Qui - TGCom24

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Venerdì 31 ottobre
Nel bosco buio, dove gli alberi morti non danno riparo, Nanna
Birk Larsen corre.
Diciannove anni, senza fiato, tremante nella sottoveste striminzita e strappata, scivola nel fango che le si attacca ai piedi nudi.
Radici crudeli le ghermiscono le caviglie, rami contorti straziano le braccia pallide e nude. Cade, incespica, si risolleva
dai fetidi canali di scolo, sforzandosi di non battere i denti, di
pensare, di sperare, di nascondersi.
Un occhio luminoso la segue come un cacciatore sulle orme
di un cervo ferito. Procede lento, a zigzag, ma sempre più vicino
attraverso la landa desolata della Pinseskoven, la foresta della
Pentecoste.
Tronchi spogli e argentei si levano dal terreno brullo come
membra di cadaveri antichi, pietrificate negli ultimi spasmi di
morte.
Un’altra caduta, la peggiore. Il terreno sotto di lei scompare e
con esso le sue gambe. Annaspando con le mani, urlando per il
dolore e la disperazione, la ragazza precipita nel fossato gelido e
sporco, urta contro rocce e tronchi, brancola nella ghiaia aguzza
e tagliente, sente la testa, le mani, i gomiti, le ginocchia sfiorare
il terreno invisibile in agguato sotto di lei.
L’acqua gelida, la paura, la presenza di lui sempre più incombente...
Senza fiato, si rialza barcollando dalla fanghiglia, si arrampica sull’altra sponda, punta i piedi feriti e sanguinanti contro il
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terreno paludoso per far presa nella melma. Sull’argine trova un
albero. Alcune foglie, le ultime, reduci dell’autunno, le sfiorano
il viso. Il tronco è più grande degli altri e mentre lo abbraccia
pensa a Theis, suo padre, un gigante d’uomo, taciturno e scontroso, solido baluardo contro il mondo esterno.
Si aggrappa alla fragile corteccia argentea, la stringe come un
tempo stringeva lui, le loro due forze unite. Non c’era bisogno
d’altro, non ci sarebbe mai stato bisogno d’altro.
Dal cielo sconfinato proviene un sibilo potente. Le luci brillanti e onniveggenti di un jet che si ribella alla legge di gravità
e fugge da Kastrup, dalla Danimarca. La sua fugace presenza
l’abbaglia, l’acceca. Nella luce implacabile Nanna Birk Larsen si
sfiora il volto con le dita. Sente la ferita che scende dall’occhio
sinistro fin sulla guancia, brutta, aperta, sanguinante.
Sente l’odore di lui, la sua presenza. Su di lei, dentro di lei.
In mezzo a tutto quel dolore, alla paura, si leva una fiammata
di rabbia, cocente e improvvisa.
Sei proprio la figlia di Theis Birk Larsen.
Dicevano tutti così quando lei gliene dava motivo.
Sei Nanna Birk Larsen, la figlia di Theis e di Pernille, e sfuggirai
al mostro che ti insegue nella notte, nella foresta della Pentecoste
ai margini della città dove, a pochi ma interminabili chilometri
di distanza, si trova quel luogo caldo e sicuro chiamato casa.
Stringe il tronco come un tempo stringeva suo padre, le braccia
avvinghiate alla corteccia d’argento che si sfalda, la sottoveste
lucida macchiata di sangue e di terra, tremando in silenzio, e
cerca di convincersi che la salvezza è poco più in là, oltre il bosco
buio e gli alberi morti che non danno riparo.
Un fascio di luce bianca è puntato su di lei. Non è la cascata
luminosa che scende dal ventre di un aereo in volo su quella
landa desolata come un grande angelo meccanico, nella vana
ricerca di un’anima smarrita da salvare.
Corri, Nanna, corri grida una voce.
Corri, Nanna, corri pensa lei.
Adesso su di lei c’è il fascio di una torcia, quell’unico occhio
luminoso. È lì.
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Lunedì 3 novembre
«È sul retro» disse il poliziotto. «L’ha trovata un senzatetto.»
Sette e mezza del mattino. Ancora buio, con la pioggia che
veniva giù dritta e gelida. Il vicecommissario Sarah Lund se ne
stava a ridosso dell’edificio di mattoni vicino al porto e osservava gli uomini in uniforme intenti a delimitare la zona con il
nastro segnaletico della polizia.
L’ultima scena del crimine che avrebbe visto a Copenaghen.
Doveva per forza essere un omicidio. E di una donna, per di più.
«L’edificio è vuoto. Stiamo controllando gli appartamenti di
fronte.»
«Quanti anni aveva?» chiese Lund.
Il poliziotto, un tizio che conosceva appena, si strinse nelle
spalle e si asciugò la pioggia dal viso con la manica.
«Perché me lo chiede?»
Un incubo, avrebbe voluto rispondere lei. Un incubo da
cui si era svegliata quel mattino, alle sei e mezza, urlando, nel
letto vuoto. Quando si era alzata, Bengt – il dolce, premuroso,
placido Bengt – girava silenziosamente per l’appartamento,
intento a impacchettare le ultime cose. Mark, suo figlio, dormiva profondamente davanti alla tivù nella sua stanza e non
si era neppure mosso quando lei, senza fare rumore, aveva
guardato dentro. Quella sera tutti e tre avrebbero preso un
volo per Stoccolma. Una nuova vita in un altro paese. Una
svolta. Ponti tagliati.
Sarah Lund aveva trentotto anni ed era una persona scrupolo15
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sa, sempre concentrata sul mondo intorno a lei, mai su se stessa.
Quello era il suo ultimo giorno nella polizia di Copenaghen.
Le donne come lei non avevano incubi, terrori notturni, fugaci
visioni di un giovane volto spaventato come avrebbe potuto
essere, un tempo, il suo.
Quelle fantasie erano per gli altri.
«Non è necessario che mi risponda» disse il poliziotto, seccato
per il suo silenzio, sollevando il nastro e facendo strada verso
la porta scorrevole di metallo. «Sa una cosa? Non ho mai visto
niente di simile.»
Le porse un paio di guanti azzurri e rimase a guardare mentre
lei li indossava, poi spinse con la spalla la porta arrugginita che
si aprì con un gemito da gatto torturato.
«Torno tra un minuto» disse lui.
Lei non aspettò. Avanzò come faceva sempre, da sola, guardando da una parte e poi dall’altra, gli occhi vivaci ben aperti,
sempre vigili.
Per qualche motivo, appena lei fu dentro l’uomo richiuse la
porta scorrevole così in fretta che questa volta lo stridore del
gatto fu di un’ottava più alto. Poi venne zittito dal tonfo della
pesante porta di ferro che chiudeva fuori il grigio del mattino.
Davanti a lei c’erano un corridoio centrale e una cella come
quelle usate per la carne, con ganci a intervalli regolari lungo
le travi. Una serie di lampadine nude appese al soffitto.
Il pavimento di cemento scintillava per l’umidità. Qualcosa
si muoveva nella semioscurità, in fondo, oscillando lentamente
come un gigantesco pendolo.
Si sentì lo scatto di un interruttore e poi il locale piombò
nell’oscurità, come la camera da letto quella mattina quando
un sogno atroce e indesiderato l’aveva svegliata di soprassalto.
«Luce!» gridò Lund.
La sua voce echeggiò nel ventre vuoto e oscuro dell’edificio.
«Luce, per favore.»
Silenzio. Era una poliziotta esperta, ricordava sempre tutto
quello che doveva portare con sé, tranne la pistola che tendeva
sempre a dimenticare.
Però aveva la torcia, al sicuro nella tasca destra. La prese e la
impugnò come facevano i poliziotti: mano destra alzata, polso
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piegato all’indietro, fascio di luce puntato in avanti a frugare
in posti dove gli altri non guardavano.
La torcia e Lund cominciarono a cercare. Coperte, indumenti
sporchi, due lattine di Coca-Cola accartocciate, una confezione
vuota di preservativi.
Tre passi e poi si fermò. Vicino alla parete di destra, visibile nel
punto in cui incontrava il pavimento, c’era una pozza di liquido
rosso e viscoso, due scie orizzontali sul cemento scrostato, come
quelle lasciate da un corpo insanguinato trascinato sul pavimento.
Lund si infilò una mano in tasca, tirò fuori un pacchetto di
Nicotinell, i chewing-gum alla nicotina, e se ne mise uno in bocca.
Non era solo Copenaghen che si lasciava alle spalle. Anche le
sigarette figuravano sull’elenco delle cose da eliminare.
Si chinò e immerse un dito nella pozza, poi lo avvicinò al
naso e lo annusò.
Altri tre passi e trovò un’ascia da boscaiolo, con il manico
lucido e pulito come se fosse uscita dal negozio il giorno prima.
Mise due dita nella chiazza di liquido rosso intorno alla lama,
ne saggiò la consistenza, l’annusò e rifletté.
Non riusciva proprio a farsi piacere il gusto dei Nicotinell.
Proseguì.
La cosa davanti a lei diventava più visibile. Ondeggiava da
una parte all’altra. Un telone industriale così macchiato di rosso
da sembrare uno di quei drappi in cui si avvolgono gli animali
macellati.
Quello che c’era sotto aveva una forma familiare, umana.
Lund cambiò la posizione della torcia, tenendola vicina alla
vita, col fascio puntato all’insù per guardare meglio il tessuto,
alla ricerca di un punto in cui afferrarlo.
Il telone venne via con un unico, rapido movimento e ciò
che stava sotto continuò lentamente a ondeggiare nella luce
della torcia. Il volto impietrito colpito dalla luce era quello di
un uomo, la bocca spalancata in una O senza fine. Capelli neri,
incarnato roseo, un mostruoso pene di plastica eretto e ammiccante. Sulla testa un elmo azzurro da vichingo sormontato da
corna d’argento, da cui scendevano trecce dorate.
Lund piegò la testa di lato e sorrise a loro beneficio.
Legato al petto del giocattolo erotico c’era un cartello: “Grazie,
capo, per sette fantastici anni. I ragazzi”.
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Risate dall’oscurità.
I ragazzi.
Un bello scherzo. Anche se avrebbero potuto procurarsi del
sangue vero.
Il Politigården era un labirinto grigio che sorgeva su un terreno bonificato vicino al canale. Freddo e squadrato all’esterno,
all’interno il quartier generale della polizia si apriva su un cortile
rotondo, delimitato da un porticato retto da colonne classiche.
Dentro, scalinate a spirale conducevano a corridoi curvi rivestiti
di marmo nero venato che giravano intorno al cerchio perfetto
come vene calcificate. Le ci erano voluti tre mesi per orizzontarsi
in quel dedalo scuro. Persino adesso, certe volte, era costretta a
fermarsi a pensare per capire dove si trovasse.
La Omicidi era al secondo piano, nord-est. Lund era nell’ufficio di Buchard, con l’elmo da vichingo in testa, e ascoltava le
loro battute, apriva i regali, sorrideva in silenzio sotto le corna
di cartone e le trecce dorate.
Poi li ringraziò, andò nel suo ufficio e cominciò a raccogliere
le sue cose. Non c’era tempo per fare baldoria. Sorrise alla foto
di Mark che teneva incorniciata sulla scrivania. Scattata tre anni
fa, quando aveva nove anni, molto prima che tornasse a casa
con quell’assurdo orecchino. Subito prima del divorzio. Poi era
arrivato Bengt a tentarla con una nuova vita in Svezia, oltre le
acque gelide e grigie dell’Øresund.
Mark da piccolo, sempre imbronciato, allora come adesso.
Anche questo sarebbe cambiato in Svezia. Insieme a tutto il resto.
Lund spinse in una scatola di cartone tutto quello che si trovava sulla scrivania, la scorta trimestrale di Nicotinell, le penne,
il temperamatite a forma di bus londinese, poi posò la foto di
Mark sopra a tutto.
La porta si aprì ed entrò un uomo.
