Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica durata: 94 MINUTI origine: ISRAELE anno: 2008 titolo originale: LEVANON regia: SAMUEL MAOZ sceneggiatura: SAMUEL MAOZ fotografia: GIORA BEJACH musiche: NICOLAS BECKER montaggio: ARIK LAHAV LEIBOVITZ (ARIK LAHAV-LEIBOVICH) scenografia: ARIEL ROSHKO arredamento: CHEN OHAYON costumi: HILA BARGIREL effetti: PINI KLAVIR produzione: METRO COMMUNICATIONS ARIEL FILMS distribuzione: BIM data uscita: 23 OTTOBRE 2009 vietato minori: 14 ANNI interpreti: YOAV DONAT (SHMULIK), ITAY TIRAN (ASSI), OSHRI COHEN (HERTZEL), MICHAEL MOSHONOV (YIGAL), ZOHAR STRAUSS (JAMIL), DUDU TASSA (PRIGIONIERO SIRIANO), ASHRAF BARHOM (FALANGISTA), REYMONDE AMSELLEM (MADRE LIBANESE) la parola ai protagonisti Samuel Maoz: note di regia Il 6 giugno 1982, alle 6:15 del mattino, uccisi un uomo per la prima volta nella mia vita. Non lo feci per scelta, né perché mi era stato ordinato. Fu un'istintiva reazione di autodifesa, un gesto privo di motivazioni emotive o intellettuali, dettato solo dal primordiale istinto di sopravvivenza che non prende in considerazione fattori umani, un istinto che si impone in una persona che si trova di fronte a una tangibile minaccia di morte. Il 6 giugno 1982 avevo 20 anni. Venticinque anni dopo quella infelice mattina che inaugurò la prima Guerra del Libano, ho scritto la sceneggiatura del film Lebanon. Mi ero già cimentato prima con il contenuto, ma ogni volta che iniziavo a scrivere, l'odore della carne umana carbonizzata riaffiorava nelle mie narici e mi impediva di continuare. Sapevo che quell'odore evocava scene indistinte che avevo sepolto nel profondo della mia mente. Dopo anni di trauma passivo e di violenti attacchi di rabbia, avevo imparato a identificare quel momento sinistro e a sfuggirvi in tempo. Meglio vivere nella negazione che non vivere affatto. Il 2006 fu un anno particolarmente difficile. Erano passati cinque anni dal mio ultimo progetto e mi sentivo svuotato. Ogni tanto producevo uno spot pubblicitario o un breve filmato promozionale, ma a parte questo, il nulla. Ancora una volta, subivo la pressione economica, la mia passività e un'esasperante mancanza di responsabilità. Una volta qualcuno mi chiese: “Come va con il trauma post-bellico? Ti capita di avere degli incubi quando ti torna in mente la guerra?” Magari fosse così semplice, pensai tra me e me. Quando senti di non aver nulla da perdere, sei disposto a correre dei rischi. Era così che mi sentivo all'inizio del 2007, quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di Lebanon. Avevo toccato il fondo e avevo deciso di raschiarlo. Questa volta, pur volendo fuggire dall'odore che come al solito si manifestò all'inizio, gli permisi di condurmi verso le scene indistinte, le misi a fuoco, mi ci im mersi e le affrontai. All'improvviso provai conforto e uno strano senso di euforia. Non ero ancora del tutto perduto! Avevo ancora uno spirito battagliero! Andai a letto presto e il mattino seguente mi alzai e mi misi a scrivere. Fui prudente, non affrontai l'argomento in modo diretto, ma girandoci attorno, scrivendo un'introduzione, sondando qua e là … Aspettai l'odore, ma non arrivò. Mi ritrovai a esercitare degli sforzi graduali per recuperarlo nella mia memoria, ma non c'era più. Anche le scene erano scomparse. Restava solo una vaga progressione di eventi difficili, spaventosi e particolarmente lontani. Dopo circa una settimana, mi resi conto di essere diventato emotivamente distaccato. Il ragazzo dei miei ricordi non ero più io. Provavo dolore per lui, ma era un dolore sordo, il dolore di uno sce- neggiatore affezionato a un personaggio di cui sta scrivendo. Non mi importava capire se ero guarito o se stavo semplicemente battendo il record mondiale della negazione. Ero sommerso dall'adrenalina e mi sentivo come un missile tremante sulla rampa di lancio un istante prima del decollo. Avevo steso la prima bozza della sceneggiatura nell'arco di tre settimane. Questa breve esperienza di scrittura è stata come un elettroshock per me, una scossa che mi ha risvegliato da una lunga ibernazione e ha resettato tutti i miei