a
filmare ripetutamente gente
che lavora di notte come
nella trilogia in cui sono
inclusi Taxi Driver, American
Gigolò e Lo spacciatore. Una
trilogia che ci ribadisce come,
osservato dalla visuale delle
linee di forza anziché di una
impossibile unità poetica e
stilistica, non ci sia soluzione
di continuità tra le varie
«scritture».
«Ho imparato molte più
cose sugli americani
viaggiando in taxi che
sgobbando sui libri di scuola»
dice il senatore Palantine a
Travis Bickle in Taxi Driver.
Una frase che torna molto
utile per capire
l’atteggiamento che ha
attraversato la carriera di
questo regista felice di
immergere il proprio sguardo
nella realtà, facendo della
sua trascendenza una ricerca
di verità sulle cose che non si
esaurisce, né nel
conformismo né
nell’ideologia, da
materialista.
Basti vedere i suoi primi
due lavori, ovvero Blue Collar
(1977), dedicato ad un
gruppo di operai di Detroit
alle prese con una rapina da
600 dollari dalle casse del
sindacato operaio, salvo poi
accorgersi di ben altre
malefatte e di ben altri buchi
operati in quei torbidi anni
post-Watergate alle spalle
della classe operaia e il
successivo Hardcore (1978),
indagine sul rapporto padri
–figli e sulle derive del ben
vivere e del pensare a
contatto con gli esiti maturi
della rivoluzione sessuale e
degli stili di vita alternativi.
Ho imparato molte più cose sugli
americani viaggiando in taxi che
sgobbando sui libri di scuola» dice il
senatore Palantine in «Taxi Driver»
VALERIO MATTIOLI
SUPERONDA
BALDINI & CASTOLDI
Musica italiana,
il segreto svelato
MAURIZIO INCHINGOLI
Il periodo storico preso in esame in
«Superonda» di Valerio Mattioli è
quello che va dal 1964 al 1976. Cosa
succede in quel lasso di tempo in campo
musicale? Molti avvenimenti, in
particolare una serie di eventi e di
pubblicazioni discografiche che secondo
l’autore saranno fonte di ispirazione per
alcune correnti musicali emerse
successivamente: elettronica, rock
alternativo, musica sperimentale. Il libro
ha come sottotitolo «storia segreta della
musica italiana», che tanto segreta poi
non è, Mattioli ne è ben cosciente. È una
sorta di lungo compendio (si superano le
seicento pagine) utile per districarsi tra
quelle espressioni artistiche lontane da
Sanremo e dal Cantagiro, tanto per citare
gli esempi più celebri di contenitori pop
allora in voga. L’autore romano si
occupa da tempo di musica: scrive per
«Blow Up,» è stato tra i collaboratori di
«XL -Repubblica», coordina l’attività del
web-magazine «Prismo», è quindi ben
addentro alle questioni di cui scrive. Per
l’occasione si fa aiutare da Baldini e
Castoldi e non dalla solita casa editrice di
settore. Si parte con l’intervista a Ennio
Morricone, nume tutelare di un mondo
che coniugava senza troppi problemi
l’Accademia agli spazi più off della
capitale. L’autore dello score di «Per un
pugno di dollari» frequentava il giro
dell’associazione Nuova Consonanza di
Franco Evangelisti, e proprio con lui e
altri sodali, tra cui Egisto Macchi,
licenzia una serie di dischi più
che arditi col nome di Gruppo Di
Improvvisazione Nuova
Consonanza (la colonna sonora
di «Un tranquillo posto di
campagna» di Elio Petri è opera
loro). Si prosegue con le
testimonianze dirette di Franco
Battiato e del compianto Claudio
Rocchi, passando per una
disamina certamente poco paludata
della musica progressive; egli specifica
che ai tempi si chiamava nuovo pop, tra
le riviste che se ne occupavano annovera
anche l’influente «Ciao 2001». Aggiunge
poi che l’underground di casa nostra, in
particolare quello romano, era una
fucina di veri talenti: Mario Schifano con