Lei guardò, valutò, come faceva sempre. Una sigaretta all’angolo della bocca, capelli corti, un volto severo. Occhi grandi,
grandi orecchie. Abiti economici e un po’ troppo giovanili per
uno che poteva essere suo coetaneo. Reggeva una scatola simile alla sua. Lund vide una cartina di Copenaghen, un piccolo
canestro da basket da appendere alla parete, un’automobilina
della polizia, un paio di cuffie.
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«Sto cercando l’ufficio di Lund» disse, fissando l’elmo da vichingo posato sul nuovo paio di sci che le avevano appena regalato.
«Sono io.»
«Jan Meyer. Quella è la vostra uniforme?»
«Vado in Svezia.»
Lund prese le sue cose e i due si esibirono in un piccolo balletto con le scatole mentre lei cercava di guadagnare l’uscita.
«Per l’amor del cielo... Perché?» chiese Meyer.
Lei posò la scatola e si tirò indietro i lunghi, indomiti capelli
castani, cercando di pensare se ci fosse qualcos’altro di importante da prendere.
Lui tirò fuori il piccolo canestro e guardò la parete.
«Mia sorella ha fatto una cosa così» disse Meyer.
«Così come?»
«Qui non gliene andava dritta una, così si è trasferita a Bornholm insieme a un tizio.» Meyer posò il canestro sopra gli schedari. «Una brava persona. Non ha funzionato.»
Lund, infastidita dai capelli, prese un elastico dalla tasca e li
legò in una coda di cavallo.
«Perché no?»
«Troppo isolato. Impazzivano a sentire le mucche scoreggiare
tutto il giorno.» Meyer tirò fuori un boccale da birra in peltro e
se lo rigirò tra le mani. «Tu invece dove vai?»
«Sigtuna.»
Meyer si bloccò e la fissò in silenzio.
«Anche quello è un posto molto isolato» aggiunse Lund.
Lui diede un lungo tiro alla sigaretta e prese un piccolo pallone
dalla scatola, poi posò la macchinina della polizia sulla scrivania e cominciò a muoverla avanti e indietro. Quando le ruote
giravano, si accendeva la luce azzurra e si sentiva il lamento di
una piccola sirena.
Stava ancora giocando quando entrò Buchard con un foglio
in mano.
«Vi siete conosciuti» disse il capo. Non era una domanda.
L’immagine del vecchio zio bonario, seduto accanto a lei a
colazione, era sparita.
«Abbiamo avuto il piacere...» iniziò Lund.
«È appena arrivato questo.» Buchard le porse il rapporto.
«Ma se sei troppo impegnata a sgomberare...»
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«Ho tempo» disse Lund. «Ho tutto il giorno...»
«Bene» fece Buchard. «Perché non porti Meyer con te?»
L’uomo con la scatola spense la sigaretta e si strinse nelle
spalle.
«Sta sistemando le sue cose» disse Lund.
Meyer mollò la macchinina, prese il pallone e lo fece rimbalzare su una mano.
Sorrise. Sembrava diverso, più umano, meno spigoloso.
«Mai troppo impegnato, se c’è da lavorare.»
«Un buon inizio» disse Buchard. C’era una certa ostilità
nella sua voce. «Mi farebbe piacere, Meyer, e dovrebbe essere
lo stesso per te.»
Con il finestrino abbassato, Lund osservava il Kalvebod Fælled
dal sedile del passeggero. Tredici chilometri a sud della città,
vicino all’acqua. Era una giornata asciutta dopo due giorni di
pioggia. Probabilmente non sarebbe rimasta così a lungo. Terreno piatto e paludoso, erba gialla e canali si estendevano fino
all’orizzonte, con un bosco scuro e spoglio sulla destra. Un vago
odore di mare, e più vicino puzza di vegetazione bagnata e in
decomposizione. Umidità nell’aria prossima allo zero. Si stava
alzando un vento forte e freddo.
«Non puoi portare la pistola? Non puoi effettuare arresti?
Almeno le multe per divieto di sosta le puoi fare?»
Un tizio che portava a spasso il cane di mattina presto aveva
trovato degli indumenti femminili in un’area brulla vicino a un
boschetto di betulle bianche noto come Pinseskoven, la foresta
della Pentecoste.
«Devi essere svedese per arrestare le persone. È una...» Lund
si pentì di aver risposto alle sue domande. «Funziona così.»
Meyer si infilò in bocca una manciata di patatine, poi appallottolò il sacchetto e lo gettò a terra. Guidava come un adolescente,
troppo veloce e preoccupandosi poco degli altri.
«E tuo figlio cosa ne pensa?»
Lei scese senza curarsi che lui la seguisse.
Vicino al punto del ritrovamento c’erano un detective in borghese e un uomo in uniforme che vagava tra le collinette d’erba
tirando calci alle zolle. Tutto quello che avevano era un top di
cotone a fiori, di quelli che portano le ragazzine, e la tessera di
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un negozio di videonoleggio. Entrambi in sacchetti di plastica
per le prove. Il top era macchiato di sangue.
Lund ruotò su se stessa di trecentosessanta gradi, gli occhi
grandi e luminosi alla ricerca di qualcosa, come sempre.
«Chi frequenta questo posto?» chiese all’uomo in uniforme.
«Di giorno i bambini dell’asilo per gite naturalistiche. Di notte
le prostitute della città.»
«Bel posto per fare una marchetta» osservò Meyer. «Dov’è
finito il romanticismo?»
Lund continuava a girare lentamente su se stessa.
«Quando è stata lasciata qui questa roba?»
«Ieri o l’altro ieri. Non venerdì. C’era una scolaresca in gita.
L’avrebbero vista.»
«Nessuna segnalazione? Nessun rapporto dagli ospedali?»
«Niente.»
«Nessuna idea di chi possa essere?»
Lui le mostrò il sacchetto di plastica con il top.
«Taglia 40» disse il detective. «Non sappiamo altro.»
Sembrava un capo da poco, i fiori così sgargianti da risultare
esagerati. Un’esagerazione da adolescente: infantile e sexy al
tempo stesso.
Lund prese il secondo sacchetto ed esaminò la tessera del
videonoleggio.
C’era un nome: Theis Birk Larsen.
«L’abbiamo trovata vicino al sentiero» aggiunse il poliziotto.
«Il top invece era qui. Magari hanno litigato e lui l’ha gettata
giù dall’auto. E poi...»
«E poi» disse Meyer «lei ha recuperato scarpe, giacca, borsa
e la confezione di preservativi e se n’è tornata a casa a guardare
la tivù.»
Lund si rese conto che non riusciva a staccare lo sguardo dal
bosco.
«Vuole che vada a parlare con questo Birk Larsen?» chiese il
poliziotto in uniforme.
«Sì» rispose lei, e lanciò un’occhiata all’orologio.
Otto ore e avrebbe chiuso. Con Copenaghen e la vita precedente.
Meyer si avvicinò e lei si ritrovò avvolta dal fumo della sua
sigaretta.
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«Possiamo andare a parlargli noi, Lund. Mollare una puttana
quaggiù. Picchiarla. Il mio cliente ideale.»
«Be’, non è il nostro campo.»
La sigaretta finì nel fosso più vicino.
«Lo so. È solo che...» Prese un pacchetto di chewing-gum
dalla tasca. Sembrava che quell’uomo vivesse di patatine, dolci
e sigarette. «Voglio solo scambiare due parole con lui.»
«A proposito di che? Non c’è nessun caso. La prostituta non
ha sporto denuncia.»
Meyer si sporse in avanti e le si rivolse come un maestro
potrebbe fare con un’alunna.
«Io sono bravo a parlare.»
Aveva grandi orecchie a sventola, quasi caricaturali, e la barba
di un giorno. Sarebbe stato perfetto sotto copertura, rifletté Lund.
Forse lo era stato. Le tornò in mente il modo in cui Buchard si
era rivolto a lui. Delinquente. Poliziotto. Meyer avrebbe potuto
essere entrambe le cose.
«Ho detto...»
«Dovresti vedermi, Lund. Davvero. Prima che tu parta. Il
mio regalo agli svedesi.»
Prese la tessera dalle mani di lei. Lesse il nome.
«Theis Birk Larsen.»
Sarah Lund fece un altro giro su se stessa, osservando l’erba
gialla, i fossi, il bosco.
«Guido io» disse.
Pernille appoggiata al suo petto, che rideva come una bambina.
Mezzi svestiti sul pavimento della cucina a metà di una
mattinata lavorativa. Era stata un’idea di Theis, come la gran
parte delle volte.
«Vestiti» gli ordinò e si staccò da lui alzandosi in piedi. «Va’
a lavorare, bestia.»
Lui le rivolse il suo sorriso da giovane teppista, poi si rinfilò
la salopette rossa. Quarantaquattro anni, capelli rossi con un po’
di grigio, lunghe basette che gli arrivavano al mento squadrato,
la faccia pronta a passare in un istante da appassionata a gelida,
per tornare subito dopo impassibile.
Pernille aveva un anno meno di lui, una donna attiva, anco22
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ra in forma dopo tre figli, abbastanza da eccitarlo oggi come
vent’anni prima, quando si erano conosciuti.
Lo osservò infilarsi la pesante divisa, poi si guardò attorno
nel piccolo appartamento.
Era incinta di Nanna quando si erano trasferiti a Vesterbro.
Era già incinta quando si erano sposati. L’avevano cresciuta lì,
in quella stanza luminosa, allegra, con le piante in vaso alla finestra e le fotografie alle pareti, piena delle cianfrusaglie di una
famiglia. Da neonata urlante a bellissima adolescente, seguita,
dopo un intervallo troppo lungo, da Emil e Anton, che adesso
avevano sette e sei anni.
L’abitazione si trovava sopra il magazzino della ditta di
trasporti Birk Larsen. I locali al piano terra erano più ordinati
delle stanze sacrificate in cui vivevano ammassati in cinque, in
mezzo a un’accozzaglia di ricordi, disegni, giocattoli e disordine
ovunque.
Pernille osservò le piante aromatiche sulla finestra, la luce
verde che filtrava dalle foglie.
Piene di vita.
«Presto Nanna avrà bisogno di un appartamento» disse, sistemandosi i lunghi capelli castani. «Potremmo versare un anticipo,
no?»
Lui scoppiò in una risata.
«Dalle tempo. Lascia che finisca la scuola, prima.»
«Theis...»
Lei tornò tra le sue braccia forti e lo guardò negli occhi. Alcune
persone avevano paura di Theis Birk Larsen. Lei no.
«Forse non sarà necessario» disse lui.
Il suo volto ruvido si increspò in un sorriso malizioso.
«Perché?»
«È un segreto.»
«Dimmelo!» esclamò Pernille e gli diede un pugno sul petto.
«Non sarebbe più un segreto.»
Theis scese le scale che portavano al magazzino. Lei lo seguì.
Furgoni, uomini, pallet, merci imballate con la pellicola termoretraibile, inventari, orari.
Le assi del pavimento scricchiolavano sempre. Forse lei aveva
gridato. Loro avevano sentito. Lo capì dalle facce sorridenti.
Vagn Skærbæk, il più vecchio amico di Theis, che lo aveva
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conosciuto ancora prima di lei, fece il gesto di togliersi un immaginario cappello.
«Dimmelo!» ripeté lei, afferrando il vecchio giaccone di pelle
nera dal gancio.
Birk Larsen indossò il giaccone, tirò fuori il berretto di lana
nero e se lo mise. Rosso all’interno, nero fuori. Pareva che vivesse con quella divisa addosso. Lo faceva sembrare un truce
maschio di foca dal petto rosso, felice del suo territorio e pronto
a scacciare con la forza gli intrusi.
Un’occhiata al portablocco, una crocetta accanto a una destinazione, poi chiamò Skærbæk accanto al furgone più vicino.
Rosso anche quello e, come le divise, col nome Birk Larsen
scritto sopra. Come il triciclo rosso con il cassone che Skærbæk
si ostinava a tenere in ordine diciotto anni dopo che lo avevano
acquistato per portare Nanna in giro per la città.