interruttori. Sangue nuovo è fluito nelle mie vene. Ero concentrato. Ero anche dispiaciuto per il tempo che avevo perduto, ma non ho lasciato che questo mi turbasse. Mi sono interamente dedicato al mio progetto e lui in cambio mi ha riabilitato – un anno di scambi reciproci in cui entrambe le parti sono emerse a testa alta! Uno splendido accordo di lavoro di cui sono fiero ancora oggi, perché il frutto che ne ho ricavato è me stesso. Abbiamo iniziato a girare le complesse scene di guerra: fiamme, sangue, spari, esplosioni. Volevo accelerare da zero a cento per inondare la troupe con la mia adrenalina! Tutto procedeva secondo i piani. Il primo giorno di riprese ero di ottimo umore e la fiducia nelle mie capacità abbondava. La sola cosa che mi turbava era un dolore acuto nel piede sinistro. Alla fine del secondo giorno il piede si era gonfiato. Ricordo che dissi a me stesso che dovevo essere fuori forma dopo tanti anni sprecati. Ma alla fine del terzo giorno, riuscivo a stento a camminare. Mi trascinavo zoppicando da un posto all'altro, con il dolore che mi trafiggeva la carne. Venne sul set un dottore e mi disse che avevo un'infezione molto aggressiva. Presi una doppia dose di potenti antibiotici e mi addormentai, ancora dolorante, ma completamente stordito. Venerdì: dodici ore di sonno ininterrotto. Il dolore era scomparso. Diedi un'occhiata al mio piede e vidi che sanguinava leggermente, ma che non era più gonfio. Accanto ad esso c'erano cinque piccoli frammenti di shrapnel, l'ultima testimonianza della Guerra del Libano che il mio corpo aveva improvvisamente deciso di espellere dopo 24 anni. Un'appropriata conclusione al mio intenzionale processo di auto guarigione. Gettai le schegge di metallo nella spazzatura e mi sedetti a fare un'abbondante colazione… Samuel Maoz: le riprese del film Ho scritto Lebanon completamente di pancia. Nessuna mediazione intellettuale ha guidato il mio percorso. Il mio ricordo degli eventi stessi era diventato confuso e sfumato. Non mi sono preoccupato delle convenzioni della scrittura, come introduzioni, ambientazioni dei capitoli o struttura drammatica. Quello che rimaneva vivido e doloroso era la mia memoria emotiva. Ho scritto quello che ho sentito. Volevo parlare delle ferite emotive, raccontare la storia di un'anima massacrata, una storia che non si potesse individuare nel corpo della trama, ma che scaturisse dalla sua interiorità più profonda. Come diavolo sarei riuscito a fare tutto questo in un film? Mi resi conto che dovevo fare a pezzi alcuni principi basilari e piegare alcuni rigidi impianti cinematografici, creando un'esperienza globale piuttosto che costruendo una trama. La decisione di realizzare un film esperienziale ha dato origine alla concezione cinematografica. Il mio principio di base esigeva la presentazione di un punto di vista personale e soggettivo. Il pubblico non avrebbe assistito allo svolgimento della trama, ma l'avrebbe vissuta insieme agli attori. Gli spettatori non avrebbero avuto informazioni supplementari, ma sarebbero rimasti bloccati dentro al carro armato insieme agli attori, con la loro stessa visione limitata della guerra e ascoltandola solo come la ascoltavano loro. Avremmo cercato di fare in modo che potessero anche sentirne l'odore e il sapore, usando le immagini e la colonna sonora non solo a scopo narrativo, ma anche per comunicare un'esperienza. Mi sono reso conto che per arrivare a una comprensione emotiva completa, dovevo creare un'esperienza totale. Quando fummo selezionati per partecipare al Cinemart di Rotterdam, incontrai Michel Reilhac di ARTE France, che mi chiese come pensavo di riuscire a fare interiorizzare un'esperienza così traumatica ad un attore. Questa domanda, apparentemente semplice, fu un duro colpo per me. Dopo tutto, chi meglio di me si rendeva conto e sentiva che non ci stavamo semplicemente misurando con una “esperienza difficile” nel significato convenzionale del termine? Come avrei potuto prendere un giovane attore di Tel Aviv e riuscire a fargli introiettare un trauma così estremo? Mi resi conto che dovevo aderire al principio