le sue Stelle, Giacinto Scelsi, Alvin Curran
coi Musica Elettronica Viva, Simone
Carella col Beat ‘72 e Fabio Sargentini,
fondatore della galleria L’Attico. In giro
per l’Italia non mancavano altre
singolari realtà, a Napoli ad esempio
operavano Jenny e Alan Sorrenti e
Luciano Cilio, mentre a Milano iniziava
a brillare la stella di Gianni Sassi,
mentore di Battiato e fondatore della
Cramps, l’etichetta degli Area di
Demetrio Stratos e Patrizio Fariselli (qui
intervistato). Insomma quel periodo è
talmente ricco di spunti e proposte,
anche le più stravaganti, che finalmente
qualcuno s’è preso la briga di includerle
in una corposa pubblicazione,
che di certo non può essere
esaustiva. Per capirci, pescando
nell’enorme bacino degli artisti
di quei tempi si accenna al
free-jazz, mentre se ne potrebbe
scrivere un libro a parte. Curiosa
poi la parte dedicata agli autori
di musiche library, sorta di
mondo a sé che vedeva
protagonisti alcuni compositori
vicini alla Rai (spesso dietro
pseudonimo), solo di recente tornate in
auge grazie alla costante opera di
ristampe, della Cinedelic, la Black Sweat
e Intervallo qui in Italia, dell’inglese
Finders Keepers all’estero. «Superonda» si
chiude con i fatti del Parco Lambro ma,
attenzione, non è un libro per
appassionati di cronache vintage,
piuttosto un affascinante intreccio di
storie che valeva la pena recuperare.
dove a poco a poco sono entrate a far parte
numeroso imprenditrici raccolte intorno a
un’associazione di categoria. Di queste
l’autrice fa ritratti acuti e affettuosi, come
un ronzio operoso che si diffonde
un po’ per tutto il paese. Una
cortina di ferro spezzata anche
dalle nuove tecnologie, dai blog, i
workshop e gli incontri.
Con questo inedito punto di
vista femminile scopriamo che
per molti secoli l’Ape Regina fu
considerata un Re, un maschio
(come altrimenti avrebbe potuto
regnare e dare vita alla vasta
progenie?). Invece il biologo olandese Jan
Swammerdam (1637-1680) riporta nella
sua «Storia generale degli insetti» la
scoperta fatta attraverso il microscopio
che il re delle api aveva in realtà delle
ovaie. Panico tra gli scienziati e gli
intellettuali dell’epoca, ma l’autrice
rincara la dose descrivendo tutto quel
mondo già ampiamente studiato varie
volte dagli entomologhi (conte
Maeterinck a parte) con un tono di
complicità del tutto inedito.
Si spazzano via luoghi comuni
e ci si proietta verso un futuro
ancora tutto da scoprire (il
suggerimento è «vivere come
alchimisti e fare il nostro miele»),
dove è d’obbligo fare paragoni e
mantenere distanze, fino a
indagare non solo la complessa
struttura sociale e di linguaggi
delle api, ma anche più
serenamente la semplice fruizione
del miele, un prodotto dalle molteplici
caratteristiche, tutte esposte con cura. Del
resto viene citato anche Marx che nel
primo libro del «Capitale» parla delle api
come esempio di opera architettonica
perfetta (ma il peggior architetto rispetto
alle api, scrive, costruisce la sua opera
prima nella sua testa che con la cera).
Robert De Niro in
«Taxi Driver»
BARBARA BONOMI ROMAGNOLI
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DERIVEAPPRODI
Api, miele
e alveari
SILVANA SILVESTRI
Tra i tanti casi che spingono oggi i
giovani laureati a «inventarsi il
futuro», il caso dell’autrice, laureata in
filosofia e giornalista, ha prodotto non
solo una nuova attività ispirata a una
tradizione paterna e familiare, ma anche
un libro dagli inaspettati risvolti. Intanto è
riuscita a entrare un mondo quasi
esclusivamente maschile, chiuso e rigoroso
nel difendere segreti tramandati e a far
fiorire un’attività, quella delle apicultrici,