Birk Larsen. Patriarca di una modesta ma felice dinastia. Re
della piccola casa di Vesterbro.
Batté le mani gigantesche, impartì qualche ordine, poi se ne
andò.
Pernille Birk Larsen rimase lì, in piedi, finché gli uomini non
tornarono al lavoro. Aveva una dichiarazione dei redditi da
finire. Pagamenti da fare, e quella non era mai una bella cosa.
E incassi da nascondere. Nessuno dava tutto ciò che doveva al
governo, se poteva farne a meno.
Non abbiamo bisogno di altri segreti, Theis, pensò.
Sotto la statua dorata di Absalon, sotto la torre campanaria e il
profilo merlato del tetto, sullo sfondo della fortezza di mattoni
rossi del Rådhus, il municipio di Copenaghen, campeggiavano
tre manifesti.
Kirsten Eller, Troels Hartmann, Poul Bremer. Sorridenti come
solo i politici sanno essere.
Eller, la donna, labbra sottili tese in un sorriso che era più un
sogghigno. Il Partito di centro, eternamente impantanato in una
terra di nessuno, nella speranza di aggrapparsi all’una o all’altra
parte per raccogliere le briciole cadute dalla tavola del padrone.
Sotto di lei Poul Bremer sorrideva alla città che già era sua.
Sindaco di Copenaghen da dodici anni, politico pasciuto e benestante, vicino ai parlamentari che tenevano i cordoni della
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borsa, sempre in sintonia con le opinioni volubili della truppa,
sempre a suo agio con il network di sponsor e sostenitori che
seguivano ogni sua parola. Giacca nera, camicia bianca, cravatta
di seta grigio perla, occhiali seri con la montatura nera, a sessantacinque anni Bremer aveva l’aspetto benevolo di uno zio
amato da tutti, prodigo di doni e favori, il parente autorevole,
custode di tutti i segreti e di tutto il sapere.
E poi Troels Hartmann.
Quello giovane. Quello bello. Il politico che le donne guardavano e segretamente ammiravano.
Indossava i colori dei liberali. Abito blu, camicia azzurra con
il colletto sbottonato. Hartmann, quarantadue anni, aria da ragazzo con i suoi bei lineamenti nordici, anche se all’obiettivo non
era sfuggita un’ombra di dolore nei suoi occhi blu cobalto. Un
uomo per bene, diceva la foto. Una nuova generazione decisa a
scacciare quella vecchia, a portare idee fresche, la promessa di
un cambiamento. In parte già al potere poiché, grazie al sistema elettorale, gestiva con energia e lungimiranza l’assessorato
all’Istruzione. Già sindaco, in un certo senso, anche se solo di
scuole e collegi.
Tre politici pronti a darsi battaglia per conquistare la corona
di Copenaghen, la capitale, una metropoli in continua crescita
dove viveva e lavorava, litigava e si azzuffava più di un quinto
dei cinque milioni e mezzo di danesi. Giovani e vecchi, danesi
di nascita e immigrati recenti, talvolta non del tutto benvenuti.
Onesti e diligenti, indolenti e corrotti. Una città come tante.
Eller, l’outsider, la cui unica chance era quella di stringere il
miglior accordo possibile. Hartmann, giovane e idealista. Un
ingenuo, avrebbero detto i suoi avversari, a illudersi di poter
spodestare Poul Bremer, il grande vecchio della politica, dal trono
che considerava suo.
Nella gelida giornata di novembre i loro volti sorridevano
all’obiettivo, per la stampa, per la gente lungo la strada. Dietro
le finestre sporche di smog del castello di mattoni rossi chiamato Rådhus, nei lunghi corridoi, nelle stanze piccole come celle
dove i politici si ritrovavano a parlottare e complottare, la vita
era diversa.
Dietro i sorrisi immobili e artificiali era in atto una guerra.
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Legno lucido. Finestre alte e strette con vetri colorati. Divani
e poltrone di pelle. Stucchi dorati, mosaici, dipinti. Odore di
mogano lucidato.
I manifesti di Hartmann erano sparsi ovunque, appoggiati alle
pareti, pronti a essere affissi per la città. Sulla scrivania, in una
cornice di legno, un ritratto della moglie nel letto d’ospedale,
tranquilla, bella e coraggiosa, un mese prima di morire. Accanto
a quella, una foto di John F. Kennedy con Jackie alla Casa Bianca.
Sullo sfondo un complesso suonava e li osservava con ammirazione. Lei, con un bellissimo abito da sera di seta, sorrideva.
Kennedy sussurrava qualcosa all’orecchio della moglie.
La Casa Bianca, prima di Dallas.
Nel suo ufficio privato Troels Hartmann lanciò un’occhiata
alle foto, poi all’agenda.
Lunedì mattina. Lo aspettavano tre delle settimane più lunghe
della sua vita politica. La prima di una serie infinita di riunioni.
I suoi due più stretti collaboratori sedevano all’altro lato
della scrivania, i computer portatili aperti, intenti a esaminare
il programma della giornata. Morten Weber, coordinatore della
campagna elettorale, amico di Troels fin dai tempi dell’università. Impegnato, silenzioso, solitario, sensibile. Quarantaquattro
anni, capelli ricci e ribelli nonostante la calvizie incipiente, occhi
sempre in movimento dietro gli occhiali con la montatura di
metallo dorato. Ignaro e incurante del proprio aspetto. Da una
settimana indossava sempre la stessa giacca stazzonata che mal
si intonava ai pantaloni. Al massimo della felicità quando poteva fare le pulci ai documenti del comitato e stringere accordi
in stanze piene di fumo.
Ogni tanto si allontanava dal tavolo con la poltroncina girevole, si metteva in un angolino tranquillo, prendeva siringa e insulina, tirava fuori la camicia dai pantaloni e si faceva
un’iniezione nell’addome flaccido e bianco. Poi se ne tornava alla
discussione, infilandosi la camicia nei pantaloni senza perdere
una sola battuta.
Rie Skovgaard, il consigliere politico, fingeva di non vedere.
La mente di Hartmann si allontanò dall’elenco degli impegni.
Per un istante si ritrovò distaccato dal mondo della politica.
Trentadue anni, volto spigoloso e vivace, più attraente che bella.
Combattiva, pungente, sempre elegante. Quel giorno indossava
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un tailleur verde, attillato. Costoso. I capelli sembravano presi
dalla foto che Hartmann teneva sulla scrivania – Jackie intorno
al 1963 – lunghi e girati verso il collo esile, apparentemente
naturali anche se non c’era mai una ciocca fuori posto.
Il taglio da funerale presidenziale, lo chiamava Weber, ma a
sua insaputa. Rie Skovgaard non era così quando era arrivata.
Morten Weber era figlio di un insegnante di Aarhus. Skovgaard veniva da una famiglia più altolocata. Suo padre era un
deputato influente. Prima di passare con i liberali faceva l’account nell’ufficio di Copenaghen di un’agenzia pubblicitaria
newyorkese. Adesso promuoveva Hartmann, la sua immagine,
le sue idee, più o meno come prima si occupava di assicurazioni
sulla vita o di catene di supermercati.
Una squadra improbabile, talvolta problematica. Rie era invidiosa di Weber? Del fatto che lui avesse vent’anni di servizio
più di lei, avesse fatto carriera fino ad arrivare nella segreteria
del Partito liberale, che fosse l’uomo dietro le quinte, mentre il
sorriso seducente e i modi accattivanti di Hartmann catturavano
consenso e voti?
Rie Skovgaard era una nuova arrivata che aveva fiutato l’occasione ma era poco interessata all’ideologia.
«Il dibattito all’ora di pranzo. Abbiamo bisogno di manifesti
alla scuola» disse con tono calmo e professionale. «Ci servono...»
«Già fatto» rispose Weber puntando il dito verso il computer.
Era una giornata uggiosa. L’ufficio si trovava di fronte al Palace Hotel. Di notte l’insegna blu al neon proiettava una strana
luce nella stanza.
«Ho mandato una macchina come prima cosa.»
Lei incrociò le braccia snelle.
«Tu pensi proprio a tutto, Morten.»
«Per forza.»
«Cosa vorresti dire?»
«Bremer.» Weber pronunciò il nome come se fosse un epiteto.
«Non è un caso se è diventato padrone di questa città.»
Hartmann si concentrò di nuovo sulla conversazione.
«Non lo sarà più per molto.»
«Hai visto le ultime proiezioni?» chiese Skovgaard.
«Mi sembrano buone» rispose Hartmann con un cenno del
capo. «Migliori di quanto sperassimo.»
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Morten Weber scosse la testa.
«Le ha viste anche Bremer. Non se ne starà lì tranquillo a
farsi scivolare il regno tra le dita. Il dibattito all’ora di pranzo,
Troels, è in una scuola. Giochiamo in casa. Ci saranno i media.»
«Parla di istruzione» si intromise Skovgaard. «Abbiamo
chiesto fondi extra per installare altri computer. Per migliorare
l’accesso alla rete. Bremer ha bloccato lo stanziamento. L’assenteismo è salito del venti per cento. Possiamo rinfacciarglielo...»
«Lo ha bloccato lui personalmente?» chiese Hartmann. «Lo
sai per certo?»
Un sorrisetto compiaciuto.
«Sono riuscita a mettere le mani su alcuni promemoria confidenziali.»
Come una scolaretta monella, Skovgaard accennò con le mani
delicate ai documenti che aveva davanti.
«È scritto qui, nero su bianco. Posso far trapelare l’informazione, se devo. Ho trovato un sacco di cose che possiamo usare
contro di lui.»
«Potremmo evitare queste stronzate, per favore?» chiese
Weber stizzito. «La gente si aspetta qualcosa di meglio da noi.»
«La gente si aspetta che perdiamo, Morten» ribatté pronta
Skovgaard. «Io sto cercando di cambiare la situazione.»
«Rie...»
«Ci arriveremo» li interruppe Hartmann. «E lo faremo come
si deve. Ho visto Kirsten Eller a colazione. Credo che vogliano
fare un accordo.»
I due si zittirono, poi Skovgaard chiese: «Sono interessati a
un’alleanza?».
«Con Kirsten Eller?» borbottò Weber. «Cristo. È come fare un
patto col diavolo.»
Troels Hartmann si appoggiò allo schienale della poltrona,
chiuse gli occhi e si sentì più felice di quanto non gli accadesse
da giorni.
«I tempi sono cambiati, Morten. Poul Bremer sta cominciando
a perdere consensi. Se Kirsten ci garantisce il suo non trascurabile appoggio...»
«Abbiamo una coalizione che detiene la maggioranza» concluse Skovgaard in tono vivace.
«Dobbiamo pensarci bene» disse Weber.
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Gli squillò il cellulare. Andò alla finestra per rispondere.
Troels Hartmann scorse i documenti che lei gli aveva preparato, un briefing per il dibattito.
Skovgaard spostò la sedia accanto alla sua in modo da poterlo
leggere insieme.
«Non hai bisogno del mio aiuto, giusto? Queste sono idee tue.
Noi te le stiamo solo ricordando.»
«Ne ho bisogno, eccome. Ho perso l’orologio! Un bell’orologio. Un...»
Skovgaard gli diede un colpetto con il gomito. Il Rolex era
nella sua mano, prudentemente tenuto sotto la scrivania in
modo che nessun altro potesse vederlo.
Lei aprì le dita e glielo mise nel palmo.
«L’ho trovato sotto il mio letto. Non riesco proprio a capire
come ci sia finito. E tu?»
Hartmann si fece scivolare il Rolex al polso.
Weber tornò alla scrivania con il telefono in mano e l’espressione preoccupata.
«È la segretaria del sindaco. Bremer vuole vederti.»
«A che proposito?»
«Non lo so. Vuole vederti subito.»
«Tra quindici minuti» disse Hartmann, guardando l’ora. «Non
sono ai suoi ordini.»
Weber pareva perplesso.
«Mi avevi detto di aver perso l’orologio.»
«Quindici minuti» ripeté Hartmann.