esperienziale. L'attore avrebbe compreso e introiettato solo quello che sarebbe riuscito a sentire. Iniziai dalle cose basilari: invece di spiegare all'attore che dentro al carro armato fa caldo e si soffoca, lo rinchiusi in un container buio e torrido. Invece di descrivergli il panico estremo che si scatena quando un carro viene colpito da tutte le direzioni, percossi le pareti del container con delle sbarre di ferro. Rimase a bollire lì dentro per ore, nell'estenuante attesa del colpo seguente, gli spari dell'artiglieria! Una pioggia di razzi! E poi ancora lunghi minuti di snervante quiete. Quando uscì, sudato ed esausto, non sentimmo il bisogno di parlare. Le parole avrebbero solo rovinato l'esperienza. Dovevamo girare due tipi di scene: le scene all'interno del carro armato e le scene di battaglia all'esterno. Le scene nel carro armato sono state girate in studio e quelle di combattimento in due location: una piantagione di banane e una zona industriale abbandonata. Decisi di iniziare le riprese filmando le scene del combattimento, una battaglia che Shmulik, l'artigliere, vede attraverso il reticolo del suo congegno di mira. Ho fatto questa scelta perché un carro armato non produ- ce alcun effetto sul corso di una guerra, ma reagisce ai suoi imprevedibili capricci. Dovevamo filmare l'incidente mentre si produceva, prima che seguisse una reazione. Il carro armato era in realtà un enorme trattore. I paracadutisti facevano parte di un'unità compatta che era stata smobilitata tre mesi prima. La location avrebbe avuto l'aspetto di un'area urbana bombardata. Il fumo nero sullo sfondo l'avrebbe trasformata in un campo di battaglia. Trascorremmo otto giorni avvolti in una calda nube di sangue e fuoco, vivendo intense privazioni fisiche, con la troupe in pieno delirio. Abbiamo girato le scene in esterni ambientate in Libano senza lasciare Tel Aviv. Per rappresentare l'interno del carro armato abbiamo costruito un set. L'aspetto esterno era quello di un mostruoso insetto gigante come quelli dei film horror alla vecchia maniera ed era collocato nel centro del teatro di posa. Piazzai il mio monitor di fronte ad esso. Ci guardammo l'un l'altro in silenzio e in modo teso e io mi sentivo come Clint Eastwood prima della fatidica resa dei conti. In questo film ogni ripresa aveva bisogno in media di 4 o 5 membri della troupe: un operatore, un assistente operatore, un fonico, un microfonista e un macchinista. Per una ripresa del carro armato ne servivano molti di più: quattro per scuotere l'aggeggio, due per girare la torretta, uno per spargere il fumo, uno per far gocciolare i liquidi, uno per far lampeggiare le luci… Ben presto ci siamo trasformati in un complesso jazz perfettamente sincronizzato e in grado di stabilire un dialogo costante tra i vari componenti. L'ultimo giorno dovevamo girare una scena particolarmente complicata. Tutta la troupe era coinvolta e l'attore era l'unico sul set che aveva le mani libere per dare i ciak. Ma i momenti più intensi e toccanti sono stati quelli in cui gli attori smettevano di recitare, io smettevo di dirigere, il set era avvolto in un silenzio sacrale e tutti fissavano i monitor. Per osservare un'anima che veniva filmata... Samuel Maoz: la vita Sono nato a Tel Aviv nel 1962. A 13 anni, per il mio Bar Mitzva, ricevetti in dono una cinepresa a 8mm e quattro minuti di pellicola. Volevo ricreare una scena straordinaria di una sparatoria che avevo visto in un western che iniziava con una sequenza in cui un treno si avvicinava alla macchina da presa e passava sopra di essa. Fissai la mia cinepresa a una traversina del binario del treno in arrivo che la centrò in pieno e la ridusse in frantumi. Ma non mi diedi per vinto e quando compii 18 anni avevo già realizzato decine di cortometraggi. Il Corpo Corazzato è il proletariato delle Forze Armate israeliane. Se sei sano e non vuoi offrirti volontario nei Paracadutisti, è molto probabile che tu finisca nel Corpo Corazzato. Fu così che io entrai a far parte dell'equipaggio di un carro armato. Fui addestrato come artigliere, ma non colsi il vero significato dell'incarico. Sparavamo a dei barili pieni di benzina che esplodevano come gi- ganteschi fuochi d'artificio. Sembrava un parco di divertimenti per ragazzi cresciuti. La gente pensava che fosse “figo”. La guerra scoppiò nel giugno del 1982. Quando tornai a casa, mia madre mi abbracciò piangendo ed esprimendo la sua gratitudine al mio defunto padre, a Dio e a tutti coloro che mi avevano protetto e fatto tornare a casa sano e salvo. In quel momento non si rese conto che non ero tornato a casa sano e salvo. Anzi, che non ero affatto tornato a casa. Non sospettava minimamente che suo figlio fosse morto in Libano e che stava abbracciando un guscio vuoto. Nel 1987 ho completato i miei studi di cinema alla Beit Zvi Academy of the Arts. Ho fatto delle occasionali sortite con un paio di cortometraggi e ho vissuto sull'onda dell'inerzia del tempo che passa, ma mi ci sono voluti 20 anni per “tornare finalmente a casa” realizzando Lebanon. dure critiche dal libano a lebanon Un film fazioso, politicizzato, di parte: la stampa e i blog libanesi sparano a zero su Lebanon, la pellicola di Samuel Maoz vincitrice del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. "Quel film mostra solo il punto di vista di Israele", scrive il corrispondente in Italia del quotidiano libanese 'An-Nahar', vicino alla maggioranza di governo in Libano. "Mostra un'operazione di autodifesa dove l'altro non esiste, dove il nemico è nascosto, assente, trattato come un 'terrorista'". Per il quotidiano di Beirut, "il film, come ci attendevamo, cede alla tentazione di trasformare i carnefici in vittime o quasi...", sostiene il quotidiano. Il quotidiano libanese 'Al-Mustaqbal' ha parlato della pellicola come di un tentativo di cancellare 40 anni di "aggressione israeliana": "Il pubblico in Italia si è afflitto per le sofferenze di quei quattro soldati... E non per le vittime della guerra", sostiene il quotidiano libanese, secondo il quale "il film serve solo a mostrare la presunta umanità dello Stato sionista, che ha iniziato la guerra 'contro la sua volontà e 'in sofferenza'". Duro anche il giornale 'Al-Akhbar' vicino al movimento degli Hezbollah: "Molti pensano che sia un film contro la guerra e che quindi critica i conflitti intrapresi dallo Stato ebraico e dal suo esercito, ma in realtà non è minimamente critico", scrive 'Al-Akhbar'. Anche dai blog libanesi è arrivato un coro di critiche per un film teso a "umanizzare i soldati israeliani e non le vittime libanesi e palestinesi". Lebanon non sarà proiettato nel Paesi dei Cedri poichè le autorità di Beirut vietano la diffusione dei prodotti israeliani. recensioni Roberto Nepoti La Repubblica Vincitore dell'ultima Mostra di Venezia, Lebanon di Maoz Shmulik è la definitiva dimostrazione che il cinema israeliano si sta affermando come uno dei migliori del mondo: forse il migliore in assoluto di questi anni. È un film implacabile, duro e calcolato al millimetro, ma anche pieno di verità: non ti illustra una tesi, preferisce buttarti in faccia le evidenze. Durante la prima guerra del Libano, nell'estate del 1982, un plotone di paracadutisti e un carro armato devono perlustrare una città bombardata. Tutti sui vent'anni, i carristi sono Assi, il comandante; Shmuel, l'artigliere; Ygal, il conducente; Herzl, che carica le armi. Nessuno di loro è un guerriero, la disciplina non si può dire ferrea. Quando gli israeliani perdono il controllo della situazione e sono circondati dalle milizia siriane, i carristi si ritrovano in uno spaventoso isolamento. Se il "film di carro armato" è un filone del warmovie (Belva di guerra), mai si era visto utilizzo più impressionante della claustrofobia che lo contraddistingue. Con il rumore della ferraglia nelle orecchie, l'eco delle detonazioni più lontano, lo spettatore si sente intrappolato nell'angusto spazio interno del corazzato, condivide l'ottica dei soldati, che è (ecco il segreto stilistico del film) un'ottica monca, limitata a una sola porzione dello spazio circostante, ma che pure permette di vedere le vittime del carro armato osservare loro quattro, i carnefici. Senza mai barare, il film gioca serrato