I corridoi si diramavano in ogni direzione, lunghi e scintillanti,
i soffitti affrescati con scene di battaglie e cerimonie, grandiose
sagome in armatura che guardavano in giù, verso le figure piccole come insetti.
«Non hai un’aria felice» osservò Hartmann mentre andavano
verso gli uffici del sindaco.
«Felice? Sono il coordinatore della tua campagna elettorale.
Siamo a tre settimane dalle elezioni e tu stringi alleanze senza
neppure dirmelo. Che cosa vuoi? Che mi metta a ballare per la
contentezza?»
«Credi che Bremer lo sappia? Di Kirsten Eller?»
«Poul Bremer sa anche quello che dici nel sonno. E poi, se
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tu fossi Kirsten Eller e volessi fare un accordo, lo proporresti a
una parte sola?»
Hartmann si fermò davanti alla porta della sala del consiglio.
«Lascia fare a me, Morten. Lo scoprirò.»
Poul Bremer era in piedi sul podio, accanto alla poltrona
antica e maestosa che aveva occupato negli ultimi dodici anni.
Parlava al cellulare in tono gioviale.
Hartmann si avvicinò e prese il libro posato sul tavolo vicino
al microfono. Una biografia di Cicerone. E ascoltò, come era in­
teso che facesse.
«Sì, sì. Fammi parlare.» Quella risata profonda e generosa,
la benedizione di Bremer ai suoi favoriti. «Andrai al governo.
Ministro. Me lo sento, e io non sbaglio mai.» Un’occhiata al
visitatore. «Scusa... devo andare.»
Bremer si sedette sulla poltrona del vice. Non quella del
sindaco.
«Hai letto quel libro, Troels?»
«No. Spiacente.»
«Prendilo. Un dono istruttivo. Ci rammenta che l’unica cosa
che impariamo dalla storia è... che non impariamo nulla.» Aveva il tono e i modi di un insegnante amabile, affinati nel corso
degli anni. «Cicerone era un uomo eccellente. Sarebbe andato
lontano, se avesse atteso il momento opportuno.»
«Sembra un mattone.»
«Vieni, siediti qui.» Bremer indicò la poltrona accanto alla
sua. Quella del sindaco. Il trono. «Provala. Non appartiene a
nessuno. Neppure a me, checché tu ne pensi.»
Hartmann stette al gioco. Si lasciò cadere sul legno duro e
lucido. Sentì l’odore di mogano, l’odore del potere. Osservò la
sala con le sedie vuote dei consiglieri sistemate a semicerchio,
con davanti gli schermi piatti e i pulsanti per votare.
«È solo una poltrona, Troels» disse Bremer, sorridendo.
Aveva l’abitudine di parlare e muoversi come un uomo più
giovane. Faceva parte dell’immagine.
«Roma amava Cicerone, apprezzava le sue idee. Le idee producono bei discorsi. Non molto di più. Cesare era un dittatore,
ma era una canaglia che i Romani conoscevano e amavano.
Cicerone era impaziente. Invadente. Un parvenu. Sai cosa gli
è successo?»
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«Si è dato alla televisione?»
«Molto divertente. Lo hanno ucciso. Hanno esposto le sue
mani e la sua testa al pubblico ludibrio nel Foro. Talvolta i cittadini che serviamo sono un branco di bastardi ingrati.»
«Volevi vedermi?»
«Ho visto i sondaggi. Tu?»
«Sì.»
«Sarai un buon sindaco. Governerai bene questa città.» Bremer si lisciò le maniche della giacca di seta nera, tirò i polsini
dell’elegante camicia bianca, si tolse gli occhiali, si accertò che
fossero puliti e si passò una mano tra i capelli argentei. «Ma
non questa volta.»
Hartmann sospirò e guardò il Rolex.
«Io andrò in pensione tra quattro anni. Che fretta c’è?»
«Credo si chiamino elezioni. Si tengono a novembre. Ogni
quattro anni.»
«Ho un’offerta da farti. Una poltrona. Gestirai qualcosa di
più delle scuole. Ci sono sette poltrone. Quella del sindaco e
altre sei per i vari assessorati. Puoi scegliere quella che vuoi
tra queste sei. Imparerai come girano le cose in questa città.
Quando verrà il momento, sarai pronto per questo compito e
io sarò felice di passarlo a te.»
Bremer gli fece quel suo sorriso fulmineo.
«Ti garantisco che nessuno ti ostacolerà. Ma adesso non puoi
averlo. Non sei pronto.»
«Non è una decisione che spetta a te, vero?»
Il sorriso sparì.
«Io sto solo cercando di essere amichevole. Non dobbiamo
per forza essere nemici...»
Hartmann si alzò per andarsene. Poul Bremer gli si parò
davanti e lo fermò con una mano tesa. Era un uomo massiccio,
ancora in forma. Giravano voci che da giovane si fosse guadagnato il consenso con le minacce. Nessuno sapeva se fosse vero.
Nessuno aveva il coraggio di chiederglielo.
«Troels.»
«Hai abusato dell’ospitalità» disse Hartmann secco. «Vattene senza fare storie. Con dignità. Potrei trovarti un lavoro da
qualche parte.»
Il signore anziano dai modi suadenti lo fissò, divertito.
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«Una piccola promessa da parte dei centristi riesce a ispirarti
tanta fiducia? Fammi il piacere! Sono solo dei cagnolini. Quella
grossa vacca di Eller sarebbe disposta a succhiare il cazzo a
chiunque e a farsi pisciare sopra pur di ottenere un sottocomitato. Però...»
Si raddrizzò i gemelli d’oro.
«Loro sanno stare al proprio posto. Come ogni politico saggio.»
Bremer prese il libro, glielo porse e disse: «Leggi la storia
di Cicerone. Potresti imparare qualcosa. Nessuno vuole finire
fatto a pezzi per essere esposto al pubblico ludibrio. È meglio
che queste transizioni vengano pilotate. Senza clamore. Con
efficienza. Con una certa...»
«Perderai» lo interruppe Hartmann.
Il vecchio fece una risatina.
«Povero Troels. Sei così autorevole sui manifesti. Ma di persona...»
Allungò una mano e sfiorò il collo dell’abito di seta di Hartmann.
«Cosa c’è qua sotto, mi chiedo? Almeno tu lo sai?»
Meyer era già sceso prima ancora che lei avesse avuto il tempo
di spegnere il motore e stava mostrando il distintivo a una donna impegnata a caricare degli scatoloni nel bagagliaio di una
station wagon.
Rossa.
Lì tutto era rosso scarlatto. Gli uomini con le loro salopette
da lavoro. I furgoni. Persino un triciclo tirato a lucido con un
cassone davanti per accompagnare i bambini a scuola, trasportare la spesa, portare a spasso un cane pigro.
Tutto dello stesso colore, tutto con sopra il nome Birk Larsen.
Lund si avvicinò, ascoltando Meyer distrattamente, più che
altro guardandosi attorno.
Due porte scorrevoli si aprivano su un unico locale che fungeva
da magazzino e da garage. Oltre le casse, gli scatoloni, i macchinari Lund vide in un angolo un ufficio delimitato da pareti di
vetro e delle scale sul fondo, con il cartello privato. Quello era
l’indirizzo di casa di Birk Larsen. Evidentemente abitava sopra
il magazzino.
«Dov’è Theis Birk Larsen?» chiese Meyer alla donna.
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«Mio marito sta lavorando. Io sto andando dal commercialista.»
Una donna sulla quarantina, bella, capelli castani appena più
curati di quelli di Lund. Aveva un impermeabile di gabardine
beige e un’aria affannata. I figli, pensò Lund. Aveva riconosciuto
il badge. E non amava la polizia. Chi la amava?
«Lei abita qui?» chiese Lund.
«Sì.»
«Lui è di sopra?»
La donna tornò dentro il garage.
«È di nuovo per i furgoni? Siamo una ditta di trasporti. È
normale che intralciamo il traffico.»
«Non è per i furgoni» rispose Lund, seguendola. Altro rosso, altre divise. Uomini forti sollevavano casse, controllavano
liste, la osservavano. «Vogliamo solo sapere cosa ha fatto nel
weekend.»
«Siamo andati al mare con i nostri due bambini. Da venerdì
a domenica. Abbiamo preso un cottage. Perché?»
Teloni e corde. Casse di legno e pallet. Lund si chiese cosa la
aspettasse in Svezia, visto che lì non sarebbe stata un poliziotto
con pieni poteri. Non si era mai posta quella domanda. Bengt
voleva andare. Lei voleva andare con lui.
«Forse è tornato in città per lavoro?» disse Meyer.
La donna prese un registro contabile. Si stava stufando.
«No. È il primo weekend che ci prendiamo da due anni.
Perché avrebbe dovuto?»
Ufficio disordinato. Carte ovunque. Le grosse ditte non lavoravano in quel modo. Avevano sistemi computerizzati, organizzazione, denaro.
Lund uscì e guardò dentro il bagagliaio della station wagon.
Documenti e classificatori. Giocattoli. Un piccolo pallone, simile a quello che Meyer aveva lasciato in ufficio. Un Nintendo
maltrattato. Tornò dentro in ufficio.
«Cosa ha fatto quando siete tornati a casa?» stava chiedendo
Meyer.
«Siamo andati a letto.»
«Ne è sicura.»
Lei gli rise in faccia.
«Sono sicura.»
Mentre parlavano Lund girava per l’ufficio, osservando la
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confusione, cercando qualcosa di personale tra i conti, le ricevute, le fatture.
«Non so cosa pensiate che abbia fatto... e sinceramente non
mi interessa» stava dicendo la donna. «Eravamo al mare. Poi
siamo tornati a casa. Punto.»
Meyer tirò su col naso e si voltò verso Lund.
«Magari torneremo un’altra volta.»
Poi uscì, si accese una sigaretta, si appoggiò contro uno dei
furgoni rossi e si mise a fissare il cielo pallido.
In fondo all’ufficio, sulla parete nascosta da vecchie vaschette
portacorrispondenza sgangherate, c’erano delle foto. Una bella
ragazza adolescente che sorrideva abbracciando due bambini.
La stessa ragazza più da vicino, capelli biondi e ricci, occhi scintillanti, un po’ troppo truccata. Voleva sembrare più grande di
quello che era.
Lund prese il pacchetto di chewing-gum alla nicotina e se ne
mise uno in bocca.
«Avete una figlia?» chiese, continuando a osservare la ragazza
con il suo sorriso accattivante in entrambe le foto, quella in cui
sembrava troppo adulta e quella in cui giocava a fare la sorella
più grande con i due fratellini.
La madre stava uscendo dall’ufficio. Si bloccò. Si voltò, la
guardò e rispose con voce sommessa: «Sì. E due maschi. Di sei
e sette anni».
«Qualche volta usa la tessera del videonoleggio del padre?»
Mentre Lund la osservava, la donna cambiò. Sgomenta. Invecchiata. La bocca aperta. Le palpebre che sbattevano come se
avessero una vita propria.
«È possibile. Perché?»
«Dov’era ieri sera?»
Meyer era tornato dentro e ascoltava.
La donna posò le carte. Adesso sembrava turbata, spaventata.
«Nanna ha passato il fine settimana a casa di una compagna
di scuola, Lisa. Pensavo...» Si toccò i capelli senza alcun motivo.
«Pensavo che avrebbe telefonato. Ma non l’ha fatto.»
Lund non riusciva a staccare gli occhi dalle fotografie, dal volto
felice che sorrideva all’obiettivo senza un solo pensiero al mondo.
«Credo che farebbe meglio a chiamarla.»
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Liceo Frederiksholm, in centro. Dove c’erano i soldi. Non come
a Vesterbro. Intervallo. Lisa Rasmussen provò un’altra volta a
telefonare.
“Sono Nanna. Sto facendo i compiti. Lasciate un messaggio.
Ciao!”
Lisa Rasmussen inspirò a fondo e disse: «Nanna, chiamami
per favore».