con i nervi del pubblico, al quale è facile identificarsi con quattro giovani dalle belle facce precipitati nell'orrore. Storia di perdite dell'innocenza (di alcuni giovani, di una nazione...), Lebanon è un'opera senza sconti, che non ti lascia per molte ore dopo la visione. Fabio Ferzetti Il Messaggero Ci voleva un leone d’oro per segnalare a dovere l’onda montante del cinema israeliano. Sottolineando le linee guida del lavoro di una nuova generazione di registi, fra cui la guerra occupa un posto di riguardo. Ambientato tutto all’interno di un carroarmato salvo due fulminanti inquadrature, Lebanon di Samuel Maoz è quasi la prosecuzione con altri mezzi di Valzer con Bashir, il capolavoro di Ari Folman che ha cambiato la storia del cinema di guerra e d’animazione. Anche qui siamo in Libano nel maledetto 1982, anche Maoz attinge a terribili ricordi personali che è riuscito ad affrontare solo vent’anni più tardi. Al posto di Sabra e Chatila però c’è una “banale” missione di guerra. Mentre al filtro dei disegni animati corrisponde la scelta stilistica di non uscire mai dal blindato (dice un motto all’interno del mezzo: “L’uomo è d’acciaio, il carrarmato solo ferraglia”). Anche l’esterno viene dunque visto solo attraverso l’occhio gelido del mirino, implacabilmente lontano ma anche orribilmente vicino all’inferno là fuori. Si pensa ai film di sommergibili di una volta, ma è un attimo. E se uscendo dalla sala è facile razionalizzare, perché in fondo ogni film bellico parla di orrori senza nome, di conflitti di potere, di crimini di guerra, Lebanon riesce a fondere con grande forza due piste. Quella “umana”, accentuata dalla claustrofobia di fondo (il soldato che si ribella, il comandante che usa le proibitissime bombe al fosforo, il falangista cristiano che entra nell’abitacolo e descrive al prigioniero siriano, in arabo, le torture che lo aspettano il giorno dopo, etc.). E quella più propriamente di guerra, con nefandezze ai danni dei civili che gettano una luce sempre più sinistra sul groviglio della guerra israelo-libanese. Anche se poi la scena più toccante del film è quella in cui un carrista rievoca un episodio della sua infanzia mescolando sesso e morte, l’eccitazione della prima volta e il giorno in cui perse suo padre. E lo fa usando solo parole. Lietta Tornabuoni La Stampa «Il 16 giugno 1982, alle 6,15 del mattino ho vissuto gli orrori della guerra per la prima volta sulla mia pelle. Ho reagito con un istintivo gesto di autodifesa. Avevo vent'anni». Il regista israeliano, 47 anni, parla della prima guerra con il Libano, alla quale partecipò come artigliere. Eppure Lebanon non è un film di guerra. E' la storia di quattro ventenni chiusi dentro un carro armato, sporchi e assediati dal caldo, senza spazio, senz'aria, senza potersi muovere né poter gridare, pisciare, fumare, senza poter vedere cosa accadeva all'esterno salvo che attraverso il mirino, senza riuscire a dominare l'ostilità reciproca nata dalla paura di dare e ricevere morte. Un'esperienza dura per quattro giovani contemporanei privi di esperienza bellica, abituati alla vita comoda. La storia vera di sopravvivenza mentre i nemici (bambini, donne, vecchi), il senso di soffocamento e di prigionia sono raccontati molto bene, con realismo sobrio ed efficace. Quando il regista Maoz tornò a casa, emigrò subito negli Stati Uniti; ha dovuto lasciar passare venticinque anni prima di riuscire a raccontare quella storia. Il film ha ricevuto quest'anno a Venezia il Leone d'oro. Maurizio Cabona Il Giornale Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2009, Lebanon è - come Valzer con Bachir, presentato al Festival di Cannes 2008 - una revisione dell’occupazione del Libano nel 1982. Potrebbe essere teatro filmato. Invece, per la bravura di Maoz, è un vero film e dà vera angoscia. Realmente carrista allora, il regista ha avuto miglior sorte che i suoi personaggi, militari di leva non all’altezza del loro nuovo mestiere: ammazzare chi potrebbe ammazzarli. E anche chi è soltanto nei paraggi, quando alla paura subentra il terrore. Valerio Caprara Il Mattino Vincitore non a sorpresa del Leone d’oro a Venezia, Lebanon colpì subito i festivalieri per l’ambientazione claustrofobica. Il film di Samuel Maoz non ha infatti una tesi da sostenere, non è pro né contro il proprio paese (Israele) e vuole soprattutto ricreare il diapason di paura e angoscia connaturato alle azioni belliche. Le prime ore della guerra in Libano del giugno ’82 sono rievocate dall’angusta prospettiva del quartetto d’inesperte reclute intrappolate in un tank israeliano, al cui interno si svolge tutto il film (salvo la prima e l’ultima inquadratura): ai primi piani dei soldati si aggiunge il campo di battaglia ripreso dall’obiettivo inserito nel mirino mobile, una trovata non nuovissima, ma certo iperrealistica anche perché da un certo punto in poi la lente si ritrova crepata per colpa di un razzo nemico. Ne consegue una visione faticosa per le infinite giravolte della macchina da presa incollata ai volti di tutti i personaggi, dai carristi sporchi e stravolti ai brutali falangisti, dai terroristi arabi ai civili terrorizzati, nonché per il rumore assordante di ferraglia che si mischia a quello altrettanto spaventoso delle azioni belliche. Al regista non interessano la riflessione sul conflitto e la graduatoria fra le disgrazie umane, quella che vuole sviscerare è la condizione di chi non è pronto a uccidere o morire e aspira solo a tornare a casa: tra i dettagli di volta in volta macabri, sanguinari, estetizzanti, melodrammatici, il ricordo va a certa efficace serie B americana piuttosto che ai classici d’autore pacifisti. Michele Anselmi Il Riformista Hai voglia a dire che «l'uomo è d'acciaio, il carro armato solo ferraglia». Esce, in un week-end troppo affollato, il Leone d'oro veneziano: Lebanon di Samuel Maoz, esordiente 47enne che la guerra l'ha fatta davvero, proprio da artigliere di un F-15. La storia la conoscete: il 6 giugno 1982, durante la prima guerra del Libano, un tank israeliano si ritrova isolato in territorio nemico. Sembra una missione tranquilla (perlustrare una cittadina bombardata), invece si trasforma in un incubo per i quattro carristi: giovani, inesperti, facili al panico. La forza stilistica del film nasce dal punto di vista adottato: l'occhio della cinepresa perlopiù coincide col mirino elettronico semovente, completo di visore notturno, usato dall'artigliere per osservare quanto accade all'esterno. A prima vista invincibile, l'ammasso di ferro blindato si trasforma in una sorta di prigione, tra pozzanghere d'olio, cibo sbriciolato, cicche galleggianti, puzza di piscio. «La guerra sia che si vinca sia che perda / è sempre merda», rimava il Testori nel "Macbetto". Un'immagine fosca e terribile cui Lebanon aderisce sin dall'inizio, quando, temendo il peggio, il capocarro ordina di ridurre in poltiglia un furgone pieno di galline che avanza a tutta velocità. Teso e duro il film si inserisce, insieme a Valzer con Bashir, in una sorta di bruciante riflessione sui danni, per nulla collaterali, provocati dalla guerra permanente. Niente viene nascosto, incluso l'eufemismo («fumo ardente» al posto di fosforo) usato per non incorrere in sanzioni internazionali. Roberta Ronconi Liberazione Prima guerra del Libano, anno 1982. Un carro armato viene inviato a controllare una piccola cittadina ostile in cerca di nemici. Dentro il cingolato, un artigliere, un capocarro, un servente e un pilota. Le pareti grondano grasso e umido, il pavimento è una lamiera putrida e melmosa. Dallo schermo trasuda puzza di piscio e di paura. Questo è il luogo dell'azione di Lebanon, e i quattro soldati stipati e puzzolenti ne sono i protagonisti. Ottime premesse per un film originale sulla guerra (a primo sguardo, ottiene lo stesso effetto di No man's land di Tanovich), avvalorato il tutto dal dato autobiografico del regista. Samuel Maoz nasce a Tel Aviv nel 1962 e nel giugno del 1982 uccide il suo primo uomo in guerra. In Lebanon ha voluto, non tanto raccontare l'evento o i fatti di quel conflitto, quanto realizzare un film esperienziale, in cui lo spettatore fosse costretto a vivere quello che vivono i soldati dentro il carrarmato, senza sapere più