Che stupida, pensò. Era la terza volta che lasciava lo stesso messaggio, quella mattina. Adesso era seduta in classe ad ascoltare
Rama, l’insegnante, che parlava di cittadinanza e delle elezioni
ormai prossime. Nessuno sapeva dove fosse Nanna. Nessuno
l’aveva più vista dalla festa di Halloween, giù nel salone della
scuola, il venerdì precedente.
«Oggi» disse Rama «potrete decidere per chi votare.»
C’era una foto sulla lavagna. I seggi a semicerchio del Rådhus.
Tre politici, uno attraente, un vecchio, una donna con la faccia
grassa e compunta. Non gliene poteva fregare di meno.
Tirò fuori il cellulare e scrisse un altro messaggio.
Nanna, dove cavolo sei?
«Siamo fortunati a vivere in un paese in cui esiste il diritto di
voto» proseguì l’insegnante.
Era sulla trentina, veniva dal Medio Oriente, ma dal suo
modo di parlare non si sarebbe detto. Ad alcune delle ragazze
piaceva. Alto, bello, un bel fisico, sempre ben vestito. Sempre
disponibile. Per loro aveva sempre tempo.
A Lisa non piacevano gli stranieri. Neanche quelli belli e
sorridenti.
«Sentiamo le domande che avete preparato per il dibattito»
disse Rama.
L’aula era piena, gli altri sembravano interessati.
«Lisa.» Proprio lei doveva scegliere. «Le tue tre domande.
Sono sul cellulare?»
«No.»
Sembrava una ragazzina petulante e ne era consapevole.
Rama piegò la testa di lato e attese.
«Le ho dimenticate. Io non...»
La porta si aprì ed entrò la preside Koch. Terrore Koch, una
donna di mezza età che, prima di diventare preside, insegnava
tedesco.
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«Scusate» disse. «Nanna Birk Larsen è presente?»
Nessuna risposta.
Koch andò a mettersi davanti ai banchi.
«Qualcuno ha visto Nanna oggi?»
Niente. Andò a parlottare con l’insegnante. Lisa Rasmussen
sapeva cosa sarebbe successo.
Un minuto dopo Lisa era fuori dall’aula con quei due, e Koch
la fissava minacciosa con i suoi implacabili occhi scuri domandando: «Dov’è Nanna? La polizia la sta cercando».
«Non la vedo da venerdì. Perché lo chiede a me?»
La preside le rivolse quell’occhiata che significa “so che stai
mentendo”.
«Sua madre ha detto alla polizia che Nanna ha passato il fine
settimana a casa tua.»
Lisa Rasmussen scoppiò a ridere. A volte la gente le prendeva per sorelle. Stessa altezza, stesso modo di vestire, capelli
biondi, anche se Nanna era più bella, e lei era sempre stata un
po’ più grassa.
«Cosa? Non è venuta da me.»
«Tu non sai dove sia?» chiese Rama con un po’ più di gentilezza.
«No! E come potrei?»
«Se ti chiama, dille di telefonare a casa» disse Koch. «È importante.» Lanciò un’occhiata a Rama. «Hanno bisogno della
sua aula per il dibattito. Deve lasciarla libera entro le undici.»
Quando si fu allontanata, Rama prese Lisa per un braccio e
disse: «Se hai un’idea di dove sia, devi dirlo».
«Lei non dovrebbe toccarmi.»
«Scusa.» Ritrasse la mano. «Se sai...»
«Io non so niente» disse Lisa. «Mi lasci in pace.»
Lund e Meyer erano di sopra, nell’appartamento dei Birk Larsen.
Era disordinato come l’ufficio, ma era un disordine gradevole.
Foto, disegni, piante, fiori. Vasi e ricordi di vacanze. Era vivace,
pensò Lund. Lei non c’era mai riuscita. La donna che adesso
sapeva essere Pernille Birk Larsen ce la metteva tutta per fare
la madre, e sembrava le riuscisse bene, almeno da quanto Lund
poteva giudicare.
«Non è a scuola» disse Lund.
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Pernille indossava ancora l’impermeabile, come se non fosse
successo niente.
«Deve essere a casa di Lisa. Sono amiche. Lisa ha un appartamento in affitto con un paio di ragazzi. Nanna è sempre da loro.»
«Lisa è a scuola. Dice che Nanna non è mai andata da lei.»
Pernille rimase a bocca aperta, gli occhi spalancati e privi di
espressione. Sulla parete della cucina Lund vide le stesse due
foto dell’ufficio: Nanna con i fratelli, Nanna da sola, bella e
troppo adulta per i suoi diciannove anni. Erano appiccicate su
un pannello di sughero insieme all’orario delle attività sportive
della scuola. Il posto aveva un che di sereno, rilassato, domestico.
Come l’odore di un cane, che il padrone non nota più ma che
un estraneo percepisce subito.
«Cosa le è successo? Dov’è?» chiese Pernille.
«Probabilmente niente. Faremo del nostro meglio per trovarla.»
Lund uscì nel corridoio angusto e chiamò la centrale.
Meyer prese Pernille in disparte e cominciò a farle domande
sulle foto.
Quando le passarono Buchard, Lund disse: «Ho bisogno di
tutti gli uomini disponibili». Il vecchio non fece domande, si
limitò ad ascoltare. «Di’ loro che stiamo cercando una ragazza
di diciannove anni di nome Nanna Birk Larsen. Scomparsa da
venerdì. Manda qui qualcuno a prendere le foto.»
«E voi?»
«Andiamo alla sua scuola.»
Hartmann e Rie Skovgaard avevano a disposizione un’aula vuota
per prepararsi. Lei riesaminava i numeri sui finanziamenti alla
scuola. Lui camminava su e giù nervosamente. Alla fine lei chiuse
il portatile e si avvicinò per controllargli i vestiti. Niente cravatta,
camicia azzurra. Stava bene. Ma Rie gli mise comunque a posto
il colletto, andandogli così vicino che lui dovette abbracciarla.
La attirò a sé e la baciò. Una passione improvvisa. Inaspettata.
A lei venne da ridere. Lui avrebbe voluto baciarla ancora.
«Vieni a vivere con me» disse Troels e la spinse contro la cattedra. Lei vi si lasciò cadere sopra, ridendo, e lo avvolse con le
sue lunghe gambe.
«Non sei troppo impegnato?»
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«Non per te.»
«Dopo le elezioni.»
Il volto di lui cambiò. Era tornato quello di un politico.
«Perché tutta questa segretezza?»
«Perché ho un lavoro da fare, Troels. E anche tu. Non vogliamo complicazioni.» La sua voce si abbassò di un tono, gli
occhi scintillarono. «E poi non intendiamo certo far ingelosire
Morten.»
«Morten è il maggior esperto di politica che abbiamo. Sa
quello che fa.»
«E io no?»
«Non ho detto questo. Non voglio parlare di Morten...»
Le mani di lei erano di nuovo sulla sua giacca.
«Riprendiamo il discorso dopo che avremo vinto, d’accordo?»
Hartmann la stava di nuovo abbracciando.
La porta si aprì. Era la preside Koch. Pareva imbarazzata.
«Il sindaco è arrivato» disse. Poi fece un sorriso complice.
«Se siete pronti.»
Hartmann si abbottonò la giacca e uscì in corridoio.
Poul Bremer sorrideva raggiante sotto il poster di una popstar
seminuda. Skovgaard li lasciò soli e andò a controllare l’aula.
«Spero che al segretario del Partito di centro piacciano le tue
idee, Troels. Molte sono buone. Somigliano a quelle di tuo padre.»
«Davvero?»
«Possiedono il suo vigore, il suo ottimismo.»
«Principi» disse Hartmann. «Nascono da quello in cui lui
credeva, non da ciò che poteva procurargli consensi.»
Bremer annuì.
«Peccato non sia stato abbastanza abile da metterle in pratica.»
«Penserò a lui quando avrò il tuo posto.»
«Sono convinto che lo avrai. Un giorno.» Bremer tirò fuori
un fazzoletto e si pulì gli occhiali. «Tu sei più coriaceo di lui.
Tuo padre, invece, è sempre stato... Come dire?» Si rimise gli
occhiali e i suoi occhi gelidi lo scrutarono da capo a piedi. «Fragile. Come la porcellana.»
Bremer alzò la mano destra. Un pugno notevole. Da boxeur,
a dispetto delle apparenze.
«Sembrava sempre sul punto di spezzarsi.»
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Lo schiocco delle sue dita risuonò così forte che riecheggiò
sulle pareti scrostate.
«Se non lo avessi spezzato io, si sarebbe spezzato da solo.
Credimi. In un certo senso gli ho fatto un favore. È meglio non
lasciare che le persone s’illudano troppo a lungo.»
«Su, facciamo questo dibattito» disse Hartmann. «È ora...»
Quando si voltarono per andare, la preside stava venendo
verso di loro. Sembrava preoccupata. Insieme a lei c’era una
donna con una giacca impermeabile blu e uno strano maglione
con disegni bianchi e neri, i capelli pettinati all’indietro come
un’adolescente troppo impegnata per pensare ai ragazzi.
Una donna che non si curava del proprio aspetto. Il che era
strano, visto che era bella e attraente.
Adesso guardava dritto davanti a sé, verso di loro. Aveva
occhi grandi e intensi.
Per qualche motivo Hartmann non si sorprese quando la
donna tirò fuori un distintivo della polizia. Lesse: “Vicecommissario Sarah Lund”.
Bremer si era ritirato verso il fondo del corridoio quando
aveva visto la poliziotta avvicinarsi.
«Dovete annullare il dibattito» disse Lund.
«Perché?»
«È scomparsa una ragazza. Devo interrogare delle persone.
Compagni. Insegnanti. Devo...»
La preside Koch li stava accompagnando in una sala laterale,
via dal corridoio. Bremer rimase dove si trovava.
Hartmann ascoltava la poliziotta.
«Volete che annulli un dibattito perché un’alunna ha marinato
la scuola?»
«È importante che io parli con tutti» insistette Lund.
«Tutti?»
«Tutti quelli con cui voglio parlare.»
La donna non si mosse. Non smise di guardarlo.
«Potremmo posticipare il dibattito di un’ora» suggerì Hartmann.
«Io non posso» si intromise Bremer. «Ho degli altri impegni.
Sei stato tu a invitarmi, Troels. Se non puoi rispettare...»
Hartmann mosse un passo verso Sarah Lund. «È una faccenda seria?»
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«Spero che non le sia successo niente.»
«Le ho chiesto se è una faccenda seria.»
«È quello che sto cercando di scoprire» rispose Lund, poi si
mise le mani sui fianchi in attesa di una risposta. «Allora...»
Si guardò attorno, osservando le aule.
«Allora siamo d’accordo» concluse.
Poul Bremer tirò fuori il cellulare per vedere se c’erano messaggi.
«Chiama la mia segretaria. Cercherò di trovare un momento
per te. A proposito!» Un lampo di improvvisa cordialità. «Ho
buone notizie per le scuole del centro storico. Pare che l’assenteismo sia aumentato del venti per cento.» Bremer rise. «E questo
non possiamo permetterlo, giusto? Così ho stanziato dei fondi
per nuove attrezzature. Più computer. I ragazzi adorano queste
cose. In questo modo si risolverà tutto.»
Hartmann rimase a fissarlo, senza parole.
Bremer si strinse nelle spalle.
«Te l’avrei detto là dentro, ma a questo punto... Faremo subito
un comunicato. Sono buone notizie. Spero che tu sia contento.»
Vi fu un lungo momento di silenzio.
«Sì, sei contento, lo vedo» concluse Bremer, poi, con un cenno
della mano, se ne andò.
Tre e mezza del pomeriggio. Erano ancora nell’aula in cui
avrebbe dovuto tenersi il dibattito e non avevano fatto alcun
passo avanti. Nanna era andata alla festa di Halloween della
scuola il venerdì precedente, mascherata con un cappello nero
da strega e una vistosa parrucca blu. Da allora nessuno l’aveva
più vista.
Adesso era il turno dell’insegnante.
«Che tipo è Nanna?»
Lo chiamavano tutti Rama. Non passava inosservato, e non
solo per i suoi bei tratti mediorientali. Incarnava alla perfezione
gli esempi di integrazione scelti da Troels Hartmann come testimonial all’interno di un’iniziativa volta a favorire l’inserimento
degli immigrati nel tessuto della comunità. Un uomo intelligente,
che sapeva esprimersi e risultare convincente.
«Nanna è una studentessa brillante» disse. «Piena di energia.
Sempre in movimento.»
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«Ho visto una sua foto. Sembra più grande dei suoi diciannove anni.»
Lui annuì.
«È il desiderio di tutte, no? Hanno una voglia matta di crescere. O, almeno, credono. Nanna è la migliore della classe in
quasi tutte le materie. Una ragazza sveglia. Ma questo non le
impedisce di volere quello che vogliono tutte.»
«E sarebbe?»
Il professore la guardò.
«Sta scherzando? Sono teenager.»
«Cos’è successo alla festa?»
«Costumi. Un complesso. Fantasmi e zucche.»
«Ha un ragazzo?»
«Lo chieda a Lisa.»
«Lo sto chiedendo a lei.»
Lui parve a disagio.
«È meglio che gli insegnanti restino fuori da queste cose.»
Lund uscì, bloccò la prima ragazza che trovò, la fece sedere
e parlò con lei finché non ottenne una risposta.
Poi tornò dall’insegnante.
«Oliver Schandorff. È qui?»
«No.»
«Sapeva che Oliver era il suo ragazzo?»
«Gliel’ho detto. È meglio mantenere una certa distanza.»
Lund attese.
«Io sono il loro insegnante, non il loro guardiano. E neppure
un genitore.»
Lund guardò l’orologio. Gli interrogatori andavano avanti da
più di tre ore e questo era tutto ciò che avevano ottenuto. Meyer,
nei boschi e nei campi vicino all’aeroporto con una squadra di
ricerca, non aveva trovato nulla.
«Merda.»
«Mi dispiace» disse l’insegnante.
«Non è colpa sua.»
È colpa mia, pensò. Avrebbe potuto scoprirlo da Pernille in
pochi minuti, se solo ci avesse provato. Perché le domande
migliori le venivano in mente solo quando aveva qualcosa
davanti... persone, prove, crimini?
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Duecentotrentacinque case a schiera a tre piani componevano
il quartiere chiamato Humleby, un piccolo complesso abitativo
a quattro isolati dalla casa dei Birk Larsen. Tutte color ardesia e
grigio piombo, erano state costruite nel Diciannovesimo secolo
per gli operai dei vicini cantieri. Poi la fabbrica di birra Carlsberg
si era espansa e le case erano passate ai birrai. Adesso venivano
immesse a poco a poco sul mercato ed erano ambite anche se
necessitavano di parecchie, costose ristrutturazioni. Theis Birk
Larsen aveva acquistato la meno cara che era riuscito a trovare.
Era stata in mano agli squatter, che si erano lasciati dietro materassi, mobili sfasciati e altro ciarpame. Bisognava sgomberarla e
rimetterla a posto. Lo avrebbe fatto lui, un po’ per volta, senza
dire niente a Pernille finché non fosse venuto il momento di
traslocare dal piccolo appartamento sopra il magazzino.
Vagn Skærbæk gli dava una mano. Loro due si conoscevano
fin da quando erano ragazzi, ne avevano passate tante insieme,
compresa qualche comparizione in tribunale. Per Birk Larsen
era diventato quasi un fratello minore, lo zio dei suoi figli, un
collaboratore stabile nella ditta di trasporti. Fidato, fedele, gentile con Anton ed Emil. Un uomo solitario che pareva non avere
una vita sua quando si toglieva la divisa rossa.
«Pernille ti sta cercando» disse Skærbæk, chiudendo la comunicazione.
«Pernille non deve sapere quello che stiamo facendo qui. Te
l’ho detto. Neppure una parola finché non lo dico io.»
«Sta telefonando in giro per chiedere dove sei.»
Fuori c’erano i ponteggi, e le finestre marce erano coperte da
teli di plastica. Birk Larsen pagava i suoi uomini perché trasportassero lì materiali per i pavimenti, gronde e scarichi dopo aver
fatto loro promettere di non farne parola in presenza di Pernille.
«I ragazzi potranno avere ognuno la sua camera» disse, guardando la casa di pietra grigia. «Vedi quella finestra lassù?»
Skærbæk annuì.
«A Nanna va tutto quel piano, con una scala separata e un
po’ di privacy. Pernille avrà una nuova cucina. E io...» Fece una
risata. «Io finalmente avrò un po’ di pace.»
«Ti costerà una fortuna, Theis.»
Birk Larsen affondò le mani nelle tasche della salopette rossa.
«Ce la farò.»
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«Forse posso darti una mano.»
«In che senso?»
Skærbæk era un uomo smilzo e nervoso. Se ne stava lì, a
strascicare i piedi persino più del solito.
«Io so dove rimediare trenta televisori Bang & Olufsen per
poco. Dobbiamo solo...»
«Sei indebitato? È così?»
«Ascolta. Ho degli acquirenti per una quindicina... Possiamo
fare a metà...»
Birk Larsen prese un malloppo di banconote dalla tasca e ne
tolse alcune.
«Ho solo bisogno di un carrello elevatore...»
«Tieni qui.» Mise il denaro nella mano di Skærbæk. «Lascia
perdere i televisori. Non siamo più ragazzi, Vagn. Io ho una
famiglia, un’azienda.» Skærbæk stringeva le banconote. «E tu
sei parte di entrambe. Lo sarai sempre.»
Skærbæk fissò il denaro. Birk Larsen avrebbe tanto voluto che
perdesse quella stupida catena d’argento che portava al collo.
«Come si sentirebbero i ragazzi se dovessero andare a far
visita allo zio Vagn in carcere?»
«Non è necessario...» disse Skærbæk.
Theis Birk Larsen non lo ascoltava più. Pernille stava venendo
verso di lui sul triciclo, così veloce che il cassone rosso squillante
davanti saltava su e giù sull’acciottolato.
Dimenticò la casa, i lavori, le preoccupazioni per dove avrebbe
preso i soldi.
Pernille aveva un aspetto orribile.
Scese, andò dritta verso di lui e lo afferrò per il bavero del
giaccone di pelle nera.
«Nanna è scomparsa.» Era senza fiato, pallida, spaventata.
«La polizia ha trovato la tua tessera del videonoleggio vicino
all’aeroporto. Hanno trovato...»
Si portò una mano alla bocca. Le si riempirono gli occhi di
lacrime.
«Trovato cosa?»
«Il suo top. Quello rosa con i fiori.»
«Chissà quanti ce ne sono in giro di top come quello.»
Lei gli lanciò un’occhiata severa.
«E la tessera del videonoleggio?»
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«Hanno parlato con Lisa?»
Vagn Skærbæk li stava ascoltando. Lei lo guardò e disse:
«Scusaci, Vagn».
«Avete bisogno di aiuto?»
Birk Larsen lo fissò. Vagn si allontanò.
«E quel bastardo del suo compagno?»
«Non esce più con Oliver.»
Lui aveva le guance rosse per la rabbia.
«Hanno parlato con lui?»
Lei fece un sospiro profondo, poi disse: «Non lo so».
Theis aveva tirato fuori le chiavi. Chiamò Skærbæk. «Riporta
a casa Pernille. E il triciclo.»
Un pensiero.
«Perché non sei venuta con la macchina?»
«Non mi hanno permesso di usarla. Mi hanno detto di non
toccarla.»
Theis Birk Larsen prese la moglie tra le sue braccia possenti,
la strinse, le diede un bacio, poi una carezza sulla guancia, la
guardò negli occhi e disse: «Nanna sta bene. La troverò. Tu va’
a casa e aspettaci lì».
Poi salì sul furgone e si allontanò.
«Ti lascio a casa della nonna. Hai la chiave?»
Il tempo stava peggiorando, la giornata si sarebbe conclusa
con la nebbia e una pioggia sottile. Lund stava guidando verso
Østerbro, col figlio Mark accanto.
«Vuol dire che non partiamo per la Svezia?»
«Prima devo fare una cosa.»
«Anch’io.»
Lund guardò il figlio, ma nella sua mente vedeva solo l’erba
gialla e un top macchiato di sangue. E le fotografie di Nanna Birk
Larsen, prima sorridente come una sorella maggiore orgogliosa
dei fratellini, poi troppo adulta con tutto quel trucco.
Non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo Mark.
«Te l’ho detto, mamma. La festa di compleanno di Magnus.»
«Mark. Il nostro volo è stasera, lo sai. Lo abbiamo deciso un
secolo fa.»
Lui grugnì e si voltò a guardare fuori dal finestrino rigato
di pioggia.
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«Sembri un alce con la luna di traverso» disse lei, e rise.
Mark rimase serio.
«Ti piacerà stare in Svezia. La scuola è fantastica. E io avrò
più tempo per te. Potremo...»
«Lui non è mio padre.»
Il cellulare di Lund squillò. Lei guardò il numero e cominciò
ad armeggiare con l’auricolare.
«Certo che no. Ti ha trovato una squadra di hockey.»
«Ce l’ho già.»
«Non sei stufo di essere il più piccolo della fck?»
Silenzio.
«Allora, sì o no?»
«Si chiama ksf.»
«Sì» disse lei al telefono.
«ksf» ripeté Mark.
«Sto arrivando.»
« k... s... f...» ripeté Mark lentamente.
«Sì.»
«Sbagli tutte le volte.»
«Sì.»
Non era lontano, ed era un bene per due motivi. Voleva vedere
Meyer. E Mark era... d’intralcio.
«Tra non molto andremo all’aeroporto» disse Lund. «Hai la
chiave, vero?»
Sotto un cielo imbronciato e monocromo venti agenti vestiti di
blu avanzavano in fila, lentamente, saggiando il terreno fangoso
e la vegetazione con bastoni rossi e bianchi, accompagnati dai
cani da ricerca che annusavano l’erba gialla e umida.
Lund rimase a osservarli per un attimo, poi entrò nel bosco.
Lì, tra gli alberi coperti di licheni, era al lavoro una seconda
squadra intenta a esaminare il terreno e a posare dei contrassegni, seguendo un altro gruppo di cani.
Meyer indossava un giaccone della polizia. Era bagnato fradicio.
«La traccia è buona?» chiese.
«Abbastanza. I cani l’hanno seguita dal punto in cui abbiamo
trovato il top.» Consultò i suoi appunti e indicò un boschetto
una decina di metri più in là. «Abbiamo anche dei capelli biondi
impigliati in un cespuglio.»
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«Dove porta?»
«Qui» rispose Meyer, gesticolando con la mappa stretta in
mano. «Nel punto in cui ci troviamo.» Un’altra occhiata agli appunti. «Correva. A zigzag tra gli alberi. Qui è dove si è fermata.»
Lund si avvicinò per sbirciare oltre la spalla di lui.
«Cosa c’è qui vicino?»
«Una strada usata per il trasporto dei tronchi. Forse è lì che
l’hanno caricata a bordo.»
«Il cellulare?»
«Spento da venerdì sera.» Non gli piacevano quelle domande
ovvie. «Senti, Lund. Abbiamo passato al setaccio il percorso per
ben due volte. Qui non c’è. Stiamo perdendo il nostro tempo.»
Lei si voltò e si allontanò, tornando a guardare il terreno
paludoso e l’erba gialla.
«Pronto?» fece Meyer con quel sarcasmo pungente che Lund
cominciava a riconoscere. «Sono per caso invisibile?»
Lund tornò da lui. «Allargatevi. Ricominciate da capo» disse.
«Hai sentito una sola parola di quello che ho detto?»
La radiotrasmittente di uno degli agenti della squadra gracchiò il suo nome.
«Abbiamo trovato qualcosa» disse una voce.
«Dove?»
«Tra gli alberi.»
«Cos’è?»
Una pausa. Si stava facendo buio. «Si direbbe una sepoltura.»