o meno ciò che loro stessi sanno. Un film opera prima, che Venezia ha deciso di premiare con il Leone d'Oro. Premio come al solito di compromesso che sopravvaluta un film mediamente meritevole. Maoz infatti riesce nell'operazione claustrofobica e nella sensorializzazione dello schermo, ma costruisce attorno ai quattro personaggi storie altamente stereotipate, dall'esito tristemente prevedibile. Assai discutibile (e infatti ha fatto assai discutere) inoltre la scelta di mostrare un "esterno" al carro armato tutto nemico, ostile, pericoloso, rivoltando così a favore di una sola parte in gioco la realtà del ruolo vittima-carnefice nel confronto israelo-libanese. Ma Lebanon ha ricevuto aspre critiche anche in casa, nella stessa Israele, dove in molti hanno trovato reprimevole la scelta del regista di far interpretare i soldati israeliani a quattro attori che in realtà hanno "marcato" il servizio militare obbligatorio. Notizie di contorno, queste, e non certo fondamentali per la visione del film. Rimane invece il dato di una pellicola di buon impatto emotivo, ma scarsa nella scrittura e ingenua nel disegno complessivo. Un Leone d'oro immeritato, mentre invece il prezzo del biglietto è ben speso. Maria Lombardo La Sicilia Al cinema come alla guerra. Lebanon»ti fa sentire, pur seduto in sala, dentro quella maledetta guerra che dilaniò il Libano felix negli anni Ottanta. Apocalypse now o Platoon come film di genere sono niente in confronto all'opera Leone d'oro all'ultima Mostra del cinema di Venezia. Appunto è come essere dentro quel blindato, dove quasi esclusivamente si svolge la storia, con la paura di morire e il rigetto emotivo e morale dell'ordine di uccidere, la soppressione di ogni pietà, la nausea per il sangue, e per il puzzo degli escrementi: soprattutto la voglia di scappare, esattamente quella che coglie lo spettatore che poi però resta inchiodato perchè questa realtà è da provare per non caderci più. Ed è quello il messaggio del film. Ai soldati chiusi nel carro armato "rinoceronte" viene ordinato di sparare su tutto ciò che si muove anche su un povero contadino che avanza con l'auto piena di galline, di sparare su una famiglia raccolta su un terrazzino. E la disperazione della giovane donna cui viene uccisa la figlioletta trova un attimo di pietà nella tregua del soldato. Molte immagini sono davvero crude: arti troncati e sanguinanti, vite tranciate senza un perchè. Nessun compiacimento tuttavia. L'ordine è che il "rinoceronte" travolga tutto e tutti. Il crudo realismo e una fotografia che scolpisce, i campi stretti - certo la ripresa è stata molto difficoltosa in uno spazio così limitato - l'interpretazione super degli attori, ci consegnano un'opera di alto valore cinematografico ed etico: un no deciso contro la barbarie della guerra che rende bestie anche i buoni. Samuel Maoz in questo film ha messo la sua esperienza di carrista nell'esercito israeliano in Libano nel 1982 elaborando il trauma della guerra in chiave non visionaria e favolistica come Valzer con Bashir di Ari Folman ma nella crudezza del racconto che si scioglie solo in poche delicate immagini: l'abbagliante lacrima che scorre dall'occhio di un asino ferito, il campo di girasoli sterminato della nostra indifferenza su cui si apre e si chiude il film. Silvio Danese Quotidiano Nazionale Gruppo di guerra in un interno. Ormai è chiaro, c'è un «nuovo cinema israeliano», acuto, con molte cose da dire. Qui si fa cinema in una gabbia per tutta la durata del film. La paura, l'onore, la morte di 4 soldati israeliani inesperti, chiusi in un carro armato. Si guarda fuori soltanto dal mirino. E fuori c'è una missione incerta, con attacchi insensati (dettagli di un musulmano a pezzi o di una famiglia sterminata), superiori incombenti (il capitano che pretende le vietate «bombe al fosforo»), falangisti cristiani selvaggi (il militare che spiega al prigioniero siriano come gli taglierà il pene). L'ambientazione claustrofobica è una sfida, impressiona e informa, ma è accompagnata dall'evidenza di un artificio non temperato. Ha vinto la Mostra di Venezia e ha diviso la critica.