Lo stesso crepuscolo indolente si adagiò sulla città, umido e
grigio, pallido e freddo. Nel suo ufficio, sotto i petali color corallo delle lampade Artichoke, Hartmann ascoltava le risposte
di Morten Weber. Poul Bremer non aveva intenzione di tornare
alla scuola per un altro dibattito. Governare la città era più
importante che andare a caccia di voti.
«Non gli va?» disse Hartmann.
Rie Skovgaard gli posò una tazza di caffè sulla scrivania.
«L’ufficio di Bremer ha annunciato il nuovo stanziamento
di fondi mentre noi eravamo alla scuola. Era pronto a renderlo
pubblico, qualunque cosa fosse successa.»
«Sapeva del venti per cento. Com’è possibile, Morten?» chiese
Hartmann.
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Weber parve colto alla sprovvista dalla domanda.
«Perché lo chiedi a me? Forse ha fatto una ricerca per conto
suo. Ha senso. Promettere soldi per l’istruzione fa sempre gua­
dagnare punti.»
«E ha ottenuto gli stessi risultati? Lui sapeva.»
Weber si strinse nelle spalle.
«Non avresti dovuto annullare l’incontro» disse Skovgaard.
Squillò il cellulare di Hartmann.
«È scomparsa una ragazza. Non avevo altra scelta.»
«Sono Therese» disse la voce all’altro capo della linea.
Hartmann lanciò un’occhiata a Rie Skovgaard.
«Non è un buon momento. Ti richiamo.»
«Non riattaccare, Troels. È importante. Dobbiamo vederci.»
«Non è una buona idea.»
«Qualcuno sta cercando di screditarti.»
Hartmann inspirò a fondo.
«Chi?»
«Mi ha chiamata un giornalista. Non voglio parlarne al telefono.»
«C’è una raccolta fondi alle cinque. Vieni qui. Posso uscire
per qualche minuto.»
«Allora alle cinque.»
«Therese...»
«Stammi bene, Troels.»
Weber e Skovgaard lo stavano osservando.
«C’è qualcosa che dobbiamo sapere?» chiese Skovgaard.
Theis Birk Larsen andò alla casa degli studenti a Nørrebro, dove
Lisa Rasmussen viveva con Oliver Schandorff e altri ragazzi della
scuola. Fingevano di essere grandi, andavano a letto con questo
e con quello, bevevano, fumavano erba, facevano gli stupidi.
Lei era in strada e stava spingendo a mano la bicicletta. Lui
la bloccò afferrando il manubrio.
«Dov’è Nanna?»
Lisa era vestita come una puttanella, come facevano tutte,
pure Nanna se lui gliel’avesse permesso. La ragazza non riuscì
a sostenere il suo sguardo.
«L’ho già detto a loro. Non lo so.»
La mano di lui non si mosse.
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«Dov’è quel bastardo di Schandorff?»
Lei continuava a fissare il muro.
«Non è qui. Da venerdì.»
Lui si chinò e avvicinò la faccia alla sua.
«Dov’è?»
Finalmente lei lo guardò negli occhi. Sembrava avesse pianto.
«Ha detto che i suoi genitori erano via per il weekend. È
andato là, credo. Dopo la festa di Halloween...»
Birk Larsen non aspettò di sentire altro.
Lungo la strada chiamò Pernille.
«Ho appena parlato con Lisa» disse. «Vado a prenderla.»
Poté sentire il sollievo di lei dal suo unico, breve sospiro.
«È di nuovo quel bulletto pieno di soldi. I suoi erano via. È
probabile che...»
Non voleva dirlo, neppure pensarlo.
«Sei sicuro che lei sia lì? Te l’ha detto Lisa?»
Il traffico era sostenuto. La casa era fuori città, in uno dei
nuovi quartieri a sud, vicino all’aeroporto.
«Sono sicuro. Non ti preoccupare.»
Lei stava piangendo. A Theis pareva di vedere le sue lacrime. Avrebbe voluto toccarle, asciugarle con le sue dita ruvide
e tozze. Pernille era bella e preziosa, come Nanna, Emil e Anton. Meritavano più di quanto lui aveva dato loro, e presto lo
avrebbero avuto.
«Non ci metterò molto, tesoro. Te lo prometto.»
Lund era tornata tra gli alberi spogli quando Buchard chiamò.
«Un elicottero. Tre squadre della Scientifica. Spero abbiate
trovato qualcosa.»
«Una fossa.»
«Non mi hai avvisato.»
«Ci ho provato. Eri in riunione.»
«Ero alla tua festa d’addio. Le persone non si congedano a
colazione...»
«Aspetta un minuto.»
Meyer stava venendo verso di lei tra gli alberi. Teneva qualcosa tra le braccia, avvolto in un telo di plastica di quelli usati
dalla Scientifica. Un corpo.
«Avete trovato qualcosa?» insistette Buchard.
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Meyer posò il telo per terra e lo aprì. Dentro c’era una volpe
morta, rigida e rinsecchita, sporca di terra. Aveva un fazzoletto
dei boy scout legato intorno al collo, insieme al cappio di fil di
ferro che l’aveva strangolata.
«Possiamo diramare un mandato d’arresto per qualunque
ragazzino dei dintorni» disse Meyer, sollevando la volpe per
le zampe posteriori. «La crudeltà verso gli animali è una cosa
scioccante.»
«No» disse Lund al telefono, rispondendo alla domanda di
Buchard. «Non ancora.»
«Sbaracca, torna qui e fammi un rapporto completo. Forse
c’è ancora tempo per una birra prima che tu salga sull’aereo.»
Meyer la guardava con la carcassa dell’animale tra le braccia.
La volpe aveva gli occhi neri e velati, la pelliccia sporca di fango.
«Ti presento il mio nuovo amico Foxy» disse con un sorriso
sarcastico. «Ti piacerà.»
L’ennesimo ricevimento. Parte del calendario politico. Un’occasione per incontrare gente, trattare, formare alleanze, rafforzare
inimicizie.
Il cibo era offerto da una società petrolifera, le bevande da un
magnate dei trasporti. Un quartetto d’archi suonava Vivaldi.
Morten Weber parlava di politica, Rie Skovgaard vendeva
fumo.
Hartmann sorrideva e chiacchierava, stringeva mani, scambiava convenevoli. Quando gli squillò il cellulare, si scusò e
tornò nel suo ufficio.
Therese Kruse lo stava aspettando. Più giovane di lui di
un paio d’anni. Sposata con un banchiere noioso. Una donna
attraente, seria, con le giuste conoscenze, più tosta di quanto
sembrasse.
«Te la stai cavando bene nei sondaggi. Alle persone al governo
non è sfuggito.»
«Lo spero bene. Ce l’abbiamo messa tutta.»
«Vero.»
«Hai il nome del reporter?»
Lei gli porse un pezzo di carta. Erik Salin.
«Mai sentito nominare» disse Hartmann.
«Ho fatto qualche ricerca. Lavorava come investigatore priva49
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to. Adesso è un freelance che vende scandali al miglior offerente.
Giornali. Riviste. Siti web. Chiunque sia disposto a pagare.»
Hartmann si mise in tasca il biglietto.
«E?»
«Salin voleva sapere se pagavi i conti dell’albergo con la tua
carta di credito o con quella dell’ufficio. Se compravi molti
regali. Cose del genere. Io non ho detto nulla, naturalmente...»
Hartmann bevve un sorso di vino.
«Voleva sapere di noi» aggiunse lei.
«E tu cosa gli hai detto?»
«Ho liquidato tutto con una risata, ovviamente. In fondo...»
Fece un sorriso fugace e amaro. «Non è che fosse una cosa
importante, no?»
«Abbiamo convenuto entrambi che fosse meglio così, Therese.
Mi dispiace. Io non potevo...»
Si interruppe.
«Non potevi cosa, Troels? Correre rischi?»
«Cosa sapeva?»
«Di noi? Nulla. Stava solo tirando a indovinare.» Di nuovo
quel sorriso caustico. «Avrà pensato che se chiede ad abbastanza donne, prima o poi farà centro. Io, però, credo che sappia
qualcos’altro. Non so come.»
Hartmann lanciò un’occhiata alla porta e si accertò che fossero soli.
«Tipo?»
«Deve aver visto la tua agenda. Stava verificando delle date.
Sapeva dov’eri stato e quando.»
Hartmann guardò di nuovo il nome, chiedendosi se lo avesse
mai sentito prima.
«Nessuno al di fuori di questo ufficio ha accesso alla mia
agenda.»
Lei fece spallucce. La porta si aprì. Rie Skovgaard li guardò.
«Troels, non sapevo che avessi compagnia» disse con quel
suo sorriso sospettoso e compassato. «Ci sono delle persone al
ricevimento che devi vedere.»
Le due donne si fissarono. Si soppesarono. Non c’era bisogno
di parole.
«Arrivo subito» disse Troels Hartmann.
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Oliver Schandorff era un diciannovenne pelle e ossa, con una
gran massa di capelli rossi e ricci e una faccia sempre imbronciata. Si stava facendo la terza canna del giorno quando Theis
Birk Larsen irruppe in casa attraverso la porta d’ingresso.
Schandorff schizzò su dalla poltrona e arretrò mentre l’uomo
grande, grosso e incavolato avanzava verso di lui.
«Valla a chiamare!» urlò Birk Larsen. «Lei viene via con me.»
«Ehi!» esclamò Schandorff, scappando in corridoio. «C’è un
campanello, fuori. Questa è un’abitazione privata.»
«Non fare il furbo con me, ragazzino. Voglio Nanna.»
«Non è qui.»
Birk Larsen cominciò a girare per il piano terra, spalancando
porte, urlando il suo nome.
Schandorff lo seguiva a distanza di sicurezza.
«Signor Birk Larsen, gliel’ho detto. Non è qui.»
Birk Larsen tornò nell’ingresso. C’erano dei vestiti gettati su
una sedia vicino al divano. Una maglietta rosa. Un reggiseno.
Un paio di jeans.
Imprecò contro Schandorff e si lanciò su per le scale.
Il ragazzo perse le staffe, gli si parò davanti, gli mollò un
colpo al petto e urlò: «Le dispiace? Le di...».
L’uomo corpulento lo afferrò per la maglietta, lo portò di peso
giù nell’ingresso, lo sbatté contro la porta e gli agitò un grosso
pugno serrato davanti alla faccia.
Oliver Schandorff si zittì.
Birk Larsen ci ripensò. Salì i gradini due alla volta. La casa
era grande, il genere di abitazione che lui non avrebbe mai potuto permettersi per quanto lavorasse, per quanti furgoni rossi
potesse gestire.
Da una camera da letto sulla sinistra usciva della musica rock
assordante. C’era puzza di fumo e di sesso.
Un letto matrimoniale sfatto, con lenzuola e piumino ammucchiati. Da sotto i cuscini spuntavano dei capelli biondi e ricci.
A faccia in giù, i piedi nudi che spuntavano dal fondo del letto.
Fumata. Ubriaca. Tutte e due le cose, se non peggio.
Birk Larsen lanciò un’occhiata torva a Schandorff che lo aveva
seguito. Il ragazzo lo guardava con le mani in tasca e un sorrisetto
che gli fece venire voglia di mollargli un pugno seduta stante.
Invece si avvicinò al letto, incerto sul da farsi, scostò il piumino
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e disse dolcemente: «Nanna. Devi venire a casa. Non importa
cosa è successo. Adesso dobbiamo andare...».
La donna nuda si voltò e lo guardò. La faccia ostile era un
misto di rabbia e paura. Stessi capelli biondi. Identici. Venticinque anni al massimo.
«Gliel’avevo detto» fece Schandorff. «Nanna non è mai stata
qui. Se posso esserle utile...»
Theis Birk Larsen uscì chiedendosi cosa fare. Cosa dire a
Pernille. Dove andare. A lui non piaceva la polizia, ma forse
era venuto il momento di chiamarli. Doveva sapere, scoprire,
o fare in modo che qualcuno scoprisse qualcosa.
Ci fu un rumore sopra di lui. Un elicottero, con la parola
politi scritta sopra.
Quando era andato lì non aveva riflettuto su dove si trovasse
quel posto. Nanna era a casa di Oliver Schandorff. Non c’era
nient’altro da sapere. Adesso si rese conto che non era distante
dalla zona paludosa a est dell’aeroporto.
Pernille aveva detto che tutto era partito da lì.
Lund era tornata nella parte pianeggiante del Kalvebod Fælled,
dove avevano trovato il top macchiato di sangue, e osservava
la cartina.
«Andiamocene a casa» disse Meyer, accendendosi l’ennesima
sigaretta.
Il cellulare di lei squillò.
«Hai intenzione di venire in Svezia o cosa?» chiese Bengt
Rosling.
Dovette pensarci su un momento prima di rispondere: «Tra
poco».
«Cosa ne dici di una festa per l’inaugurazione della nuova
casa, sabato? Potremmo invitare Lasse, Missan, Bosse e Janne.»
Lund scrutava l’orizzonte che si stava scolorando. Avrebbe
voluto poter rallentare il tempo e tenere a bada il crepuscolo.
«E i miei» aggiunse Bengt. «E tua madre.»
Lund lanciò un’altra occhiata alla cartina, poi guardò la palude e i boschi.
«Tua madre dormirà nella camera degli ospiti» disse Bengt.
Passarono tre ragazzini che spingevano le biciclette. Avevano
delle canne da pesca.
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Mark non andava mai a pescare. Non aveva nessuno che ce
lo portasse.
«Sarebbe bello» disse lei, gesticolando per attirare l’attenzione
di Meyer.
«Non voglio che dorma sul divano» proseguì Bengt.
A quel punto Lund non lo ascoltava più. Teneva il telefono
stretto tra le dita della mano abbassata lungo il fianco.
«Cosa c’è laggiù?» chiese a Meyer.
«Altri boschi. E un canale.»
«Avete guardato nel canale?»
Lui storse la bocca. Meyer era il tipo d’uomo che riusciva a
sembrare incazzato anche quando dormiva.
«Ma la ragazza è scappata dall’altra parte!»
Lund tornò al telefono.
«Perderemo il volo.»
«Cosa?»
«Tu va’. Io ti raggiungo domani con Mark.»
Meyer se ne stava lì, a braccia conserte, a rimpinzarsi di patatine tra un tiro di sigaretta e l’altro.
«Abbiamo dei sommozzatori nella squadra della Scientifica?
Attrezzatura adatta?» chiese Lund.
«Ci sono abbastanza uomini qui da iniziare una piccola
guerra. E la Svezia?»
Presero la macchina e andarono fino al canale. Camminarono
avanti e indietro. Vicino a un ponticello di metallo c’erano delle
impronte di pneumatici. Proseguivano oltre il ciglio dell’argine
fangoso, verso l’acqua scura.
Il luogo desolato rispecchiava lo stato d’animo di Theis Birk
Larsen: un dedalo inestricabile di strade senza sbocco e svolte
che non conducevano da nessuna parte. Un labirinto senza via
d’uscita.
Continuò a guidare verso il tramonto grigio e morente, e poi
nella direzione opposta, senza riuscire a trovare nulla. Anche
il ronzio dell’elicottero era scomparso. Pernille non lo lasciò
neppure un attimo, la voce stridula e spaventata che continuava
a ripetergli la stessa domanda al cellulare attaccato all’orecchio
sinistro.
«Dov’è?»
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Quante volte gliel’aveva domandato? Quante volte se l’era
chiesto, lui?
«La sto cercando.»
«Dove?»
Al Kalvebod Fælled, avrebbe voluto rispondere. Il posto in
cui una volta Anton era andato a fare una gita naturalistica con
la scuola, e aveva parlato per tutto il giorno di insetti e anguille
per poi dimenticarsene del tutto.
C’erano delle luci più avanti. Una era blu.
«Dappertutto.»
Il viottolo correva lungo il canale stretto, ed era stato realizzato
con il materiale di risulta dello scavo. Lund osservava le impronte, l’autogru, la catena, l’automobile che emergeva dalle
acque cupe.
Guarda, pensa, immagina.
Qualcuno aveva parcheggiato sul viottolo, con le ruote anteriori puntate verso l’acqua sul ciglio della scarpata. Poi era sceso
e aveva spinto. La forza di gravità aveva fatto il resto.
Meyer era accanto a lei e osservava l’auto salire contro il
cielo. L’acqua usciva a fiotti dalle portiere. La vernice era nera,
il colore del canale, ma scintillante come se fosse stata lavata il
giorno prima.
Una Ford cinque porte. Nuova di zecca.
«Controlla a nome di chi è immatricolata» disse Lund non
appena il numero di targa fu visibile.
Il mezzo di soccorso era parcheggiato sull’argine, il lungo
braccio elevatore teso sopra il canale. Ruotò, allontanando il
veicolo dall’acqua e facendolo dondolare sul viottolo erboso.
Poi tre uomini fecero scendere lentamente la Ford finché questa
non si posò a terra, un’auto come tante se non fosse stato per i
torrenti d’acqua putrida che uscivano a fiotti da ogni portiera.
Meyer aveva finito di telefonare. I due si avvicinarono e guardarono dentro attraverso i finestrini. Vuota.
La tendina copribaule era tirata e nascondeva qualunque cosa
si trovasse nel bagagliaio.
Meyer andò verso il portellone e provò ad aprirlo. Chiuso
a chiave.
«Vado a prendere un piede di porco.»
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C’erano delle luci dietro di loro. Lund si voltò a guardare.
Non parevano quelle di un’auto. Un furgone, pensò. Sembrava
rosso, alla luce dei fari dei veicoli della polizia.
Birk Larsen era ancora al telefono quando arrivò davanti al nastro
segnaletico dalla polizia, così vicino da non riuscire a contare le
luci blu dietro di esso. Avevano piazzato dei riflettori portatili,
come quelli che si usano per gli eventi sportivi.
Era frastornato. Il cuore gli batteva così forte da sbattere
contro le costole.
«Aspetta un momento» disse, senza udire la risposta.
Scese. Si avvicinò.
«Dove sei?» chiese Pernille.
«Alle paludi di Vestamager.»
Una pausa e poi lei domandò: «La polizia è ancora lì?».
Due poliziotti si avvicinarono e cercarono di bloccarlo. Lui li scostò di lato con un gesto del braccio robusto e continuò ad avanzare
verso un ponticello di metallo che attraversava lo stretto canale.
«Risolverò tutto. Te l’ho detto.»
«Theis.»
Altri poliziotti. Si gettarono su di lui come vespe infuriate
mentre continuava a camminare, allontanando le loro mani che
lo ghermivano, il telefono incollato all’orecchio.
Sentiva ancora la voce di Pernille in tutto quel trambusto.
«Cosa c’è lì, Theis? Cosa c’è?»
Un rumore, più avanti.
Acqua che cadeva.
Acqua che cadeva. Scendeva a cascata dal bagagliaio dopo che
Meyer aveva forzato la serratura. Litri e litri d’acqua che si
riversavano sul terreno fangoso.
L’odore era ancora peggiore.
Lund si infilò un altro Nicotinell in bocca e attese.
Dopo l’acqua, sul paraurti posteriore scivolò un paio di gambe nude. Le illuminò con la torcia. Caviglie nude strette con
fascette di plastica.
Poi un movimento. Un’ombra scura e serpeggiante scese
lungo le membra pallide, avvinghiata alla pelle, strisciando fino
ai piedi, e poi sopra il paraurti, fino a terra.
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Uno dei poliziotti cominciò a vomitare sull’erba gialla.
«Cos’è questo rumore?» chiese Lund, facendo un passo verso
la macchina.
Meyer accennò col capo al poliziotto che vomitava.
«Non è lui» disse Lund.
Era una voce rude, forte, furiosa.
Lund aspettò che tutta l’acqua fosse defluita dal bagagliaio,
insieme ad altre due anguille in fuga verso la libertà, poi si avvicinò e mise dentro la testa. I capelli biondi non erano come
nella foto.
Ma la faccia...
La voce rabbiosa stava urlando un nome.
«Oddio» fece Meyer. «Il padre è qui.»
Theis Birk Larsen era un uomo grande, grosso e forte. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva fatto a botte con
la polizia, ma certe cose non si dimenticano. Due pugni veloci,
un ruggito, e aveva ripreso ad avanzare verso il ponte nero.
Più avanti vide un’auto sulla strada accanto al mezzo di
soccorso. Un sacco di persone indaffarate.
Aveva di nuovo il telefono incollato all’orecchio.
«Theis!» gridò Pernille.
«Vado a parlare con loro.»
I poliziotti di cui si era liberato gli erano di nuovo addosso.
Più numerosi, questa volta. Troppi.
Una donna si era allontanata dall’auto sulla strada e veniva
decisa verso di lui. Sotto la luce violenta dei riflettori vide che
aveva una faccia seria, lunghi capelli scuri e occhi tristi, lucenti,
intensi.
«Per amor del cielo, Theis...» piagnucolò Pernille.
Lo avevano bloccato: sei poliziotti, forse sette. Lo tenevano
per ogni parte del corpo, tranne il braccio con cui stringeva il
telefono.
Birk Larsen si arrese. «Sono il padre di Nanna. Voglio sapere
cosa sta succedendo» ripeté, cercando di stare calmo.
La donna scavalcò un altro sbarramento fatto con il nastro
segnaletico rosso e bianco della polizia.
Non disse una parola. Continuò a camminare verso di lui,
guardandolo in faccia e masticando un chewing-gum.
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Una voce distante, che non era la sua, chiese sommessamente:
«È mia figlia?».
«Lei non può stare qui.»
Pernille ovunque, nell’orecchio, nella testa, in una singola
domanda. «Theis?»
La donna gli si parò davanti.
«Nanna è laggiù?» chiese ancora una volta Birk Larsen.
Lei non rispose.
«È lei?»
La donna si limitò ad annuire.
L’urlo gli scaturì dal profondo del ventre, salì ed esplose
nell’aria umida della notte, così forte e pieno di dolore e rabbia
che avrebbe potuto giungere fino a Copenaghen.
Ma non ce n’era bisogno. Il telefono era lì. Mentre lui lottava,
mentre urlava che voleva vederla, Pernille era con lui, urlava
e piangeva con lui.
Madre e padre. Una figlia morta.
Poi tutta la forza, tutta la rabbia si spensero. Theis Birk Larsen
era un uomo spezzato, in lacrime, debole e sconvolto, sorretto da
quelle stesse braccia che qualche attimo prima avevano lottato
contro la sua forza incontenibile.
«Voglio vedere mia figlia» implorò.
«Non è possibile» disse lei. «Mi dispiace.»
Un urlo metallico giunse dalla mano destra dell’uomo. Lund
si avvicinò e aprì le dita dell’uomo. La mano di un lavoratore.
Forte e segnata da cicatrici, la pelle dura come cuoio.
Lui non protestò quando lei gli tolse il telefono di mano e
guardò il nome sul display.
«Pernille. Sono Lund. Qualcuno sarà subito da lei.»
Poi chiuse la comunicazione, fece un cenno agli agenti perché
portassero via Birk Larsen e tornò alla Ford, nera e lucente, vici­
na al carro attrezzi.
Gli uomini della Scientifica si stavano già accalcando intorno
alla vettura. Tutte le procedure erano state avviate. Agenti con
tute protettive. Lund non aveva bisogno di vedere altro.
Auto nera. Scintillante. Meyer aveva ragione. Era così nuova,
così pulita.
Lund lo trovò che fumava vicino all’autogru.
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«Abbiamo il proprietario» disse, scuotendo la testa. «Non ci
crederai.»
Lund rimase in attesa accanto a lui.
«L’auto è intestata al comitato elettorale di Troels Hartmann»
disse Jan Meyer.
«Hartmann? Il politico?»
Con un solo dito Meyer lanciò la sigaretta verso il canale.
«L’assessore all’Istruzione. Il ragazzo da copertina. Già. Proprio lui.»
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